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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Gianni Vàttimo, Piergiorgio Paterlini

Non Essere Dio

Aliberti Editore, Pag.202 Euro 15,00
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Curar nevrotici con la propria autoanalisi. Per la tronca, apparirebbe un verso dell'inno della Benemerita - giusto appresso "usi obbedir tacendo". Invece - qualcuno lo ricorderà - è uno scritto biografico di Cesare Musatti. Che, da quando comparve (il titolo, non il prof. psic. dec.) mi getta in una fiera maraviglia ("Io stupìva", rincara Benigni con Gadda). Esiste un'"autoanalisi" che non sia "propria"? Può darsi un'"autoanalisi" fatta da un altro? C...o!

Un (v)attimino. Pigliamo un bimbo - prendiamolo, per modo di dire (di questi tempi...). Un pinèl nato a Torino nel '36. Precoce orfano di padre poliziotto. Mandato all'oratorio - fu allevato dagli Enti, e ditemi se non è un bel culo per un futuro filosofo. Calabrese d'origine - tarùn! Barbùn! Ritàl! Ratòn! Che potrebbe diventare? Uno specializzato al Lingotto. Un ragionàtt a Villar Perosa. Al massimo, toh!, un medio quadro a Rivalta. Con la Seicento - multipla, neh! Con le rate da pagare. Con la mogliettina dermocloròtica e de(r)mocristiana, anche lei impiegata - stenodattilo, segretaria d'azienda. Con un figlio linfatico e una figlia che compra tutti ma dico tutti i quarantacinquegiri di Gigliola Cinquetti e Gianni Morandi. Col cappotto di pelocamèlo e il natale alla Rinascente. E a letto dopo Carosello - "Simmentàaaal!".

E adesso pigliamo un frocio - e cattolico (mi voglio rovinare!). Un bel cupiòn d'la merda, come in uno de' prischi racconti di Andrea De Marchi. Che destino avrebbe avuto? Anni Cinquanta-Sessanta: o sei Arbasino (o la Gio' Stajano erede Starace), o batti al Valentino con la Rossicàgo e la Tamara. Con la pùla che ti fa la schedina - non della Sisal. Con la marchettièlla ventenne (minore, all'epoca) con la quale prima t'impasolìni, e dopo ti ricatta. Co' 'a Càllase e la Wandissima - "Sentimentàaal!". Col cinemìno dalla losca platea e un sigaretto avea: "a' mòro che c'hai 'na cipparèlla?" Con le risatine del vicinato. Con la morte civile se ti beccano - altro che "coming out". Con - talvolta - il ricovero, la castrazione ormonale (così suicidarono Turing), l'elettroshock (cfr. Portami su quello che canta, di Alberto Papuzzi per Einaudi). Con la squallida morte nello squallido ambiente. Con la peste gay - l'aids, se non si ricorda. Che non stermina più i froci occidentali, ma solo le mamme e i bambini africani, e allora ma che cce frega ma che cc'empòrta.

Però due negazioni affermano. Mettiamo assieme queste due vite spanàte, e che ne risulta? Un filosofo. Non un professore (gentiliano) di liceo, non un associato alla cattedra di filosofia della natura (esame propedeutico). Bensì un pensatore di quelli veri. Con maestri celebrati e celebri (e celibi): Guzzo, Pareyson. Con un pensiero originale come un tuxedo di Versace. La cui etichetta - "debole"- si diffonde tanto da divenire una frase fatta (come c'era stato chi meditava Arturo e Federico, come c'erano stati quelli dell'essere e del nulla con le dolcevita nere, persino presi in giro in tv dal trio Binaca). Un filosofo, ancora, apprezzato dai pensatori di mezzo mondo. Gente del calibro di Gadamer o Rorty. Con amici che si chiamano Furio Colombo e Umberto Eco, con i quali condivide l'avventura della prima televisione, quella cattolica ma aperta, che metteva i mutandoni alle ballerine, pretendeva che le soubrette danzassero mostrando un interno coscia alla volta - nemmeno Enrico Toti! -, censurava Dario Fo e signora. E però faceva lavorare Gadda (teste il documentario sul fiume romano che lui appellava il "bischèrrimo "Tevere"!) e Longhi, e produceva "L'idiota", "Viaggio al Sud", e (alle nove di sera) trasmetteva il "concerto di prosa".

Insomma: il Ns. Calimero non era nero, era solo sporco. E dopo una vita ricca di soddisfazioni e di prebende, feconda d'intelletto e di risultati, funestata da morti precoci ma addolcita da "longtime companions", il Nostro Penseroso & Smoderato Uomo in Debole si racconta a quel piergiorgio d'un Paterlini, di cui abbiamo avuto l'onore. Compiendo così la "propria autoanalisi", facendo scrivere ad un altro la propria autobiografia. E dàndone motivo teorico - "ce ne fece poi 'a spiegazzione / come er Casamìa doppo le gàbbole" (Gioachìno Belli): dov'è l'Essere? Nel Linguaggio. E dov'è il Linguaggio? Nella Conversazione. Ne viene che Sono, siccome Colloquio - ed ecco Heidegger maritato a guidogozzano nell'amicizia per nonna Speranza-nel-cambiamento. Prònubo Togliatti: se quello linguistico è un gioco, è anche attività sociale. Perciò l'atto certo, l'azione indubbia del parlare è pro/getto del mondo. Indi, politica. Dunque, libertà, in quanto "fedeltà a sé stessi", direbbe il Gaber adombrato. E direbbe ancora: "la libertà è partecipazione". Fico, no?

"Però c'è un però, c'è un però però" (Francesco Salvi). Quale nube offusca il sereno crepuscolo dell'Idioletto (e Idoletto) Vàttimo? Una natura e venatura che, credo, sia la ragione sufficiente che ha spinto il Biografo a biografare il Professore: malgrado il successo, malgrado i riconoscimenti, malgrado Lukács e Lucàzzo a profusione, malgrado il fricchettonismo panamericano e monumentabile che lo circonda, il Maestro ancora oggi ha quella sensazione che uno scrittore descriveva così - "mi sentivo, tra loro, come una macchia di grasso su uno stivale pulito" - e mi' nonna, che era più vecchia di me, traduceva con "mèjo puzza' de mmerda che de miseria". Lo rispose anche Garcia Marquez a un intervistatore: "Non sono un ricco. Sono un povero con i soldi". Fatta la tara (e la taratatà, che "nel dialetto emanglon significa "lingua biforcuta" (Gerard Genette, Palinsesti)) dalla retorica, è vero che Gabò, miliardario centenario nobilitato dal Nobel, si sentiva sempre come il bambino povero che era stato, coi piedi nudi zozzi di mollàccia e la bocca a cul di gallina davanti alla pasticceria di Macondo. Racconta unquanco il Filosofo che poteva ben essere invitato da Romiti (er Cesarone nostro, che Ddìo 'o rinùmmeri!), essere amico di Debenedetti (cioè dei soldi: pochi, debenedetti e subito), essere proprietario di case e ville: dentro, si sentiva sempre il "proletario" delle case della via Gluck, col cesso in cortile e "dove c'era un prato ora c'è una città".

Ecco: ho dato conto di questa storia, e, assieme, di chi l'ha raccontata. Mi accorgo che, nel suo interno, trovo delle tracce di me - come potrebbe essere in certi romanzi. Però è sovrapporsi, non identificazione. Ammesso che esista, bisogna esser disposti a tutt'altre prove (narrative) e a tutt'altri (letterari) compromessi. E sovente, il gioco non vale la candela.



di Marco Lanzòl


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