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ATTUALITA'

Piergiorgio Paterlini

Pasolini se l'è andata a cercare?

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Ricordo ogni dettaglio di quella mattina di 35 anni fa, 2 novembre 1975. Avevo 21 anni. Ricordo dov'ero cosa facevo chi c'era con me e di che colore era il cielo fuori dalla finestra mente la radio mi raggelava con la notizia che il corpo straziato di Pier Paolo Pasolini – inconfondibile eppure quasi irriconoscibile e che poi avremmo visto grazie alle fotografie dell'Espresso, con quell'incubo di rossi e viola – quel corpo era stato trovato sul litorale di Ostia.

Ci sono stati anni in cui di Pasolini non si è parlato mai.

Quest'anno se n'è parlato. Tutto è ruotato intorno alla riapertura della vergognosa non-inchiesta condotta all'epoca su quell'assassinio, ma più ancora al rinvenimento e alla riscomparsa di un capitolo di Petrolio, il libro cui stava lavorando Pasolini prima di morire, capitolo che avrebbe collegato la morte di Enrico Mattei a Eugenio Cefis. Solo che queste benedette o maledette 78 pagine trafugate, pare, dalla sua casa dopo la morte sarebbero in possesso di quel gentiluomo che risponde al nome di Marcello Dell'Utri (sì, lui, il bibliofilo delle letture pubbliche dei diari di Mussolini) che aveva promesso di divulgarle il 14 marzo ma che non sono mai effettivamente apparse.

Muove da questo "giallo" un intervento di Carlo Lucarelli sulla prima pagina di Repubblica del 31 marzo, cui si rifà Marco Belpoliti sulla Stampa del primo aprile e poi in successive repliche.

Lucarelli parte subito male. «Se Pier Paolo Pasolini – scrive – non fosse Pier Paolo Pasolini forse ragionare sulla sua morte non sarebbe così importante». Ah sì? Perché non sarebbe degno di attenzione un poveraccio orrendamente straziato da un gruppo di assassini e che aspetta giustizia da 35 anni? (Questo, che fosse un gruppo di assassini, adesso è certo, poi chi fossero e da chi mandati e perché si può discutere e soprattutto va accertato, ma che fossero più d'uno e non Pino Pelosi è un fatto).

Ma questo è nulla. Perché Lucarelli certo chiede di sapere finalmente chi e perché ha ammazzato Pier Paolo Pasolini. Ma non tanto questo, o meglio lo vuole sapere perché in realtà vuole – letteralmente – «sapere se un maestro di scrittura e di ragionamento, l'uomo sul cui "lo so" ho formato gran parte del mio sentire sia un violentatore di ragazzini oppure no».

Mi è caduto il giornale, quando ho letto quelle righe. Caro Lucarelli, se mi telefonavi, te lo dicevo io, senza scomodare Repubblica, e facevamo prima. E non serve un nuovo processo per stabilire questa verità. Pasolini è stato un violentatore di ragazzini? La risposta è no. E anche: ma come capperi ti viene in mente?

Poiché è il piano morale che interessa a Lucarelli, e anche a me, sento di poter affermare che pagare un ragazzo di 17 anni e 4 mesi – quali ne aveva Pelosi allora – per un rapporto sessuale, un ragazzo italiano, fuori da ogni mafia e racket dell'immigrazione, che faceva questo liberamente, non è "violentare". Sarà qualunque cosa deprecabile, ma sicuramente non è violentare. Violentare si dice quando un padre stupra il figlioletto di quattro anni (e ce ne sono, più di quanti si immagini). Violentare si dice se da una parte c'è un ragazzino di 11 anni che fa il chierichetto e dall'altra il suo parroco che lo "molesta", cioè un ragazzino davvero piccolo, e soprattutto un adulto che ha autorità morale su di lui, che potrebbe dire chissà cosa ai genitori, eccetera. Lì non c'è autodifesa possibile. Ma non certo con uno che passa in macchina nella zona dei marchettari di piazza dei Cinquecento, uno che se per caso avesse anche preso un granchio su cosa tu ci faccia lì, verso mezzanotte, gli puoi sputare tranquillamente in faccia, e gridargli "brutto frocio schifoso vattene". Caro Lucarelli, sono sicuro che se appena ti concentri un po' potresti arrivare persino da solo a capire questa abissale differenza, e usare le parole come dio comanda.

Nel trentacinquesimo anniversario del suo brutale assassinio, vorrei dunque rassicurare i tanti Lucarelli che sicuramente ci sono in giro: stiano tranquilli, Pasolini non era un violentatore di ragazzini. Non lo è mai stato. Possiamo pensare qualunque cosa della sua sessualità, della sua moralità, ma metterci tranquilli su questo, almeno su questo, come siamo certi delle mille forme di violenza che per tutta la vita lui ha subìto non inflitto a causa del suo amore dichiarato ed esplicito (e spesso slegato dal denaro) per i ragazzi.

Marco Belpoliti si muove su ben altro livello. Prende per buona la lettura del "caso Pasolini" che Nico Naldini fa da sempre, e ci mette del suo. Dice Belpoliti: facciamoli davvero i conti con Pasolini, ma basta parlare di complotti, di misteri e segreti (Emanuela Orlandi, il Vaticano, la Banda della Magliana me li sono evidentemente inventati io, per dirne una), facciamo i conti con la sua particolare omosessualità (rivolta ai ragazzi eterosessuali) sua chiave di lettura di tutta la realtà. Belpoliti, intelligentemente, rilancia: dimentichiamolo – anzi lui dice: «seppelliamolo, finalmente» – per ricordarcene, e accusa la sinistra di questa rimozione: naturalmente una botta alla sinistra non si nega mai, anzi questo è un ritornello senza cui non si può scrivere un elzeviro nemmeno sulle caratteristiche nutritive del pesce spada.

Il fatto è che Belpoliti – contro ogni evidenza (nuovi testimoni, impronte, incongruenze di ogni tipo, un maglione che non si è mai saputo di chi fosse eccetera eccetera) – per avvalorare chissà come il suo omaggio sostiene che non solo è stato quel poverino indifeso di Pelosi a ucciderlo, dopo che Pier Paolo aveva perso la testa, ma che Pasolini se l'è andata a cercare. Lui e Naldini questo pensano dicono e scrivono. Un mucchio di paroloni – tra una "hybris" di qua e una "hybris" di là – per arrivare a questa, scusate, vecchissima e avvilente conclusione da bar sport. Mentre si discetta di un Poeta che non può vivere nella realtà ma soltanto dentro le proprie visioni (Belpoliti), mentre leggiamo di Destino Alto e Tragico di un Poeta Altissimo, Destino Alto e Tragico verso il quale eroicamente il Poeta sarebbe andato incontro consapevolmente, anzi cercandolo (i Poeti devono espiare, quelli come Pasolini più di tutti) poi quello che comprendiamo bene è ciò che Nico Naldini dice in pubblico e in privato da oltre trent'anni con meno giri di parole: che il cugino Pier Paolo era uno che si era sempre voluto "divertire" troppo, che più passavano gli anni più perdeva anche quel minimo di autocontrollo (precoce demenza senile?), che o non si rendeva conto del pericolo o vi andava incontro alla sbarazzina, uno che da sempre si era ficcato nei guai, e prima o poi sarebbe finito male, e che lo sapeva, anzi, inconsciamente lo cercava.

Non è a Pasolini che andava il sangue alla testa vedendo un ragazzino con i riccetti, è a me che va il sangue alla testa a leggere queste porcherie. Perché il "se l'è cercata" – comunque camuffato da poesia o da post-freudismo – è l'insulto massimo che si fa da sempre a una vittima, massima ingiustizia, colmo della viltà. Proprio come alle donne violentate cui si dice(va) che era colpa loro, che se volevano evitare i bruti non dovevano mettere quei vestiti provocanti, e che mentre urlavano no in realtà il loro inconscio voleva dire sì. Intollerabile. La vittima che diventa colpevole. Di più: colpevole di essere vittima.

Caro Belpoliti, a costo di dimenticare l'essenza di Pasolini (ma non credo) io voglio sapere, pretendo di sapere da chi fosse composto quel branco di assassini: se fascisti, se scherani dei servizi segreti, o altro. E che staranno sghignazzando a leggere – sempre che sappiano leggere, ben inteso – le ardite arrampicate sugli specchi di questi nostri intellettuali.



Piergiorgio Paterlini



Scrittore e giornalista, autore per il teatro e per il cinema (il recente Niente paura presentato all'ultimo festival di Venezia), fondatore insieme a Michele Serra del giornale satirico Cuore ha scritto tra l'altro: Ragazzi che amano ragazzi(Feltrinelli), I brutti anatroccoli(Feltrinelli), Lasciate in pace Marcello(EL), Non essere Dio. Un'autobiografia a quattro mani, con Gianni Vattimo (Aliberti editore).



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