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CLASSICI

Alfredo Ronci

La prurigine aristocratica di Luciano Zuccoli: 'La freccia nel fianco'.

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Solo i più curiosi, siamo onesti, trovarono nel romanzo di Luciano Zuccoli, brame appetitose ed inusuali e struggimenti poco d'epoca, gli altri (la maggioranza), preferirono andar sul sicuro e pur affrancando l'autore da un dannunzianesimo che poteva essere pervasivo, si limitarono ad annotare una parziale critica della società borghese ed un uso della tradizione appendicista che non sfigurava nemmeno alla vigilia di tragici ed inquietanti avvenimenti (1913).

Andiamo con ordine: c'era poco da stare allegri in quel periodo se ci si dava all'arte e soprattutto alla letteratura. Zuccoli, di Milano, doveva fare i conti con la linea romantica lombarda: dunque D'Annunzio e Carducci, ma per fortuna sua e dei lettori, anche Fogazzaro e Giacosa.

Romanziere di quella borghesia ricca ed intellettuale che si compiace un po' di giochi e di finezze, con un pizzico di spirito 'elevato', e fluida, senza troppe preoccupazione, nel sentire e nell'esprimersi, preferì, forse per onestà, mostrare di questa anche gli aspetti meno esaltanti (Gerolamo Rovetta, in questo senso, fu ancora più deciso): non è un caso che uno dei personaggi più importanti de La freccia nel fianco Fabiano Traldi di San Pietro, è un giocatore incallito, sempre in bilico tra successo e fallimento e scontroso nel suo rapporto con gli altri e per la difesa del figlio 'diviso' con la moglie separata. Quest'ultimo lo troviamo a otto anni già audace e di una sensualità tutt'altro che fanciullesca: pare innamorarsi di una diciottenne (dico pare perché pur attribuendo all'infante prodigiose capacità bisogna andar cauti con la sessualità in questa terra di cachi e teocon), esattamente Nicoletta, che gli restituisce le carinerie col carico stringendolo di 'sorellastre amorevolezze'.

Non sto qui a raccontar la trama: va accennata per la curiosità del lettore. Ma essendo La freccia nel fianco, si è detto, romanzo appendicista e romantico insieme, s'intuisce il dramma finale: quando ormai grandi ambedue, si incontrano di nuovo in quel di Milano, e non possono nascondere a loro stessi che quell'amore ingenuo di anni prima era solo l'anticipo di una passione travolgente, l'epilogo non può essere che uno. Nicoletta è felicemente sposata ma non può rinunciare al 'piccolo' Bruno, ormai ventenne, e per non dividersi ché la morale glielo vieta, si lascia morire in un incidente sul lago.

La storia fu uno straordinario successo dell'epoca, ma crediamo sia stato nell'ottica tutta brutalmente cristiana della rinuncia al piacere: la borghesia in disfacimento – lo si sente per quanto Zuccoli vada cauto – può essere caratterialmente riprovevole (il conte Fabiano Traldi di San Pietro, dopo una vita di stravizi ed forzature finirà i suoi giorni in un manicomio), ma non immorale e deviante.

Non che la ricucitura sia stata vissuta dall'autore come la vediamo noi: il bimbo ha comunque otto anni e seppure macina lesto non lo si deve vedere malizioso e provocante (ma quei baci dietro le orecchie dati da lui a Nicoletta cosa sono? E quell'appunto diviso tra bontà e malanimo a pagina 29?: - Quando sono savio, il babbo dice che ne ho sette, - rispose Bruno. – Quando sono cattivo, dice che ne ho otto, perché a otto anni bisogna essere uomo.): ma deve essere messo in conto, così esattamente come la quadratura del cerchio della morte della ragazza impossibilitata a dividersi in amore.

Ad onor del vero Zuccoli offrì anche successivamente un'onesta rappresentazione dell'adolescenza, come ne L'occhio del fanciullo e soprattutto nell'opera da alcuni considerata la maggiore, Le cose più grandi di lui che in qualche modo mostrava l'incapacità della pubertà di comprendere al meglio il mondo degli adulti. Ma è solo con La freccia nel fianco che offre una visione della gioventù meno zuccherina ed adulterata. Zuccoli fu scrittore popolare, che conosceva perfettamente i meccanismi narrativi della letteratura di consumo e riconosceva pure – nonostante vantava una distanza dal Vate – l'influsso che il dannunzianesimo ebbe nell'arte in genere, ma fu soprattutto un rappresentante dal preciso gusto narrativo e dalla forte sensualità passionale (anni fa qualcuno la definì addirittura 'mondana'). Il valore aggiunto de La freccia nel fianco non sta però in siffatta riproduzione, ma nella novità di una sessualità (cambia davvero il senso se alla 'n' di sensualità' si sostituisce la 's') quasi carnale della fanciullezza e questo agli inizi del secolo poteva sconvolgere i più deboli di spirito.

Lattuada che della malizia e dell'erotismo conosceva le 'carte' ne fece un film nel 1945. Andrebbe rivisto. Come il bel libro di Zuccoli riletto, senza voli pindarici, ma anche senza velleità censorie.





L'edizione da noi considerata è:



Luciano Zuccoli

La freccia nel fianco

Gherardo Casini Edizioni - 1965







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