ATTUALITA'
Alfredo Ronci
Predicar bene e razzolar male: difetto della critica indigena o 'virtù' che si fa necessità?
Sì appunto, predicar bene e razzolar male. Scrive, ahinoi, Giovanni Pacchiano sull'inserto domenicale dei libri de Il sole 24 ore a proposito del libro di Viola Di Grado Settanta acrilico trenta lana, pubblicato recentemente dalla E/O: Ha scritto un romanzo così poco italiano, lontano anni luce dalle tendenze della nostra narrativa giovane: niente storie di formazione, niente provincia e colore locale, niente calligrafismo o finta disinvoltura. E le pagine finali, benché drammatiche, sono ben distanti dallo splatter o dal sensazionalismo.
Bene Pacchiano: anch'io sottoscriverei il dettato ma, purtroppo, lo stesso una ne dice quattro ne pensa e poi ci scrive. Sorvolando sulla sciocchezzuola dello splatter e del sensazionalismo (già su queste colonne si concionava dei vecchi cannibali ingrigiti e invecchiati precocemente... e quindi mi chiedo di quale narrativa sensescional va cianciando), è curioso che il critico analizzi la necessità di una prosa fuori dalle pastoie provinciali e locali e per contraltare elevi peana a uno scrittore come Faletti ('grande scrittore' come lo stesso Pacchiano ha avuto modo di affermare sempre sulle colonne dell'inserto di cui sopra) che fa della delocalizzazione geografica e quindi letteraria un suo punto di forza, ma solo per puri scopi commerciali.
Deve sfuggirmi qualcosa: deve sfuggirmi cioè l'essenza della ricerca della critica nostrana, che se da una parte lancia lai sistematici alla pochezza della materia, dall'altra di questa materia si fa non solo esegeta ma addirittura supporter.
Come si dice dalle nostra parti: mettetevi l'anima in pace una volta per tutte.
Personalmente, visto che mi ci trovo, di questo esordio della Di Grado mi permetto di offrire sensazioni diverse, del tutto opposte all'esimio critico, ma non mi permetterei mai di sfidarlo a tenzone.
Libro di cui si (stra)parla a dovere (ma la E/O fa bene a insistere, perché è tempo di batter ferro finché è caldo): e non sarebbe male se fosse voce originale e stimolante. Ma personalmente oltre gli strilli in quarta di copertina non odo parole che dici umane.
Storia che è favoletta, che farebbe coppia con Amelie e che nasconde l'inclinazione tutta femminile di cercar riposo e ristoro da questo mondo di orchi (tiè) maniaci e violentatori (per carità, sacrosanta epperò!), ma che ad una seconda lettura mostra il fiato corto perché la risposta ad un mondo sordo non può essere una terra di muti.
Qualcuno mi disse tempo fa che la scienza della letteratura non s'addice alle donne (bestemmia!) che fa pari con quell'acido aforisma di Busi che diceva che non è concepibile che una donna, con tutto quello che deve fare ancora per diventare 'uomo', perda tempo a scrivere cose che interesserebbero a nessun uomo e a pochissime donne.
Se insistessi sul tema sarei linciato, ma la Di Grado, utilizzando metafora fiabesca, nel territorio della scrittura per non perder tracce di sé lascia in terra molliche di pane, non sassolini... e si sa... basta un uccellino, o quei corvacci che ormai son costume delle città, per ritrovare il nulla.
Prova a mischiare le carte, come quando racconta di Leeds, la città inglese della storia, e principia così, come se fosse un 'c'era una volta': Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l'inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver vissuto cosa c'era prima. E continua (pag.18): Saranno state le sette del mattino ma tanto fuori era il buio come a ogni rispettabile ora della giornata di Leeds. Le ore di luce qui sono oggetto di razzismo, le ghettizzano dietro le tende. E ancora (pag.53): Ho letto che gli astronauti vengono addestrati in Islanda perché il paese è simile a quello lunare. I malati terminali invece sono certa che li portano a Leeds per abituarli alla morte.
Solo facezie: mi chiedo se non sia lo stesso meccanismo perché un uomo di cultura e proprio perché tale, predisposto ad una ovvia e non convenzionale disamina del mondo, se ne esca poi fuori con sesquipedali fesserie fuori dal mondo stesso.
Si diceva storia come fiaba: la resistenza della protagonista (e della di lei madre) alla vita. Poi l'incontro della prima con un ragazzo giapponese che rifiuta il sesso (ma non il fratello più piccolo che invece consuma con la stessa) e l'incontro della seconda, che ha imparato a fotografar buchi (sì buchi... nei soffitti, per le strade, nel legno e nel cemento, per fortuna nostra non quelli anatomici!), con un uomo attraente che le risolleva l'animo. E poi la tragedia finale... che non vi racconto.
Tutto permeato di falsa realtà che fa dire all'editore: scrittura nuova e potente. E in seconda di copertina: opera prima di grande maturità. E al Pacchiano stesso: notevolissimo romanzo d'esordio.
Vorrei non obiettare sulla maturità, ma sulla specifica: quella classica? Sì perché lei, la Di Grado, è giovanissima, ventitre anni, e campa cavallo mio che la pienezza espressiva è lungi da venire.
Ma si sa è giovine creatura, come tante e come i cachi: prima o poi maturano sugli alberi. L'importante che non cadano per ingommarsi o addirittura preda della voracità degli uccelli. Gli stessi di prima, quelli che divorano mollichine.
Bene Pacchiano: anch'io sottoscriverei il dettato ma, purtroppo, lo stesso una ne dice quattro ne pensa e poi ci scrive. Sorvolando sulla sciocchezzuola dello splatter e del sensazionalismo (già su queste colonne si concionava dei vecchi cannibali ingrigiti e invecchiati precocemente... e quindi mi chiedo di quale narrativa sensescional va cianciando), è curioso che il critico analizzi la necessità di una prosa fuori dalle pastoie provinciali e locali e per contraltare elevi peana a uno scrittore come Faletti ('grande scrittore' come lo stesso Pacchiano ha avuto modo di affermare sempre sulle colonne dell'inserto di cui sopra) che fa della delocalizzazione geografica e quindi letteraria un suo punto di forza, ma solo per puri scopi commerciali.
Deve sfuggirmi qualcosa: deve sfuggirmi cioè l'essenza della ricerca della critica nostrana, che se da una parte lancia lai sistematici alla pochezza della materia, dall'altra di questa materia si fa non solo esegeta ma addirittura supporter.
Come si dice dalle nostra parti: mettetevi l'anima in pace una volta per tutte.
Personalmente, visto che mi ci trovo, di questo esordio della Di Grado mi permetto di offrire sensazioni diverse, del tutto opposte all'esimio critico, ma non mi permetterei mai di sfidarlo a tenzone.
Libro di cui si (stra)parla a dovere (ma la E/O fa bene a insistere, perché è tempo di batter ferro finché è caldo): e non sarebbe male se fosse voce originale e stimolante. Ma personalmente oltre gli strilli in quarta di copertina non odo parole che dici umane.
Storia che è favoletta, che farebbe coppia con Amelie e che nasconde l'inclinazione tutta femminile di cercar riposo e ristoro da questo mondo di orchi (tiè) maniaci e violentatori (per carità, sacrosanta epperò!), ma che ad una seconda lettura mostra il fiato corto perché la risposta ad un mondo sordo non può essere una terra di muti.
Qualcuno mi disse tempo fa che la scienza della letteratura non s'addice alle donne (bestemmia!) che fa pari con quell'acido aforisma di Busi che diceva che non è concepibile che una donna, con tutto quello che deve fare ancora per diventare 'uomo', perda tempo a scrivere cose che interesserebbero a nessun uomo e a pochissime donne.
Se insistessi sul tema sarei linciato, ma la Di Grado, utilizzando metafora fiabesca, nel territorio della scrittura per non perder tracce di sé lascia in terra molliche di pane, non sassolini... e si sa... basta un uccellino, o quei corvacci che ormai son costume delle città, per ritrovare il nulla.
Prova a mischiare le carte, come quando racconta di Leeds, la città inglese della storia, e principia così, come se fosse un 'c'era una volta': Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l'inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver vissuto cosa c'era prima. E continua (pag.18): Saranno state le sette del mattino ma tanto fuori era il buio come a ogni rispettabile ora della giornata di Leeds. Le ore di luce qui sono oggetto di razzismo, le ghettizzano dietro le tende. E ancora (pag.53): Ho letto che gli astronauti vengono addestrati in Islanda perché il paese è simile a quello lunare. I malati terminali invece sono certa che li portano a Leeds per abituarli alla morte.
Solo facezie: mi chiedo se non sia lo stesso meccanismo perché un uomo di cultura e proprio perché tale, predisposto ad una ovvia e non convenzionale disamina del mondo, se ne esca poi fuori con sesquipedali fesserie fuori dal mondo stesso.
Si diceva storia come fiaba: la resistenza della protagonista (e della di lei madre) alla vita. Poi l'incontro della prima con un ragazzo giapponese che rifiuta il sesso (ma non il fratello più piccolo che invece consuma con la stessa) e l'incontro della seconda, che ha imparato a fotografar buchi (sì buchi... nei soffitti, per le strade, nel legno e nel cemento, per fortuna nostra non quelli anatomici!), con un uomo attraente che le risolleva l'animo. E poi la tragedia finale... che non vi racconto.
Tutto permeato di falsa realtà che fa dire all'editore: scrittura nuova e potente. E in seconda di copertina: opera prima di grande maturità. E al Pacchiano stesso: notevolissimo romanzo d'esordio.
Vorrei non obiettare sulla maturità, ma sulla specifica: quella classica? Sì perché lei, la Di Grado, è giovanissima, ventitre anni, e campa cavallo mio che la pienezza espressiva è lungi da venire.
Ma si sa è giovine creatura, come tante e come i cachi: prima o poi maturano sugli alberi. L'importante che non cadano per ingommarsi o addirittura preda della voracità degli uccelli. Gli stessi di prima, quelli che divorano mollichine.
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