ATTUALITA'
Adriano Angelini
Prima della Rivoluzione (zapatista). Sbarca anche in Italia la saga di Luis Alberto Urrea
Il Messico che si preparava a vivere l'avvenimento più importante della sua recente storia contemporanea era un luogo strano. Povertà e sfruttamento facevano il paio con il diffondersi sempre più ampio di proprietari terrieri collusi col potere yankee dell'ennesimo dittatore amico del vicino governo di Washington, Porfirio Diaz (i metodi sono stati sempre quelli). Il malcontento tuttavia imperava. I nativi e gli indiani si ritrovarono in poco tempo a fare da manodopera schiavizzata non solo ai patròn delle tante haciendas in mano a poche famiglie, ma nelle miniere e nelle nascenti aziende petrolifere che gli anglo-americani saccheggiarono. Buona parte del popolo, messo alla fame, doveva ascoltare le litanie false di quel simil nano (senza lifting) ante-litteram che parlava di pacificazione e industrializzazione.
Una hacienda ancor più strana in quel tempo pre-rivoluzionario (l'ultimo decennio del 1800), era guidata da un patròn illuminato, tale Tomas Urrea, un uomo alto, baffi, dinoccolato, tratti somatici ispano europei. Egli, oltre a gestire i suoi possedimenti con fare da gentiluomo e pacifico, difendeva i nativi e gli indiani (o almeno tentava di farlo); sia che lavorassero per lui sia che venissero espropriati delle loro terre. Urrea, però, aveva un difetto (o pregio, dipende); amava le donne. Molto. E, oltre alla sua famiglia 'naturale' con la bella moglie Loreto e i suoi 4 o 5 figlioletti, ogni tanto ritrovava, sparso per el potrero (gli insediamenti di baracche in cui vivevano i suoi lavoratori), qualche bel pargoletto meticcio. Uno in particolare, una pargoletta mezza indiana e mezza bianca, è la protagonista del romanzo che vi stiamo raccontando e che è in uscita in Italia in questi giorni per XL Edizioni, La Figlia della Curandera.
Tomas Urrea, in realtà, è un antico parente di Luis Alberto, lo straordinario scrittore ispano americano, nato a Tijuana ma residente a Naperville, Illinois, dove insegna scrittura creativa all'università di Chicago, e autore di questa saga di cui La Figlia della Curandera è il primo capitolo. Urrea è poco noto al pubblico italiano, per sfortuna. Nel 2008 XL Edizioni ha pubblicato il suo saggio narrato L'autostrada del diavolo, finalista al premio Pulitzer nel 2005, in cui ricostruisce un fatto di cronaca vera, la tragica epopea di un gruppo di messicani che tentano di passare la frontiera con gli Stati Uniti. Adesso, dopo aver avuto uno straordinario successo di vendite negli Stati Uniti, e dopo che Hollywood ha acquisito i diritti di riproduzione cinematografica (il film dovrebbe essere diretto da Luis Mandoki e avere come protagonista Antonio Banderas), La Figlia della Curandera arriva anche da noi.
La bellezza del romanzo, oltre che per una trama avvincente e per la capacità dell'autore di far vivere i suoi personaggi come solo i grandi narratori ottocenteschi, è dovuta a una ricchezza linguistica a tratti esuberante. Della serie, le invenzioni linguistiche della grande narrativa sud americana incontrano il rigore sintattico della scuola anglo-americana; risultato: pirotecnico. Con i personaggi che quasi escono dalla pagina. La pargoletta meticcia protagonista della storia si chiama Teresita ed è figlia di Cayetana Chavez, la Semalù, detta il Colibrì, uccello divino e messaggero di Dio per i nativi del luogo. La piccola porta in fronte il segno distintivo della sua diversità e, dopo esser stata abbandonata dalla madre, viene subito notata dalla "curandera" del villaggio, Huila, la sciamana-levatrice della comunità del patron Urrea. A poco a poco, la piccola, dopo esser stata allevata fra erbe mediche e ritualità mistico pagane, si accorgerà non solo del mondo da cui proviene e della condizione in cui vivono quelli come lei, ma delle sue straordinarie capacità di sensitiva e guaritrice. E, per emulazione, almeno agli inizi, proverà anche lei a fare da levatrice per le tante donne povere del villaggio. Fino a che. Fino a che un giorno un altro Urrea bastardello che si aggira per il ranch e le baracche, Buenaventura, non le dice la verità che tutti o quasi sanno: anche lei è una bastardella, figlia illegittima (e non riconosciuta) del patron. Da qui parte la prima svolta nella storia. Una svolta che darà corpo e spessore alla piccola Teresita che diventando a poco a poco Teresa avrà il coraggio e la spudoratezza tipiche dell'innocenza; quella di entrare a gamba tesa (ma indolore) nella vita del patron e mettervi radici, anzi di sconvolgerla.
Il Messico che Urrea disegna in questo affresco d'altri tempi è vibrante. Armonioso pur nelle sue brutture e miserie. La carovana Urrea, stanziale al sud del Paese, un bel giorno sarà costretta a muoversi verso nord, verso il confine; il governo di Diaz lo tiene d'occhio per le sue idee 'progressiste', per i suoi presunti rapporti con i nativi, per la sua benevolenza nei loro confronti. Meglio levare le tende, consiglia l'ingegnere e amico intimo Lauro Aguirre a Tomas. E allora ecco il deserto, ecco i paesaggi come in un film di Sergio Leone, ecco gli indiani in agguato dietro e dentro i canyon. Ecco le pistole, la polvere, i cactus, il caldo e la speranza che evapora come fiume seccato che non si può più inseguire perché non porta da nessuna parte.
Man mano che gli anni passano, e che Teresita diventa Teresa in uno splendido capitolo di iniziazione tutto ambientato nel deserto con uno sciamano bello e giovane e ribelle, e pure maledetto, il Messico intorno ribolle di rabbia e rancore e risentimento. Gli indiani, espropriati delle loro terre, vengono deportati. Il mare è lontano. L'America pure. Il '900 è alle porte e l'industrializzazione non può certo aspettare quattro pelle nera o rossa che credono nel potere degli ossi di bufalo o nei fiori di loto.
Luis Alberto Urrea, nella sua postfazione, ci fa sapere che il suo romanzo e le gesta di Teresita Urrea sono il risultato di venti anni di studio e approfondimento di fatti veri. La ragazza, nel pieno della sua adolescenza, dopo aver vissuto un'esperienza di premorte ed esser tornata in vita, si dimostrerà in grado di salvare sempre più vite di disperati e il nuovo ranch Urrea, al confine con gli Stati Uniti, diventerà un luogo di pellegrinaggio mai visto prima. E Teresita inizierà ad esser chiamata la santa, la santa di Cabora, il paese dove gli Urrea si sono stabiliti. E gli indiani e i nativi inizieranno a vederla come la loro salvatrice non solo dalle malattie ma dalla loro condizione di indigenza. La Figlia della Curandera è un capolavoro al pari dei grandi romanzi della tradizione sudamericana. Penso a La Casa degli Spiriti di Isabel Allende. A suo modo costituisce un classico. Lì dove con questo termine, s'intenda, nel caso di romanzo storico, un libro che riesca a raccontare un pezzo di passato aggiungendo, in maniera assolutamente ininfluente sulla veridicità dei fatti, pezzi di finzione letteraria di altissimo livello linguistico-stilistico.
Ci auguriamo che il romanzo possa avere anche nel nostro Paese il successo che merita e che negli Stati Uniti ha già avuto, facendo gridare la critica al nuovo Marquez (ma la definizione gli sta stretta secondo me perché Urrea è meglio di Marquez), e al ritorno del nuovo realismo-magico. Distribuzione (e librai) permettendo.
www.luisurrea.com
www.xledizioni.com
www.ndanet.it
Una hacienda ancor più strana in quel tempo pre-rivoluzionario (l'ultimo decennio del 1800), era guidata da un patròn illuminato, tale Tomas Urrea, un uomo alto, baffi, dinoccolato, tratti somatici ispano europei. Egli, oltre a gestire i suoi possedimenti con fare da gentiluomo e pacifico, difendeva i nativi e gli indiani (o almeno tentava di farlo); sia che lavorassero per lui sia che venissero espropriati delle loro terre. Urrea, però, aveva un difetto (o pregio, dipende); amava le donne. Molto. E, oltre alla sua famiglia 'naturale' con la bella moglie Loreto e i suoi 4 o 5 figlioletti, ogni tanto ritrovava, sparso per el potrero (gli insediamenti di baracche in cui vivevano i suoi lavoratori), qualche bel pargoletto meticcio. Uno in particolare, una pargoletta mezza indiana e mezza bianca, è la protagonista del romanzo che vi stiamo raccontando e che è in uscita in Italia in questi giorni per XL Edizioni, La Figlia della Curandera.
Tomas Urrea, in realtà, è un antico parente di Luis Alberto, lo straordinario scrittore ispano americano, nato a Tijuana ma residente a Naperville, Illinois, dove insegna scrittura creativa all'università di Chicago, e autore di questa saga di cui La Figlia della Curandera è il primo capitolo. Urrea è poco noto al pubblico italiano, per sfortuna. Nel 2008 XL Edizioni ha pubblicato il suo saggio narrato L'autostrada del diavolo, finalista al premio Pulitzer nel 2005, in cui ricostruisce un fatto di cronaca vera, la tragica epopea di un gruppo di messicani che tentano di passare la frontiera con gli Stati Uniti. Adesso, dopo aver avuto uno straordinario successo di vendite negli Stati Uniti, e dopo che Hollywood ha acquisito i diritti di riproduzione cinematografica (il film dovrebbe essere diretto da Luis Mandoki e avere come protagonista Antonio Banderas), La Figlia della Curandera arriva anche da noi.
La bellezza del romanzo, oltre che per una trama avvincente e per la capacità dell'autore di far vivere i suoi personaggi come solo i grandi narratori ottocenteschi, è dovuta a una ricchezza linguistica a tratti esuberante. Della serie, le invenzioni linguistiche della grande narrativa sud americana incontrano il rigore sintattico della scuola anglo-americana; risultato: pirotecnico. Con i personaggi che quasi escono dalla pagina. La pargoletta meticcia protagonista della storia si chiama Teresita ed è figlia di Cayetana Chavez, la Semalù, detta il Colibrì, uccello divino e messaggero di Dio per i nativi del luogo. La piccola porta in fronte il segno distintivo della sua diversità e, dopo esser stata abbandonata dalla madre, viene subito notata dalla "curandera" del villaggio, Huila, la sciamana-levatrice della comunità del patron Urrea. A poco a poco, la piccola, dopo esser stata allevata fra erbe mediche e ritualità mistico pagane, si accorgerà non solo del mondo da cui proviene e della condizione in cui vivono quelli come lei, ma delle sue straordinarie capacità di sensitiva e guaritrice. E, per emulazione, almeno agli inizi, proverà anche lei a fare da levatrice per le tante donne povere del villaggio. Fino a che. Fino a che un giorno un altro Urrea bastardello che si aggira per il ranch e le baracche, Buenaventura, non le dice la verità che tutti o quasi sanno: anche lei è una bastardella, figlia illegittima (e non riconosciuta) del patron. Da qui parte la prima svolta nella storia. Una svolta che darà corpo e spessore alla piccola Teresita che diventando a poco a poco Teresa avrà il coraggio e la spudoratezza tipiche dell'innocenza; quella di entrare a gamba tesa (ma indolore) nella vita del patron e mettervi radici, anzi di sconvolgerla.
Il Messico che Urrea disegna in questo affresco d'altri tempi è vibrante. Armonioso pur nelle sue brutture e miserie. La carovana Urrea, stanziale al sud del Paese, un bel giorno sarà costretta a muoversi verso nord, verso il confine; il governo di Diaz lo tiene d'occhio per le sue idee 'progressiste', per i suoi presunti rapporti con i nativi, per la sua benevolenza nei loro confronti. Meglio levare le tende, consiglia l'ingegnere e amico intimo Lauro Aguirre a Tomas. E allora ecco il deserto, ecco i paesaggi come in un film di Sergio Leone, ecco gli indiani in agguato dietro e dentro i canyon. Ecco le pistole, la polvere, i cactus, il caldo e la speranza che evapora come fiume seccato che non si può più inseguire perché non porta da nessuna parte.
Man mano che gli anni passano, e che Teresita diventa Teresa in uno splendido capitolo di iniziazione tutto ambientato nel deserto con uno sciamano bello e giovane e ribelle, e pure maledetto, il Messico intorno ribolle di rabbia e rancore e risentimento. Gli indiani, espropriati delle loro terre, vengono deportati. Il mare è lontano. L'America pure. Il '900 è alle porte e l'industrializzazione non può certo aspettare quattro pelle nera o rossa che credono nel potere degli ossi di bufalo o nei fiori di loto.
Luis Alberto Urrea, nella sua postfazione, ci fa sapere che il suo romanzo e le gesta di Teresita Urrea sono il risultato di venti anni di studio e approfondimento di fatti veri. La ragazza, nel pieno della sua adolescenza, dopo aver vissuto un'esperienza di premorte ed esser tornata in vita, si dimostrerà in grado di salvare sempre più vite di disperati e il nuovo ranch Urrea, al confine con gli Stati Uniti, diventerà un luogo di pellegrinaggio mai visto prima. E Teresita inizierà ad esser chiamata la santa, la santa di Cabora, il paese dove gli Urrea si sono stabiliti. E gli indiani e i nativi inizieranno a vederla come la loro salvatrice non solo dalle malattie ma dalla loro condizione di indigenza. La Figlia della Curandera è un capolavoro al pari dei grandi romanzi della tradizione sudamericana. Penso a La Casa degli Spiriti di Isabel Allende. A suo modo costituisce un classico. Lì dove con questo termine, s'intenda, nel caso di romanzo storico, un libro che riesca a raccontare un pezzo di passato aggiungendo, in maniera assolutamente ininfluente sulla veridicità dei fatti, pezzi di finzione letteraria di altissimo livello linguistico-stilistico.
Ci auguriamo che il romanzo possa avere anche nel nostro Paese il successo che merita e che negli Stati Uniti ha già avuto, facendo gridare la critica al nuovo Marquez (ma la definizione gli sta stretta secondo me perché Urrea è meglio di Marquez), e al ritorno del nuovo realismo-magico. Distribuzione (e librai) permettendo.
www.luisurrea.com
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