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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Michele Lupo

Scrittrici Italiane. Il piagnisteo al lavoro.

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Vorrei aggiungere un paio di riflessioni a quelle che ha fatto Alfredo Ronci a proposito del libro di Cesarina Vighy, L'ultima estate.

Ronci scrive che ormai in Italia non si ha più "rispetto per il lettore". Fa segnatamente riferimento alla triste situazione della letteratura femminile, landa di garrule prefiche, opportunamente inserita nel miserevole andazzo in corso di politiche markettare scambiate per rovello critico, brutture insipide vendute come capolavori e via discorrendo – e mi permetterei di aggiungere, di difficoltà di pubblicare con editori robusti quando, con Niccolò Franco, si scrive come si deve, ossia dicendo "pane al pane e cazzo al cazzo".

Chiedo a Ronci e ai lettori del "Paradiso" di provare a rovesciare la questione, cioè a focalizzare l'attenzione sull'implicito pubblico dei lettori (verosimilmente, delle lettrici). Per far questo occorre attenersi nel ragionamento alle signore che vendono di più – l'unico che mi sento di fare anche perché non conosco abbastanza scrittrici fra quelle che vendono poco.

Be', io credo che la letteratura femminile in Italia non esiste perché non esiste una società declinata al femminile che abbia il coraggio di prendere le distanze dal modello in auge della fica a domicilio, che sia quello privato di un privato, di un privato che usa un palazzo dello Stato, di un privato che usa la televisione che fu sua e quella di Stato che lo è diventata – di farlo cioè senza scivolare nel patetismo della vittima. Senza cioè accampare in letteratura e non solo l'incongrua virtù di una debolezza ontologica che le sussume loro malgrado nel ruolo della vittima.

Ciò che manca, mi sembra, è una cultura femminile che abbia la forza (l'immaginazione, direbbe Ronci) di irrompere sulla scena e togliere spazio alla femmina (oggi maggioritaria) che ha mandato a puttane l'energia storica del femminismo per acclimatarsi in due nicchie che sono il recto e il verso della stessa storia (l'eterogenesi dei fini è un concetto filosofico che meriterebbe una cattedra a sé nelle università italiane se le università italiane servissero a qualcosa). Da una parte, l'imitazione del maschio nella versione padronale, persino sul piano estetico: sono donne, quando hanno un po' di potere, dall'immagine agguerrita, dal passo svelto e sicuro, compiaciute della loro volgarità, che quando dicono cazzo lo fanno come il caporale che al mattino per le vie consolari della periferia romana va caricando il suo camion di poveri disgraziati. Che queste donne abbiano nei fatti accettato il modello politico e culturale imposto dagli uomini, va da sé; si vedano le recenti riflessioni della ricercatrice di filosofia Michela Marzano (guarda caso, lavora in Francia, guarda caso, non scrive romanzi), quando per esempio parla della trappola della cultura aziendale, una vera "ideologia globale" come la definisce, maschile e autoritaria - anche quando il leader è (ciò che ne è rimasto di) una donna che mette davanti a tutto il lavoro, la prestazione vincente, fine svincolato dai mezzi, decisi entrambi dai vertici, capaci di creare una mistica della riuscita che s'insinua nelle menti a cottimo dei prestanti servizio e le brucia per sempre: in essa le donne sprofondano e v'inceneriscono senza accorgersene.

Se guardiamo all'altra faccia della medaglia, quella in cui invece di emulare il modello maschile lo si blandisce, troviamo la femmina che la puttana la fa in proprio. L'esemplare elargisce pompini per guadagnarsi cariche istituzionali, la dà per un seggio in un consiglio regionale, per una poltrona nella tv di stato o privata tanto non fa differenza. Per curioso paradosso che si spiega benissimo, mentre spompinando timbra il cartellino che le assicura una carriera politica, già pensa alla legge che alle puttane di strada complicherà maledettamente le cose, costringendole a imbacuccarsi come vecchiette alle fermate dell'autobus per non incorrere nelle reprimende di ronde avventizie, fra cui qualche ragazza o signora attempata in cerca del proprio miserando posto al sole: come è evidente, la gerarchia piramidale si ripete pari pari. Questa seconda versione della femmina si esibisce in articolate rappresentazioni del proprio corpo, non fa esplicitamente il porno (il che è un aggravante, perché significherebbe prendere il toro per le corna della verità) ma smignotteggia nello schermo televisivo e detta legge persino all'immaginario delle sessantenni che darebbero fuoco alle madri novantenni pur di averne venti di meno. Insomma, com'è noto, "tante donne credono che il solo modo per emergere dalla massa informe dell'anonimato sia quello di ridursi a oggetti di pulsioni, contemplate per il corpo-feticcio che incarnano, e ridicolizzate - senza per questo scomporsi - per la loro incompetenza professionale davanti alla telecamera": l'affermazione non è mia ma della Marzano prima citata.

Ora, nella letteratura italiana al femminile si racconta qualcosa di questo sfascio? Siccome la risposta è no, Ronci ha ragione di sostenere che ciò che manca è un confronto paritario non col potere, ma con l'immaginazione.

Il fatto è che io non so se proprio le scrittrici non ce la fanno. Saremmo felici se ci segnalassero romanzi o racconti di autrici in cui uno sguardo critico su questa catastrofe della donna in Italia si appuntasse coraggioso, onesto – non pretendiamo feroce, ché la guerra, pare sia cosa di uomini. Se ci fermiamo ai libri delle scrittrici più vendute, dunque al potenziale pubblico che le accoglie, che le cerca, manifestazioni di allarme non si segnalano. Anzi.

Si dirà, gli spazi sono chiusi. Be', gli spazi sono sempre chiusi fino a quando uno non prova ad aprirli, con la forza se necessario, se ce l'ha, se pensa che ne valga la pena. Il dubbio è se gli spazi ci sono dentro le teste. Se le nostre scrittrici sanno abbandonare la cultura del piagnisteo (la loro "fiacca autocommiserazione" la definisce Ronci) scritta sulle loro facce di madonne addolorate. Epperò, non è che il vittimismo, il dolorismo delle Maraini e delle Mazzantini e delle Vinci, lo sciacquettio di banalità della Mastrocola, la vitalità letargica della Agus, il mignottismo delle pischelle surrettiziamente reclutate alla letteratura da un'editoria che segue pari pari il peggio del paese siano così differenti dal gusto delle italiane. La mancanza di uno sguardo politico (in senso lato, ovvio) delle nostre scrittrici coincide con l'antropologia culturale delle loro lettrici, con il vuoto immaginativo del pubblico, dunque delle italiane.

Non so se raccontare questa Italia di gran mignotte all'assalto sarebbe neo-realismo, non so se abbiamo bisogno di chiamarlo così, ma di sicuro quello che ci raccontano la Vighy e le altre, non è il mondo (neppure il nostro piccolo, orrendo paesaggio italiano di questi anni) ma solo una sua parodia. I conflitti sono cliché, la baruffe infantili, i tormenti impalpabili. Le scrittrici italiane che piacciono al pubblico preferiscono acquattarsi comode nell'inattaccabile paradigma della vittima (categoria che oggi la fa da padrona) da un canto, nel grande falso (aziendale, mercantile) che oggi pretende di dar valore a qualsiasi mondezza dall'altro: e quindi il rosa lo chiamano letteratura. Ma sempre rosa è, rosa-nero, rosa chic – il peggio insomma, nemmeno midcult.

Ma, per tornare all'inizio, se non c'è un'Italia al femminile che ha voglia di leggere libri diversi, perché dovrebbero scriverglieli? Pubblico, editori e scrittrici, a loro va bene così, suppongo. Per cui, è un problema Calderoli o il suo elettorato? Panebianco o i suoi lettori? Mazzantini o le sue lettrici? Da noi in Occidente, una volta il golpe era militare. Ora, la televisione di Arcore o via Teulada volendo la si può spegnere. La pila del best-seller in vetrina si può oltrepassare. Sembra difficile, non lo è.









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