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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Attilio Del Giudice

La vita incagliata

Leconte, Pag.149 Euro 15,00
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Fotografia (Tano D'Amico?). Bambini di Palermo che giocano al "morto ammazzato" - stesi sull'asfalto del cortile, col gesso si fanno disegnare intorno la sagoma del proprio corpo, come si vede nei rilievi eseguiti dalla polizia per stabilire la posizione dei cadaveri.

Notizia. Non gran tempo addietro, si seppe di un tredicenne di Scampìa (non un chierichetto: stava facendo una rapina) ucciso da un agente dell'ordine. Poco dopo, in rassegna stampa, un articolo (prima pagina, una colonna di spalla) su un quotidiano padano s'intitolava: "Adesso non si può più neanche uccidere un baby-delinquente!" Perché esistono i "bambini" - teneri, dolci, minacciati: un incrocio tra profiteroles e panda, insomma - e i "baby delinquenti". Che sono un'altra cosa. Una cosa che si può anche ammazzare.

Benvenuti dunque i libri come questo di cui parlerò. Perché poco può fare un libro, ma almeno cerca di restituire umanità a chi se la vede tolta dal mondo (e dalle signore Babebibobù della stampa "libera"). Perché propone, com'è debito pagare dalla letteratura, una vita in una studiata lingua che le si attagli (quando ci riesce), dunque rendendola forma (cioè limite, confine, contorno). Perché, ad onta del fatto che di certe storie sembra tutti sappiano tutto, bisogna raccontarle ancora e ancora, sicché ogni particolare si delinei in pieno, dato che può essere usato da qualcuno per mentire, cioè per deformare il complesso (direbbero i chimici) di vita e lingua, ovvero di senso e significato.

Per quest'ultima, trattando di Sud camorrista, il mazzo di carte che l'Autore rimescola è completo: c'è la ferocia ininterrotta dei criminali, che domina ogni aspetto della propria vita e dei rapporti con gli altri, fossero anche i famigliari (la moglie sgrommata di sangue a ogni occasione: il figlio "imparato" a sparare, unico momento, assieme all'uso del rasoio per la barba e "per qualche altra operazioncella" (p. 102), d'intimità); l'ipocrita collusione dei manutengoli politicanti, ricattatori protervi e insaziabili, sazi solo d'impunità; la donna, come l'uomo, chiusi in ruoli intrasgressibili, ben più incamicianti del burqa - ogni maschio ladro e molestatore, ogni donna moglie o zoccola; la viltà e più ancora l'annullarsi - cementati da secoli di sciagurata oppressione - delle povere pecore che devono vivere in mezzo ai lupi, che belano dinanzi alle loro zampe, incapaci persino di lamentarsi quando sono dal barbiere; lo sfruttamento del lavoro - con la sopravvivenza dei caporali a stravincere sugli uffici di collocazione - i cui frutti vengono taglieggiati se non depredati fino all'ultimo soldo; uno Stato colabrodo, che offre solo pomposi e inutili discorsi nelle scuole da parte di maestri e "psicòli" (psicologi), burocratici scaricabarile tra gli uffici ripittati d'un europeismo ridicolo, squallidi ospedali dove il sudiciume dei luoghi suggerisce l'incancrenirsi della malasanità - uno Stato per cui l'unica tiepida efficienza é nel reprimere poliziottesco, ma incapace di far volare altro che stracci (prostitute africane, pastori slavi).

Però, fra coteste carte nere, ecco la matta dorata: Nino, che frequenta l'ultima classe elementare, e che è, lui figlio d'un lupo camorrista, agnello sognatore - pure se contaminato (l'ambiente non determina ma fa capitare): fa commissioni per il padre, e temendolo lo ammira (p. 101). Essì: Nino è buono, tant'è che spesso e volentieri il padre lo qualifica di "strunzo" - e anche Michele, coetaneo e amico, ogni tanto ha dei dubbi su di lui, sicché gli dà del "filosofo". (p. 121) Ma l'incertezza non coinvolge la sfera sessuale: i due porceddùzzi si ammazzano di pippe sulle riviste porno, e sui rotocalchi dove quelle "della televisione" stanno "tutte con le zizze da fuori che fanno arrapa'" (p. 102); s'inguattano per vedere le ragazzette nude e le monte delle puttane nere come le bufale da latte; e svicolano dalle avances di un ricco pedofilo che vorrebbe conquistarli per pochi soldi - i due furbacchioni fregandogli perdipiù un costoso zìppo. Ma in tale canaglieria, Nino distingue un'emotività più profonda, quella per la maestra bona e dalla parlata "tìschitòschi", ovvero settentrionale - che, pur manifestandogli un affetto manierato e zuccheroso, predilige un allievo più grande.

Bene: in questo Cuore di tutti Franti sorge questo disincantato e spaurito Muratorino a fare da controcanto, col grave compito di passare integro fra i rulli d'acciaio dell'ambiente-laminatoio in cui si ritrova a vivere. Ci riesce - riesce a disincagliarsi, a uscire dalla morta gora delle vite a rischio, in cui si viene uccisi ragazzini col plauso delle biondone nordiste? L'Autore non lo dice: dà per sicura la fine per ammazzamento del padre, ma di Nino lascia il dubbio che sopravviva all'agguato, a voler sottolineare come in Italia (non nel Ruanda, o nella Columbia de La vergine dei sicari) ci siano posti dov'è chiesto di morire per vivere.

Parlando ora della forma che realizza la materia lucidamente oscura, l'Autore assume il suo eroe come antagonista e narratore, e l'offre al Lettore in una lingua ambigua, né italiana né napoletana, ma napoletanesca (il dialetto si cala nella lingua non per contaminarla, ma come vaccino che ne suscita anticorpi e la fortifica - anche se c'è sempre il rischio dell'adulterazione glocalistica alla Marcello D'Orta), che rende visibile nella sua doppiezza il conflitto tra il mondo ferino ma reale dei rei, e l'iperuranio istituzionale delle "parole giuste", quelle (ben settantamila!) che stanno nel vocabolario d'italiano che mamma Lupa compra al suo lupacchiotto, perché ci tiene che suo figlio "s'impara" - ansiosa d'una normalità che lui si sforza di raggiungere, tanto da discutere (analitico) con Michele dei motivi che fanno una parola "giusta" o "sbagliata". Quello, pragmatico, gli ricorda che sono decisioni da "scienziati" - ne abbiamo fatto conoscenza, nel testo, sotto le spoglie dei "pisicoli" (psicologi). Sottintendendo: la partita l'abbiamo persa, diversi ci giudicheranno, sui loro metri un poco artefatti risulteremo sempre fuori misura, sempre vinti. Sempre figurine o di presepe o di teatro crudele, (in)espresse dalle "meglio parole", quelle "che non si dicono". (p. 87) Parole di realtà, segni su segni come corpi su corpi. Come il segno di gesso - a contorno del corpo - su una strada.



di Marco Lanzòl


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