ATTUALITA'
Pier Paolo Di Mino
Quello che al settanta per cento degli italiani non piacerebbe mai.
Ne parlano perfino nel mercato sotto casa mia, tutti, le massicce massaie, le badanti e le badesse, tutti coloro che una volta chiamavano le sartine: proprio tutti: in Italia non si fa più letteratura; nessun editore la pubblica più; i vecchi editors che si erano letti i libri proprio i libri (quelli belli, diceva Gadamer, perché puzzano di muffa e polvere), quelli che capivano se uno era uno scrittore da come sudava, quelli stanno in pensione (li mettono tutti a Parigi, dicono); e così ora si producono saggi, o quelle strane cose fra saggio e giornalismo e racconto di fantasia,e miriadi di polpettoni di svariato genere (di quello svariato e svagato genere che è il polpettone), e poi diari, molti diari; si riproduce, insomma, su carta stampata diverse forme della scrittura ma quasi mai una scrittura che ha attinenza con un fatto letterario.
Dicono le vendite; dicono che la letteratura non venda.
Uno si potrebbe domandare perché, quando nel belpaese più della metà delle persone erano analfabete, Gozzano, ancora sconosciuto, vendeva undicimila copie alla prima edizione del suo primo libro, tanto per fare un solo esempio, e ora invece nisba. La risposta è così ovvia che manco a darla. Oppure potrai darla così, citando uno che editoria l'ha fatta in maniera non propriamente distratta, Calasso, il quale diceva (nello straordinario e mostruoso La follia che viene dalle ninfe) che ai tempi suoi tutti volevano fare gli editori, e che, per esempio, se un potente dell'economia avesse potuto affermare di pubblicare surgelati, anziché produrli, ne sarebbe stato felice. Ma ecco che, rispetto ai tempi di Calasso, è successo che i potenti dell'economia sono diventati editori e, ora, il libri si producono, certamente non si pubblicano.
Bene, detto questo uno dovrebbe proseguire con la disperazione: l'editoria non si occupa più di letteratura, quindi la letteratura è morta. Ma la disperazione, in questo caso, potrebbe solo essere dettata da una certa facilità e predisposizione nel volerla provare, perché insomma, a dirla tutta, la letteratura e l'editoria non sono proprio la stessa cosa. La letteratura esiste prima dell'editoria, per esempio. La letteratura, per esempio, è un meccanismo autonomo che necessita di qualcuno che la realizzi, ma, in verità, non di qualcuno che la usufruisca: è un oggetto che può esserci anche se nessuno lo contempli. È un fatto di tutte le realizzazioni dello spirito, come sanno bene gli artisti che hanno finitamente scolpito statue da mettere sulle cime e negli anfratti di cattedrali, lì dove nessuno le vedrà mai; o coloro che hanno copiato libri illeggibili, mai letti, eppure da continuare a fare esistere, come le Dionisiache di Nonno di Panopoli. L'editoria, al contrario, campa grazie a chi usufruisce dei suoi prodotti.
Quindi è chiaro come l'editoria può o non può avere bisogno della letteratura, mentre quest'ultima non ha mai un bisogno intrinseco della prima. La verità, ecco, può essere che, quando l'editore si occupa di letteratura, e torno a citare Calasso, ha vita una sorta di arte nuova, quella dell'editoria: un'arte delicata e virtuosa, di epoche virtuose: forse non della nostra.
E allora, se siamo tutti d'accordo che, avendolo aperto, possiamo anche chiudere questo discorso, magari portandolo fino alle ultime conseguenze, ecco, il fatto che in Italia non si faccia più letteratura non deve e non può essere veramente ascritto a un problema editoriale; il problema non può essere che interno alla letteratura stessa.
Ora nessuno di noi vuole parlare di letteratura, animale sul cui statuto ontologico si potrebbe predicare qualsiasi cosa: per capire quali siano i motivi della sua vacanza ci basta, in maniera più pratica, ragionare sulla quale sia la fine di coloro che la praticano come professione di fede, ragionamento che dovrebbe avere come premessa un ragionamento su chi sia un scrittore che è tale per professione di fede.
Certo deve essere costui qualcuno che vede nella sua vocazione a poetare o raccontare un mezzo di cui la collettività si dota per trovare una voce di guida, e penso così di passaggio a Bufalino che cercava nella letteratura una guida morale; o a Borges e amici che vi scoprivano un mezzo di indagine metafisica e gnoseologica; o ai redattori dell'Iliade e dell'Odissea che, con diverse inclinazioni religiose e politiche, cercavano con queste opere un senso alla vita in comune e individuale della loro epoca; e ai redattori delle Mille e una notte mollemente filosofici sul tema di cosa ci salvi dalla dissoluzione nel nulla; e ancora penso a Yasushi che, sull'incerto e disperso cammino che mena alla verità, risponde a The Ring and the Book di Robert Browning tradotto da Atugawa Ryunosuke e riscritto nel suo Rashomon, con i suoi intensi Amore e Il fucile da caccia, dove ogni pagina afferma che seppure nulla è vero, nessuna verità si dia a questo mondo, abbiamo però una verità radicale a nostra disposizione: quella della scelta che operiamo per vivere, se questa scelta è compiuta nell'estremo e nella perdita.
La scelta della letteratura è estrema, ed è di pura perdita. Non a caso Omero è minorato di più pratiche doti, ed è un cieco; e da Omero in poi la storia della letteratura è fatta da poveri disgraziati, da uomini schiavi delle loro passioni, come Saffo e Archiloco; i chiaramente posseduti da demoni come Socrate, e veleni come Lucrezio; maghi reclusi come Virgilio; pazzi per Dio come Jacopone e Dante; uomini malati come Leopardi, o come Manzoni (quattro ore di passeggiate e due di sesso tutti i giorni, altrimenti non riusciva neanche a mettere due parole in fila); e la Dickinson reclusa dentro una stanza; e Proust, con la stanza imbottita e stregati infusi di caffè; Michaux a succhiare mescalina dentro una autorimessa fino a procurarsi un vitalizio in emicranie oftalmiche; e poi Warburg che incomincia a scrivere a un amico immaginario di essersi innamorato di una ninfa trovata su un quadro, e la ninfa, come è nel suo mestiere, prende e se lo porta via in una clinica psichiatrica: gli scrittori, quelli di cui sopra, quelli della professione di fede, sono dei posseduti. Posseduti. Non proprio brava, pulita gente. Niente di buono per un mondo dove si producono libri, tutto è chiaro scambio: la comunicazione è tutto, si dice oggi; e poi le sorti progressive, e i santi in manicomio.
E allora per fare la letteratura, altro che editori ci vogliono: ci vogliono dei posseduti. Quello ci vogliono e, allora, signori qui bisogna invocare Satana. E sarà come vorrà Bulgakov che, se non oggi domani, verrà Voland, e farà vedere i sorci verdi a quelli che lo scrittore lo fanno per mestiere, per professione, ma non di fede, in questo onesto mondo efficiente dei lavori in corso, dei più fatti meno parole (che quando uno è fatto le parole non gli vengono fuori facile), dei numeri e delle quantità.
Certo questo discorso non piacerà al settanta per cento degli italiani, e il Maestro verrà rinchiuso ancora una volta in manicomio. Ma il Maestro lo sa che è così che deve andare, perché il Maestro (giura Conte) è nell'anima.
Dicono le vendite; dicono che la letteratura non venda.
Uno si potrebbe domandare perché, quando nel belpaese più della metà delle persone erano analfabete, Gozzano, ancora sconosciuto, vendeva undicimila copie alla prima edizione del suo primo libro, tanto per fare un solo esempio, e ora invece nisba. La risposta è così ovvia che manco a darla. Oppure potrai darla così, citando uno che editoria l'ha fatta in maniera non propriamente distratta, Calasso, il quale diceva (nello straordinario e mostruoso La follia che viene dalle ninfe) che ai tempi suoi tutti volevano fare gli editori, e che, per esempio, se un potente dell'economia avesse potuto affermare di pubblicare surgelati, anziché produrli, ne sarebbe stato felice. Ma ecco che, rispetto ai tempi di Calasso, è successo che i potenti dell'economia sono diventati editori e, ora, il libri si producono, certamente non si pubblicano.
Bene, detto questo uno dovrebbe proseguire con la disperazione: l'editoria non si occupa più di letteratura, quindi la letteratura è morta. Ma la disperazione, in questo caso, potrebbe solo essere dettata da una certa facilità e predisposizione nel volerla provare, perché insomma, a dirla tutta, la letteratura e l'editoria non sono proprio la stessa cosa. La letteratura esiste prima dell'editoria, per esempio. La letteratura, per esempio, è un meccanismo autonomo che necessita di qualcuno che la realizzi, ma, in verità, non di qualcuno che la usufruisca: è un oggetto che può esserci anche se nessuno lo contempli. È un fatto di tutte le realizzazioni dello spirito, come sanno bene gli artisti che hanno finitamente scolpito statue da mettere sulle cime e negli anfratti di cattedrali, lì dove nessuno le vedrà mai; o coloro che hanno copiato libri illeggibili, mai letti, eppure da continuare a fare esistere, come le Dionisiache di Nonno di Panopoli. L'editoria, al contrario, campa grazie a chi usufruisce dei suoi prodotti.
Quindi è chiaro come l'editoria può o non può avere bisogno della letteratura, mentre quest'ultima non ha mai un bisogno intrinseco della prima. La verità, ecco, può essere che, quando l'editore si occupa di letteratura, e torno a citare Calasso, ha vita una sorta di arte nuova, quella dell'editoria: un'arte delicata e virtuosa, di epoche virtuose: forse non della nostra.
E allora, se siamo tutti d'accordo che, avendolo aperto, possiamo anche chiudere questo discorso, magari portandolo fino alle ultime conseguenze, ecco, il fatto che in Italia non si faccia più letteratura non deve e non può essere veramente ascritto a un problema editoriale; il problema non può essere che interno alla letteratura stessa.
Ora nessuno di noi vuole parlare di letteratura, animale sul cui statuto ontologico si potrebbe predicare qualsiasi cosa: per capire quali siano i motivi della sua vacanza ci basta, in maniera più pratica, ragionare sulla quale sia la fine di coloro che la praticano come professione di fede, ragionamento che dovrebbe avere come premessa un ragionamento su chi sia un scrittore che è tale per professione di fede.
Certo deve essere costui qualcuno che vede nella sua vocazione a poetare o raccontare un mezzo di cui la collettività si dota per trovare una voce di guida, e penso così di passaggio a Bufalino che cercava nella letteratura una guida morale; o a Borges e amici che vi scoprivano un mezzo di indagine metafisica e gnoseologica; o ai redattori dell'Iliade e dell'Odissea che, con diverse inclinazioni religiose e politiche, cercavano con queste opere un senso alla vita in comune e individuale della loro epoca; e ai redattori delle Mille e una notte mollemente filosofici sul tema di cosa ci salvi dalla dissoluzione nel nulla; e ancora penso a Yasushi che, sull'incerto e disperso cammino che mena alla verità, risponde a The Ring and the Book di Robert Browning tradotto da Atugawa Ryunosuke e riscritto nel suo Rashomon, con i suoi intensi Amore e Il fucile da caccia, dove ogni pagina afferma che seppure nulla è vero, nessuna verità si dia a questo mondo, abbiamo però una verità radicale a nostra disposizione: quella della scelta che operiamo per vivere, se questa scelta è compiuta nell'estremo e nella perdita.
La scelta della letteratura è estrema, ed è di pura perdita. Non a caso Omero è minorato di più pratiche doti, ed è un cieco; e da Omero in poi la storia della letteratura è fatta da poveri disgraziati, da uomini schiavi delle loro passioni, come Saffo e Archiloco; i chiaramente posseduti da demoni come Socrate, e veleni come Lucrezio; maghi reclusi come Virgilio; pazzi per Dio come Jacopone e Dante; uomini malati come Leopardi, o come Manzoni (quattro ore di passeggiate e due di sesso tutti i giorni, altrimenti non riusciva neanche a mettere due parole in fila); e la Dickinson reclusa dentro una stanza; e Proust, con la stanza imbottita e stregati infusi di caffè; Michaux a succhiare mescalina dentro una autorimessa fino a procurarsi un vitalizio in emicranie oftalmiche; e poi Warburg che incomincia a scrivere a un amico immaginario di essersi innamorato di una ninfa trovata su un quadro, e la ninfa, come è nel suo mestiere, prende e se lo porta via in una clinica psichiatrica: gli scrittori, quelli di cui sopra, quelli della professione di fede, sono dei posseduti. Posseduti. Non proprio brava, pulita gente. Niente di buono per un mondo dove si producono libri, tutto è chiaro scambio: la comunicazione è tutto, si dice oggi; e poi le sorti progressive, e i santi in manicomio.
E allora per fare la letteratura, altro che editori ci vogliono: ci vogliono dei posseduti. Quello ci vogliono e, allora, signori qui bisogna invocare Satana. E sarà come vorrà Bulgakov che, se non oggi domani, verrà Voland, e farà vedere i sorci verdi a quelli che lo scrittore lo fanno per mestiere, per professione, ma non di fede, in questo onesto mondo efficiente dei lavori in corso, dei più fatti meno parole (che quando uno è fatto le parole non gli vengono fuori facile), dei numeri e delle quantità.
Certo questo discorso non piacerà al settanta per cento degli italiani, e il Maestro verrà rinchiuso ancora una volta in manicomio. Ma il Maestro lo sa che è così che deve andare, perché il Maestro (giura Conte) è nell'anima.
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