ATTUALITA'
Adriano Angelini
Quando l'unico senso sta nella ricerca del senso.
Non mi capita quasi mai di parlare di pittura. Primo perché non sono un esperto né un critico d'arte. Poi perché quella contemporanea mi lascia totalmente indifferente. Il trionfo dell'astrattismo fine a se stesso e auto-celebrativo di questi tempi fa venir voglia di premiare i disegni dei bambini delle elementari, almeno ci mettono il cuore. Caso completamente a parte, almeno per la pittura italiana, è quello di Franco Ferrari.
Premetto una cosa. Non si può leggere un articolo sui quadri (ancora più che di musica senza ascoltarla ad esempio) senza averli visti. Per cui, prima di inoltrarvi nella lettura di questo pezzo, vi consiglio di farvi un giretto sul suo sito: www.franco-ferrari.it.
Ferrari ha iniziato alla fine degli anni '60. Dopo un lungo e tortuoso percorso esistenziale è approdato oggi a un risultato a dir poco sorprendente. La sua è una visionarietà che non esiterei a considerare cosmica. Le sue figure dei mutanti. E, come ha scritto Ennio Calabria nella sua testimonianza critica sul catalogo, «la figura umana è handicappata dentro la spietata coercizione di un burattinaio che ha altri progetti ai quali la piega, le rende penosa, mentre eternizza la sua struggente esclamatività».
Ci sono sfondi neri o blu che inglobano una cornice su cui si sviluppa una scena. E' sempre dominata da quelli che potremmo definire azzardi di forma. C'è sempre qualcosa che si dissolve o ingloba qualcos'altro. Ci sono, soprattutto, facce o corpi. O entrambi. Sono alati o monchi. Sembrano fasciati e in procinto di lanciarsi verso qualcosa o un punto a cui mirano. O un fondo verso il quale non voler precipitare. La caratteristica di base, tuttavia, che si ritrova nell'opera attuale di Ferrari è la sensazione di una presenza. Lui anche l'avverte, ci ha rivelato. Non sappiamo se voglia indicarci la strada, o troncarcela. Non sappiamo se sia un guardiano o un custode. Di sicuro è una presenza che, come nel suo quadro "Dall'idea alla materia", ha intenzione di ribadire il concetto di trasformazione. Di manifestazione.
Ferrari è di due generazioni più avanti rispetto alla mia. E' cresciuto artisticamente in un periodo in cui la ricerca del senso assoluto per gli artisti era guardata con sospetto. I guardiani della patetica rivoluzione rossa, o nera (ma più rossa e fortunatamente incompiuta) imponeva il genere di intellettuale o artista 'impegnato'; nel sociale, nella politica, in qualsiasi altra attività che lo staccava da se stesso. Guai a parlare di Dio o dell'Assoluto. I pasdaran del materialismo storico se ti puntavano il dito contro eri finito (oggi vincono i premi nobel e vivono nella Milano bevuta e continuano a sproloquiare di operai in un mondo in cui al massimo esistono schiavi).
Ferrari, a un certo punto, e saggiamente, ha dato retta a quella presenza misteriosa dentro di sé. L'ha seguita. Ha salutato l'impegno. E lei gli ha mostrato. Che cosa? Lo indicano i suoi quadri. Allucinazioni visive e sublimi. Forse l'essere vivente che verrà? Quello attuale? Qualcos'altro che tenta di comunicare con noi da altre dimensioni? A un tratto, guardando i suoi quadri, mi sono rivenute in mente due cose, a loro modo straordinarie. La prima è Silver-Surfer. Il personaggio dei fumetti della Marvel. Il supereroe che viaggia per le galassie con la sua tavola da surf. Malinconico e condannato a un vagabondaggio per salvare mondi lontanissimi, senza poterne capire il senso. La seconda cosa è stato il film di Steven Spielberg, A.I. Intelligenza artificiale, tratto da una storia di Bryan Aldis e che Stanley Kubrick non aveva fatto in tempo a girare. Andatevi a ri-vedere la scena finale. Per me struggente e verosimile, soprattutto in quest'epoca di fisica quantistica.
Il piccolo David è ormai congelato sotto una Terra sprofondata nelle acque oceaniche. Loro, con le loro astronavi iper tecnologiche, arrivano, come angeli benefattori (quelli di Ferrari?) ad esaudire il desiderio che David ha richiesto, riavere la sua mamma per un solo giorno al suo fianco, lui trasformato, come Pinocchio, da robot a bambino in carne e ossa. Loro, queste figure che assomigliano alle ombre della sera etrusche, lo accontentano e, come dèi misericordiosi, gli infondono i ricordi. Loro, sono forse quelli che Franco Ferrari ha riprodotto? Sono quelli che gli parlano?
C'è un'altra cosa straordinaria, che non è venuta in mente a me ma è stata ricordata da Ennio Calabria. Il nero. Goya e i suoi neri forse erano il risultato della lue del pittore. I neri (e i blu) di Ferrari sono forse la consapevolezza della dittatura dell'oblio. Del nero e del blu cosmici. Dell'artificiosità del sole che scompare, prima o poi, polverizzandosi nei buchi, appunto, neri. Ferrari come un Goya contemporaneo che, invece di ignorarli o nevrotizzarli, sta captando segnali. Sogni, in fondo. Che lasciano tutti noi immemori. E al buio. Perché solo al buio si sogna, quindi si vive.
L'Ineffabile senso – mostra personale di Franco Ferrari –
Roma. Fondazione Venanzio Crocetti. Dal 28 gennaio al 22 febbraio
Premetto una cosa. Non si può leggere un articolo sui quadri (ancora più che di musica senza ascoltarla ad esempio) senza averli visti. Per cui, prima di inoltrarvi nella lettura di questo pezzo, vi consiglio di farvi un giretto sul suo sito: www.franco-ferrari.it.
Ferrari ha iniziato alla fine degli anni '60. Dopo un lungo e tortuoso percorso esistenziale è approdato oggi a un risultato a dir poco sorprendente. La sua è una visionarietà che non esiterei a considerare cosmica. Le sue figure dei mutanti. E, come ha scritto Ennio Calabria nella sua testimonianza critica sul catalogo, «la figura umana è handicappata dentro la spietata coercizione di un burattinaio che ha altri progetti ai quali la piega, le rende penosa, mentre eternizza la sua struggente esclamatività».
Ci sono sfondi neri o blu che inglobano una cornice su cui si sviluppa una scena. E' sempre dominata da quelli che potremmo definire azzardi di forma. C'è sempre qualcosa che si dissolve o ingloba qualcos'altro. Ci sono, soprattutto, facce o corpi. O entrambi. Sono alati o monchi. Sembrano fasciati e in procinto di lanciarsi verso qualcosa o un punto a cui mirano. O un fondo verso il quale non voler precipitare. La caratteristica di base, tuttavia, che si ritrova nell'opera attuale di Ferrari è la sensazione di una presenza. Lui anche l'avverte, ci ha rivelato. Non sappiamo se voglia indicarci la strada, o troncarcela. Non sappiamo se sia un guardiano o un custode. Di sicuro è una presenza che, come nel suo quadro "Dall'idea alla materia", ha intenzione di ribadire il concetto di trasformazione. Di manifestazione.
Ferrari è di due generazioni più avanti rispetto alla mia. E' cresciuto artisticamente in un periodo in cui la ricerca del senso assoluto per gli artisti era guardata con sospetto. I guardiani della patetica rivoluzione rossa, o nera (ma più rossa e fortunatamente incompiuta) imponeva il genere di intellettuale o artista 'impegnato'; nel sociale, nella politica, in qualsiasi altra attività che lo staccava da se stesso. Guai a parlare di Dio o dell'Assoluto. I pasdaran del materialismo storico se ti puntavano il dito contro eri finito (oggi vincono i premi nobel e vivono nella Milano bevuta e continuano a sproloquiare di operai in un mondo in cui al massimo esistono schiavi).
Ferrari, a un certo punto, e saggiamente, ha dato retta a quella presenza misteriosa dentro di sé. L'ha seguita. Ha salutato l'impegno. E lei gli ha mostrato. Che cosa? Lo indicano i suoi quadri. Allucinazioni visive e sublimi. Forse l'essere vivente che verrà? Quello attuale? Qualcos'altro che tenta di comunicare con noi da altre dimensioni? A un tratto, guardando i suoi quadri, mi sono rivenute in mente due cose, a loro modo straordinarie. La prima è Silver-Surfer. Il personaggio dei fumetti della Marvel. Il supereroe che viaggia per le galassie con la sua tavola da surf. Malinconico e condannato a un vagabondaggio per salvare mondi lontanissimi, senza poterne capire il senso. La seconda cosa è stato il film di Steven Spielberg, A.I. Intelligenza artificiale, tratto da una storia di Bryan Aldis e che Stanley Kubrick non aveva fatto in tempo a girare. Andatevi a ri-vedere la scena finale. Per me struggente e verosimile, soprattutto in quest'epoca di fisica quantistica.
Il piccolo David è ormai congelato sotto una Terra sprofondata nelle acque oceaniche. Loro, con le loro astronavi iper tecnologiche, arrivano, come angeli benefattori (quelli di Ferrari?) ad esaudire il desiderio che David ha richiesto, riavere la sua mamma per un solo giorno al suo fianco, lui trasformato, come Pinocchio, da robot a bambino in carne e ossa. Loro, queste figure che assomigliano alle ombre della sera etrusche, lo accontentano e, come dèi misericordiosi, gli infondono i ricordi. Loro, sono forse quelli che Franco Ferrari ha riprodotto? Sono quelli che gli parlano?
C'è un'altra cosa straordinaria, che non è venuta in mente a me ma è stata ricordata da Ennio Calabria. Il nero. Goya e i suoi neri forse erano il risultato della lue del pittore. I neri (e i blu) di Ferrari sono forse la consapevolezza della dittatura dell'oblio. Del nero e del blu cosmici. Dell'artificiosità del sole che scompare, prima o poi, polverizzandosi nei buchi, appunto, neri. Ferrari come un Goya contemporaneo che, invece di ignorarli o nevrotizzarli, sta captando segnali. Sogni, in fondo. Che lasciano tutti noi immemori. E al buio. Perché solo al buio si sogna, quindi si vive.
L'Ineffabile senso – mostra personale di Franco Ferrari –
Roma. Fondazione Venanzio Crocetti. Dal 28 gennaio al 22 febbraio
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