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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Francesco Saba Sardi

Vuoti di memoria

Bevivino, pag. 380 Euro 18,00
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Traduttore, Francesco Saba Sardi: da sei lingue, per quasi cinquanta libri - quando aveva bisogno di soldi, entrava in casa Editrice, diceva se avevano un tomo di seicento pagine da fargli voltare, e due settimane dopo il testo era pronto. Sessuologo, tra i primi nell'Italia clericofascista e cattocomunista del '50, col volumone Sesso e mito. Scrittore, con decine di titoli - grande amico di Luciano Bianciardi: e difatti tira un'aria di "vita agra" in questo suo lavoro, così come in quella e in diversi racconti dello scrittore grossetano l'impalcatura intellettual-sexpolitica disattivistica (es. p. 213) deriva dai colloqui che ebbe col triestino Franz.Viaggiatore instancabile e amico di viaggiatori "professionisti": fotografi del calibro di Uliano Lucas e Mario Dondero. In un'epoca di "esperti" e di "professionalità", dilettante in tutto, specialista solo nell'arte di parlare (questa l'ho già sentita): quindi uomo colto.

Sotto ognuno di questi rispetti e strambotti lo incontriamo, a raccontarci di come si mangia e si parla in Catalogna, di quella volta che andò in Amazzonia con tre pirla - la specie più diffusa di italiano all'estero, alla quale senz'altro appartengo - e c'era coccodrillo a cena, oppure di quando incontrò Nelson Mandela e consorte, un attimo dopo la fine dell'apartheid, o incontrò Lukács perché aveva ancora da dire sulla Parola e sul Reale. Cose viste, ma dette sotto forma di racconti, sia pure in prima persona singolare - come ogni buona incazzatura. Sardi non fa l'album delle figurine, né è poeta che ha per fin la maraviglia. Tutt'altro: "Non mi si supponga cinico. Lo sono", (p. 73) ammette. Beh, insomma: certo è che l'ambiance cosmopolita è talmente temprata dalla necessità fisiologica, caravaggesca, di rendere i caratteri e le cose al vero, che qualsiasi indifferenza snob quella portasse, sarebbe macerata nei succhi acidi di questa, e nel pinzimonio di fattiva carica polemica e "arrabbiata" - angry old man - che l'accompagna.

Cinismo, no, dunque - a meno che d'esso non sia un tratto la disillusione, il disinganno, l'aver scritto un abbildungsroman, (p. 377) un romanzo di deformazione: aver visto e sperato nelle montagne - il comunismo, la decolonizzazione, il Sessantotto - e vivere tra i sorci che hanno partorito, non è cosa allegra. Resta allora soltanto raccontare, e, attraverso la narrazione, far risaltare e porre dei problemi - mèmori di quella scritta sul muro di Berlino che recitava: "comunismo follìa, capitalismo merda". (Per altro: "il capitalismo moderno ha fatto proprio il dogma del marxismo", p. 129: e vedi il finale de La fattoria degli animali)

Per ammaestrarci, Saba Sardi ci guida all'"altro mondo": quello che non parla, che non risulta. Perché rimbomba - qui e lì - il Discorso, l'unico possibile, l'insieme delle idee, ideologia-falsa coscienza, religioni, modi di vivere, rappresentazioni e interpretazioni, simboli e segni, sussurri e grida, prassi della monocultura occidentale. (p. 264 e passim) "Monocultura" non solo in senso lato: in agricolture già compromesse dal "debbio", (p. 227) su terreni con uno strato di humus di quattro, cinque centimetri (in Europa si è in genere al mezzo metro), con l'acqua contata e discontinua, le coltivazioni di sussistenza vengono eradicate, (p. 276) per far spazio ai prodotti che "rendono" - caffè, arachidi, cotone, tè, cacao. Ma, primo: essi "rendono", fanno realizzare dei profitti, solo se si inseriscono nel mercato globalizzato. Solo, cioè, se l'Occidente li compra, e solo nella misura in cui soddisfano i propri bisogni e ritmi. E' facile intuire come finisce quando i desiderata del modo "moderno" cambiano, oppure quando l'iperproduzione - tutti a produrre le stesse cose di qualità equivalente - fa crollare i prezzi. "La macchina dell'abbondanza ci ha portato carestia", diceva Chaplin nel finale de Il grande dittatore: difatti, gente povera, che almeno però ricavava dalla terra alimento e apartenenza, diviene misera, e non può fare altro che trasferirsi nelle bidonvilles in città nella speranza di campare, magari dei rifiuti degli Epuloni.

Ma la struttura porta una sovrastruttura ("era, ed è, un punto di vista che ormai fa ridere, e tuttavia...", p. 329): alla monocoltura delle piantagioni corrisponde quella dei cervelli. Vero è che il Primo Mondo, autoproclamatosi il migliore dei mondi possibili, ha le sue fascinazioni: non tutto di esso è da buttare, e sarebbe sciocco e cieco negarlo. Dunque, molti tentano di penetrarvi in ragione di questo "appeal". ("ovunque ho visto segni di omologazione", p. 151) Il problema tuttavia sorge con gli altri: con quelli che camperebbero tanto bene per conto loro, e non lo possono più fare, o perché l'ambiente in cui risiedevano viene compromesso o distrutto, (p. 218) oppure perché si sentono incompatibili con il modo di pensare e di agire "bianco": (p. 314) indios amazzonici, pigmei, boscimani, aborigeni australiani (in parte), papuàsi.

E' la loro flebile voce che lo scrittore tenta di far emergere - senza mai idealizzarli (p. 314), è la loro vita stentata che il traduttore (ma non quello "antropologico" - p. 297 - anzi l'opposto) cerca di rendere leggibile, proprio perché si salvi dalla "reductio ad unum", (p. 220) l'omogeneizzazione di ogni modo di vita e di ogni pensiero diverso nel gran crogiuolo della Stahlstadt hegelo-cartesiana, e nel suo Discorso tirannico - "Tiranno" è quello che gli "tira", il feticcio delle masse di individui fragili e ammaccati narcisisticamente, l'eterno Cel'hoduro che offre agli uomini di risarcirli della loro pochezza con la sua. (p. 133) Discorso ripetuto a pappagallo da "i tiranni e i tirannelli locali (...) al diretto servizio degli interessi occidentali o islamici", (p. 351) la sciagurata classe dirigente (in specie africana) che ben poco dirige, insediata come fu dal Padrone a fare i suoi interessi, non quelli dei popoli illusoriamente liberatisi con lotte spesso lunghe e sanguinose.

Non vorrei, nel riassumere e compendiare, aver banalizzzato pagine che hanno ben altra profondità, raffinatezza e precisione della specie di volantino da centro sociale (o, peggio, da vulgata hyppisterica, hyppodermoclitica, tipo quella che viene svillaneggiata dall'Autore, e mai abbastanza, nel racconto Fiume celestiale) che ho delineato occupandomi nemmeno del contenuto del testo, ma di un percorso in esso - quello che ad ogni modo più mi coinvolge. Vorrei dar prova della sottile capacità della scrittura di Saba Sardi di concertare un'erudizione strepitosa con uno stile perfettamente letterario, in cui tanta è l'arte che l'arte non si vede, rimandando al Preludio: il quale, come ogni membro della sua specie, propone le arie e le melodie della composizione che segue. Non solo: ma questo termine rimanda, nel Lettore appena smaliziato, al lemma Fuga - dunque al bisticcio (p. 151) tra una voce immaginaria che propone "ogni viaggio è fuga", e il contrappunto dell'Autore che spiega "No. (...) è ritorno. (...) La parola che io sono, in cui sono, è itinerante, è errante. (...) La parola è erranza": dopodiché (p. 164) si dice che "il viaggiatore subisce varie incarnazioni, fino alla conclusiva". E allora ogni viaggio è una vita, e una parola: è il luogo della coincidenza. Vivere è discorrere: ed errare. Ahinoi, in piena anfibologia.

A questo punto, c'è sempre la squinzia o l'impiegato dell'agenzia immobiliare, che si alza e ti chiede: "ma allora, se i negri badùla ti piacciono tanto, o le favelas, perché non ci vai ad abitare?" L'Autore la sua risposta la dà. Scrive: "ho invano tentato di farmi selvaggio, di alloggiare in capanni e ricoveri esposti ad ogni vento, alla pioggia, al sole, al gelo (e mi sono buscato la malaria, il dengue, l'amebiasi, le pulci penetranti, vermi di varia specie, uno scontro quasi mortale con una di quelle meduse che son dette vasclli portoghesi, la leptospirosi, la febbre emorragica)". (p. 377) E' una risposta onesta: "ci vuole un fisico bestiale, per fare il boscimane nel Natal(e)" - ammesso che stiano lì. Ma non credo sia la risposta autentica: quella, è in filigrana, tra le righe del libro. Se non si vuole che tutto sia ridotto a uno - un modo di vivere, una civiltà, una religione -, allora farsi "selvaggio" è tanto contraddittorio quanto volere che i "selvaggi" diventino come noi.

Dunque: si può giudicare una donna (o un maschietto) più bella di un'altra, e non voler sposare nessuna delle due (o sentirsi rifiutato da entrambe). Si può ammirare il santo, l'eroe, il navigatore, ma avere il mal di mare, essere ateo, avere tutt'altro tipo di coraggio da quello usualmente richiesto per scannare o farsi scannare. E si possono giudicare belle le donne, senza farsi operare a Casablanca - né costringerle a innestarsi un par di zebedej. C'è però un'ulteriore ragione, come dire, politica, che affianca la logica e la civile: ostacolare chi vuole impadronirsi del cargo, (p. 320) di mettere le zampacce o zampette su tutto. Mettere in discussione il Discorso, là dove si origina. Essere la rotella che non ingrana, la voce che stona, la prova vivente che altri discorsi sono possibili anche al centro all'Impero. Perseguire l'"insuccesso" - nel senso che il Lettore vorrà trovare nel libro su Ciampi di Gisela Scerman. E ognuno (almeno) a modo suo, sicché non vi sia la ricettina, anticamera della moda-sputtanamento-inclusione.

Insomma: la discussione, la critica, la protesta, il dissenso, lo sciopero, il voto, il rifiuto d'arraffare più di quanto non consenta un'esistenza decorosa, la ricerca di nuove forme di relazioni sociali ed economiche (al di là della fighetteria di certe proposte radical-chic) - dal recupero del "non si butta mai niente" (p. 225) della nonna, fino al farsi la corrente elettrica in casa, o alle coibentazioni che consentono di ridurre di quattro quinti i consumi energetici (*) - e tutto quello che viene in mente (e anche più in basso: "la libertà è una scureggia al cospetto del potere", p. 134) sono le "armi" che abbiamo per spuntare quelle vere e tremende e assassine di chi ha deciso che il venti percento dell'umanità si strozzi, e l' ottanta che resta crepi. E che ci sta portando verso un mondo in cui è ben possibile che ci si sbudelli non per il petrolio, ma per l'acqua. Un mondo che l'intuizione d'un Poeta già anni fa avversava come malato - e gli davano del deviato, e del rimminchionito se non proprio del pazzo.

E ti credo. I "normali" saremmo noi...



(*) cfr. Un grillo per la testa, videocassetta EMIvideo, Bologna, e la puntata della trasmissione Report (ciclo 2006 - cito a memoria), di Milena Gabanelli, ove si trattava di risparmio energetico.



di Giulio Lascàris


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