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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Michele Lupo

Romanzeria italiana: lo stato dell'arte.

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Finora, a due terzi dell'anno, al Paradiso abbiamo letto una quantità notevole di romanzi, racconti, e altri titoli che incrociano tipologie di testi differenti. Per il premio, certo. L'annata, vista da qua, sembra discreta ma non memorabile, né particolarmente sorprendente, si naviga a vista, propositi progetti poetiche hanno il tempo che quello di oggi concede loro: zero. Come al solito, i cammini solitari sembrano quelli più interessanti, se ne infischiano dei generi o li rivoltano fino a renderli poco riconoscibili. Quando questo accade, e c'è il talento, e qualcosa da dire, qualche volta si riesce anche a godere. Succede perlopiù con libri imperfetti, in cui la distribuzione fra vuoti e pieni è tutt'altro che esatta, in cui la forza dei personaggi non è pari a quella della storia, in cui la lingua trova momenti di esaltante vitalità senza sapersi controllare quando però servirebbe – e così via. Per chi volesse farsi un'idea, l'archivio è a disposizione.

Intanto, uno sguardo sugli ultimi arrivati. Fra i testi irregolari, seppure a suo modo paradossale perché aspira, e non di rado vi riesce, a una antica compostezza, senza dubbio metterei Sulla strada del padre (Cavallo di ferro editore) di Fernando Acitelli, libro dai tratti peculiari e fuori moda, intanto perché si avventura in una minuziosa, dotta e partecipatissima esplorazione della città di Roma (di alcune sue zone in particolare, la periferia Sud del Quadraro e Tor Pignattara) con un accento di fondo da nobile proletario risolto direi romanticamente.

Il narratore cammina per un intero mese sulle tracce di un padre molto amato, fra strade, palazzi, fotografie, lettere, storie di calcio e di guerra (l'autore è noto innanzitutto per un libro di parecchi anni fa La solitudine dell'ala destra - Einaudi 1998). Appare acuto un senso di nostalgia che si respira ovunque nel libro (fra gli effetti collaterali dell'odierno regime della "presentificazione" v'è anche un sottile e malcelato disprezzo per un sentimento che se non sarà nobile sarà almeno lecito, o no?), nostalgia non tanto di una città che non c'è più ma di uno stimolo etico quanto estetico che preservi il presente dalla barbarie sparsa ovunque. Se a tutti è noto come la capitale sia drammaticamente sfigurata dalla volgarità di questi tempi ciabattati, cafoni, approssimativi, pochi sono quelli che come Acitelli mettono in gioco in una maniera così intima ma forte non solo la propria estraneità a questa temperie ma anche la capacità di recuperare nelle sue strade segni, tracce, parole – una specie di cronotopo meraviglioso di cui il padre è parte.

È una prosa che non paventa il rischio dell'oltranzismo stilistico. Un universo linguistico dotto ma non troppo, a tratti desueto ed emotivo insieme in cui una volta tanto i riferimenti alla poesia non stuccano nonostante qualche eccesso, perché si percepisce netta una sincerità di sguardo che riesce nell'intento forse più difficile cui possa aspirare un testo letterario (tenere cuore e lingua insieme). Questo "perdigiorno con eterna vista sul dolore" che sprezza l'umanità acquattata "dentro alti colli di camicia che sembrano sostegni verticali" così come lo sbraco giovanile schiamazzante, in fondo non fa che cercare nel padre e nella vita "vera" o immaginabile di luoghi in cui ha vissuto un residuo di bellezza, enfatizzando qua e là, certo, ma offrendo a libro concluso una bella lezione di stile (ossia, una lezione morale).

Che sappia cosa fare con le parole, certo vale anche per Christian Frascella (La sfuriata di Bet – Einaudi), tecnicamente più sorvegliato di Acitelli, più freddo nella costruzione di una lingua addestrata su una finta mimesi che oramai dovrebbe essere alla fine della sua missione. Intendo, Frascella dal suo primo libro sa quello che fa. Ritmo, punteggiatura, a capo: tutto al suo posto. Storie di ragazzi e tecnica al servizio di una lingua che provi a dire quel mondo. Alla terza prova, rischiamo però di finire nel manierismo. Nella storia di Bet (una ragazza della periferia torinese, piena di guai, fragile e tosta, ovviamente incasinata, generosa e guardinga), benché l'autore si sia avvalso dei consigli di un gruppo di studenti liceali, il punto è proprio la mancanza di sorprese: la vivacità ritmica, la velocità nel respiro del racconto sono esattamente quelle chi ti aspetti da un'imitazione letteraria del contesto. Bet vive in una famiglia che non è più tale, non ha certo facilità di rapporti con gli altri, stretta fra la problematicità dell'adolescenza e la precarietà degli adulti, e l'Italia che ha intorno è quella che è. Questo l'autore lo sa e lo racconta con l'agilità che gli è propria - epperò, troppe volte le abbiamo sentite certe storie scritte da adulti che fingono di essere giovani che si lamentano degli adulti (le considerazioni sulla scuola e i ritratti di insegnanti demotivati o noiosi...). Il rischio è di scrivere libri solo per giovani. Ha detto recentemente Frascella: "Seguo la voce che meglio può portarmi al centro della storia che voglio raccontare. Ciò significa che non ho problemi di sorta ad affrontare la narrazione 'adulta', sto solo aspettando di infilarla nella storia giusta". La aspettiamo.

Chi certo giovane non lo è né pensa di doverlo sembrare è Carlo Mazza, esordiente appunto non di primo pelo (è del 1956) nella nuova collana dell'editore e/o curata da Massimo Carlotto, Sabot/age. Mazza scrive un romanzo di vocazione in qualche modo politica e antropologica (Lupi di fronte al mare), ambientato nella Bari che più ancora di Napoli oggi sembra rappresentare il modello di una certa Italia che spereremmo sempre alla fine, fra manovalanza criminale, affari illeciti, banchieri spietati e politici figli di puttana. Nel capoluogo pugliese, opulento e untuoso crocevia di traffici fra Est e Ovest, ricco in alcuni suoi strati in virtù anche di un alacre impegno criminale (che parte dai rappresentanti delle istituzioni e arriva alla servitù bieca dei disperati, com'è ovvio), si agitano una serie di pessimi personaggi e lo scettico e generoso capitano dei carabinieri Bosdaves. Sono storie che aprono a una comprensione penetrante di quello che potremmo purtroppo con malvenuta tranquillità definire il paesaggio sociale dominante dell'Italia odierna, uno scenario di corruzione capillare, asfissiante, violento – qui, sopratutto affari legati alla sanità, spregevoli forse più di altri.

Lupi di fronte al mare si presenta come qualcosa di più di un onesto romanzo di genere sebbene, avverte l'autore, nasca come una sceneggiatura cinematografica – il che per la narrativa italiana non sarebbe una novità –, ma per fortuna qui il fitto tessuto dialogico e la rotondità di certe personaggi riescono a scansare i pericoli di banalità in cui crolla quasi per intera la produzione filmica italiana di questi tempi. Il che significa anche sostanziare l'impeto corrosivo del racconto di una scrittura dignitosa, attenta, funzionale alla storia.





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