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ATTUALITA'

Michele Lupo

Un romanzo non romanzo: 'Qualcosa di scritto' di Emanuele Trevi.

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Già detto da tutti, quello di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, è l'ennesimo esempio di romanzo non romanzo, un po' saggio critico, un po' autobiografia, "qualcosa di scritto" ma diversamente dall'oggetto principe della sua narrazione, l'indefinibile Petrolio, data di pubblicazione 1992, autore Pier Paolo Pasolini.

Figura che qui è meno interessante, avvincente, dell'altro personaggio centrale del libro: l'attrice Laura Betti.

Se infatti PPP qui è inscindibile da Petrolio (pur nella debita premessa che il libro "dice" il momento apicale di un'esperienza umana), la Betti esiste per sé stessa, sebbene stregata dal poeta fino alla morte di lei. Partecipe della stessa oltranza ipervitalistica di PPP, si arroga così la pretesa di essere il solo vero destinatario della sua opera.

Il giovane Trevi la conosce lavorando al Fondo Pasolini. "La Pazza" è un animale eccessivo, assurdo, da cui Trevi è soggiogato. La paranoia dell'attrice, assurda come ogni paranoia, trova agli occhi del futuro autore romano una giustificazione proprio in quella sorta di stato d'eccezione che la lega a Pasolini, come fossero alterità quasi mitologiche rispetto al mondo borghese del quale egli invece fa parte. La Betti è un'Erinni, una furia isterica, talmente eccessiva da risultare comica ("Questo piaceva soprattutto alla Pazza: mandare vaffanculo"), ma quel che affascina il narratore (che venga chiamato "zoccoletta" è un dettaglio non infimo della scena), e non poco il lettore, è la consapevolezza di essere com'è.

Betti, in apparenza massacrata dall'impietosa descrizione, è un personaggio straordinario. E poi c'è il suo maestro, PPP. Petrolio è, lo sanno tutti, un monstre, qualcosa di scritto lo definisce appunto Trevi, un oggetto letterario che però scardina qualsiasi confine estetico, una roba non più concepibile nel 1992.

Si era entrati, e già da un decennio almeno, in un'epoca in cui la letteratura viene ridotta a trame, a storie, a intrattenimento. Qua invece siamo più vicini – sostiene Trevi – alla body art che alla letteratura. La lettura del libro non è un esercizio tecnico, strutturale, filologico, benché si avvalga di tutti questi strumenti ma mette in gioco l'esperienza, la vita anche emotiva del suo interprete. E se l'opera, anzi l'opera-vita che in questo Pasolini terminale ha da fare con un'iniziazione (ne è il fine ultimo), sembra un viaggio iniziatico anche quello dell'autore, a partire dai mesi di soggezione assoluta, pavido-ironica, verso l'arbitrio violento della Betti fino al viaggio in Grecia, a Eleusi – viaggio mai davvero terribile, certo, mai a rischio di nulla di fondamentale, inevitabilmente commento, secondo vocazione epigonica che Trevi non può nascondere (se a Pasolini, tutto immerso in un processo creativo, sorgivo e intemperante come quello di Petrolio, risulterebbe un' "insopportabile pappa finto-erudita" la vacuità del postmoderno citazionista... Trevi se ne salva in parte grazie a una controllata partecipazione sentimentale che, al netto di qualche eccesso retorico, sa emozionare).

Il racconto di Trevi dunque, nonostante non faccia che esaltare il '900, è quello di un uomo del nostro tempo, impossibilitato a procedere senza accordarsi alla voce di un altro, incapace di attraversare l'oscurità senza lo strumentario di citazioni altrui ma onestamente consapevole di questi limiti, che sono poi dei più, e bravissimo a illuminare quella che invece gli appare una storia umana e artistica irripetibile. Che passa, è ora di dirlo, perlopiù dai misteri eleusini e dal mito androgino, attraverso un processo di sdoppiamento e metamorfosi sessuale. Per una conoscenza, diciamo, "superiore".

Quel che non convince è il fare spallucce sul lato civile, politico di PPP (a prescindere da giudizi di valore: di cazzate Pasolini ne diceva tante, come tutti) – mentre lavorava a Petrolio e a Salò, negli anni settanta PPP scriveva sui giornali quello che tutti sanno.

Non vedo perché una lettura come quella proposta da Trevi – quasi esoterica, gnoseologica – debba escluderne un'altra... Sarebbe schizoidismo? In arte non c'è niente di meglio. Vale la pena notare che una letteratura come forma estrema di conoscenza (il "moderno" lo chiama Trevi) se non ha niente a che fare con il "prodotto", la "bella confezione", non ha bisogno di cercare il suo opposto nelle bolle di sapone di Baricco (da Pasolini a Baricco, un bel saggio di storia italiana... e chi scrive non soffre di alcuna venerazione per Pasolini) – basterebbe, per Trevi, fermarsi a Carver, uno scrittore per il quale non a caso si è utilizzato l'etichetta di minimalismo: avvicinare il lettore, blandirlo anche nel male, tutto sommato anche rassicurarlo. Scrivere buone storie.

Sarei meno drastico. Certo, lo spettacolino di innumeri fighetti che non hanno niente da dire ma riempiono le scuole di scrittura e le pagine del 'Corriere della Sera' sono l'omologo dei patetici editoriali politico–culturali ivi ospitati. Come quello del PG Battista che approfitta del libro di Trevi, capendoci poco o niente, forzandone a sua volta l'interpretazione, omettendo di notare che Trevi si guarda bene dal far scendere il santino dall'altare (trasferendolo caso mai da quello della religione civile al ben più suggestivo trono di un'iniziazione estatica) e definendo una "richiesta ossessiva" quella di riaprire il processo. La mira? I soliti. Non i comunisti (questi fantasmi, la parola stavolta è evitata) – ma quelli che non avendo nessun pregiudizio verso i "misteri eleusini" trovano che la storia politica italiana sia tutt'altro che candida e che PPP non sia stato ucciso per un pompino malriuscito.





Emanuele Trevi

Qualcosa di scritto

Ponte alle Grazie - 2012



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