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ATTUALITA'

Stefano Torossi

Venezia, la biennale e l'Harry's Bar

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Se vi parlano di Piazza San Marco, se vi indicano il campanile, se vi nominano il Canal Grande, non date retta; il monumento più importante di Venezia è l'Harry's Bar. Quindi, eccoci qui che sfruttiamo un pretesto qualsiasi, in questo caso l'inaugurazione della Biennale d'Arte, per fare la nostra rituale visita all'Harry's. Una porticina a molla, durissima, nella quale d'inverno si ingolfano correnti gelate, una saletta che sarà al massimo cinquanta metri quadrati, un bancone vecchio stile con davanti sei ambitissimi sgabelli, qualche tavolino e poche sedie. Ma...

Il barman, faccia da Casablanca che quando entri ti saluta, complice, come se foste commilitoni della legione straniera in licenza premio. Uno sfarfallio di camerieri con giacche bianche su cui, e sono anni che ci passiamo, non abbiamo mai visto una macchia. Una macchia? Un'ombra! Clienti da tutto il mondo e, a parte i vari bellini e prosecchini, il miglior cocktail Martini dell'universo. Potrebbe bastare, ma ci sono anche quelle polpette croccanti che ti offrono (solo ai più simpatici, ci illudiamo). Però, alle venti e trenta il bar diventa ristorante, e allora, se uno vuole restare a cena fa un mutuo in banca, oppure se ne va. Ma contento.

A Venezia, occhio al portafoglio. Trattamento da turisti. Vaporetto a 6 euro e mezzo anche per una fermata. Cappuccino in piedi, uno e quaranta. E tutto il resto in proporzione. Rapina.

Di bello c'è che senza automobili, niente ingorghi. Di auto. Ma ci sono quelli di pedoni. Lo sa-pete che in certi momenti di affollamento i vigili sono costretti a fare i sensi unici alternati pedonali. Severi, uno all'inizio della calle, uno alla fine, bloccano la gente in una direzione finché il passaggio non si è liberato nell'altra. E con la pioggia gli ombrelli diventano armi da duello. Due corpulenti veneziani si scontrano a metà di una calletta. Piove. Gli ombrelli aperti. Nessuno vuole cedere. Il primo fa all'altro: "Mi no ghe darò mai el passo a un becco!" "Mi sì, sior paròn! El se comoda!" risponde il secondo con un inchino, e lo fa passare. Era lo zio del Cav. Serpente, famoso anche per-ché si infilava fra le mandrie di forestieri borbottando: "Andé a casa!" e facendoli inciampare con il manico del bastone.

Comunque, forza! Dopo un paio di sere di Martini bisogna pur rispondere al richiamo della cultura. E allora via verso i due poli della Biennale: l'Arsenale (cuore guerresco della Serenissima ormai degradato a spazio mostre, che comprende le corderie, un immenso stanzone stretto e lungo, ma lungo trecento metri, dove si torcevano le gomene dei galeoni veneziani), e i Giardini, una zona in coda a Venezia (se guardate una pianta, la città ha la forma di un pesce, curiosa coincidenza, no?) dove sono i padiglioni delle nazioni che espongono le opere dei propri artisti.

Qui si trotta per chilometri, di solito sotto il solleone, qualche volta anche sotto la pioggia. Mi-gliaia di persone. Fino all'edizione scorsa c'erano in tutto due gabinetti, ci si può immaginare l'assedio, e le condizioni. Quest'anno è stata aggiunta una fila di otto di quei casotti chimici, più camere a gas che rifugi di confort. E' vero che ci sarebbe la laguna a due passi, ma farla in acqua, via, non va, soprattutto di giorno, perché poi ti vedono e fai una brutta figura.

Questo è uno dei misteri dei luoghi d'arte. Mai servizi adeguati. Evidentemente gli organizza-tori pensano che gli intellettuali non abbiano bisogni da soddisfare. Neanche appetiti da placare, pe-rò. Perché se uno decide di spostare l'attenzione dal basso a un po' più su, al livello gastronomico, è anche peggio. File sovietiche davanti a patetici baracchini che forniscono un'alimentazione triste, naturalmente a prezzi allegri. Chissà come mai il concetto che con un buon servizio e dei buoni in-gredienti si guadagnerebbe di più, neanche sfiora i gestori. Forse si tratta di una visione cattolica vecchio stampo: tutto quello che è meritorio, la cultura, lo studio, la conoscenza deve essere un sa-crificio, e non un piacere. Quindi, guai ammettere che dopo una visita alla toilette si possa essere in una condizione migliore per apprezzare un quadro. Così come azzardare che un riposo su sedili con-fortevoli e qualcosa di buono da mangiare o da bere predisponga alla degustazione anche dell'arte. Eppure in qualsiasi altra parte del mondo succede. Mah.

A proposito, ma vogliamo parlare delle opere? Di sicuro, a farlo con onesta semplicità ci espo-niamo agli sberleffi degli addetti, ma vogliamo rischiare. Sono anni che andiamo. Sono anni che ci divertiamo moltissimo a vedere tutti i giochini che la tecnologia mette a disposizione degli artisti: materie sempre più versatili, trucchi sempre più raffinati, e l'impudicizia di questi ultimi (sono artisti, no? quindi tutto gli è permesso) nell'usare quello che gli capita sotto mano senza vergogna. Giusto, e, ripetiamo, divertente. Il problema è se uno cerca di fare un condensato intelligente di quello che ha visto e ascoltato, se prova a tirarne fuori qualcosa di ragionevole, tanto per poter rispondere alla domanda: "L'arte sta andando di qua, o di la?" forse l'unica risposta possibile è proprio: "Mah?"

Poi, alla fine della giornata, chissà come mai, il pensiero volge al desio di quel tale bar dove fanno quel certo cocktail così buono di cui abbiamo parlato prima. E' giusto, dopo un impegno in-tellettuale così arduo, e nello stesso tempo vacuo, consolarsi con un bicchiere?

Mah.



P.S. Dopo tutto il male che abbiamo detto di Venezia, ci sembra opportuno farvi notare che, almeno, è uno dei pochi vacanzifici del mondo sguarnito di tutte le scemenze che instupidiscono i depliants delle altre destinazioni. Per fortuna qui non si parla mai di: "vivere slow per neo-hippy, ma vip, in un posto appollaiato e irraggiungibile, tutto da scoprire, molto trendy e cool, fornito di wellness con il bazar e l'hammam, perfetto per le vacanze in rosa (delle mogli), mangiando prodotti del bio orto, ma, soprattutto, dove il tempo sembra essersi fermato". Eh?







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