CLASSICI
Alfredo Ronci
Testo difficile e autocensorio, per questo fondamentale.

Per molti anni si è cercato di capire quali siano stati gli influssi, i modelli del testo d’esordio di Giorgio Manganelli. Il libro, uscito nel 1964, procurò un sano scossone alla intelligenza di palazzo, e ancora oggi se ne sentono i risvolti.
Innanzi tutto diciamo che affermare che Hilarotragoedia sia stato un libro di debutto è quasi un falso. Manganelli già dagli anni ’50 collaborava con le migliori testate giornalistiche soprattutto in fatto di recensioni, e si divertiva alla radio con compagni che soprattutto poi negli anni settanta sarebbero stati di grande tessuto letterario: Eco, Calvino, Arbasino e altri.
Il libro quindi non fu un esordio vero e proprio, ma tale si presentò. Per alcuni fu una specie di autobiografico ritratto. Manganelli frequentava allora lo studio di Ernst Bernhard, illustre psicoterapeuta di stampo junghiano, il quale affermava che il suicidio e la morte erano testimonianza della discesa agli inferi guardata come entelechia attuale del vivo, dimensione nella quale punti di vista opposti possono avere pari validità. Per carità, fin qui nulla di dissociativo, ma bisogna comprendere che il libro diventa una risposta attiva ad un conflitto psicologico che l’autore si è poi portato dietro per anni.
Da un punto di vista strettamente letterario (sul conflitto torneremo poi) Hilarotragoedia è un testo ricco di termini desueti, di latinismi, di arcaismi, di dantismi arricchiti da una sintassi spesso fastosa e lussureggiante. Tanto per farsene un’idea. Quando Manganelli accenna all’idea di rinunciare al vissuto dice: ciò sia satis a dirti che la tua vocazione al precipizio non è rinunciante o trascurabile: ma riposata, saggia, onestissima; solenne anche, giacché tutta una vita occorre alla consumazione della gran caduta; et anche: rationalissima.
Hilarotragoedia è il primo antiromanzo di Manganelli. Si è detto in alto, il testo uscì nel 1964, periodo letterario denso di innovazioni con l’avvento soprattutto della neoavanguardia e di alcuni nomi che avrebbero fatto grande, anche col passare del tempo e delle situazioni, la letteratura italiana: da Pizzuto a Frassineti, da La Capria a Marmori, da Tadini a Volponi.
E’ un antiromanzo perché non ha personaggi né articolazione narrativa; come avrebbe detto Calvino in quei tempi, sono le metafore a fare da narrazione. E’ un trattato sulla natura discenditiva dell’uomo verso la morte, verso un inferno che però non sarà mai raggiunto.
Giuseppe Petronio alcuni anni fa, in un testo di pregevole fattura Racconto del Novecento letterario in Italia, diceva di Manganelli: Quasi sconosciuto al grande pubblico, temperamento schivo e scontroso, è stato per alcuni un modello esemplare, quasi un guru o un santone.
Orbene, questa specie di guru affermava: Prigione, donna infedele, sedia sfatta: lì abita l’imperfetta divinità, o forse la perfettissima a noi accessibile. E ancora: adòrane il fiore della fregna.
E’ la parte dedicata all’Inserto sugli addii e più precisamente alla chiosa sulla donna infedele.
Questo ci riporta al concetto iniziale: punti di vista opposti possono avere pari opportunità. Ma per Manganelli è la stessa letteratura ad essere artificio, menzogna, provocazione, ambiguità e l’opera letteraria e un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione.
Anni più tardi, quando il testo fu ripresentato per le edizioni Adelphi, il Manganelli tentò di scherzarci su (ma comunque sempre lo aveva fatto) e precisò così: Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un manualetto teorico-pratico; e, come tale ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore: testi, insomma, nati da lunga e affettuosa frequentazione della materia, compilati con diligente pietas da studiosi di provincia, socievoli misantropi, mitemente fanatici ed astratti; e segretamente dedicati alle anime fraterne, appunto ai capziosi deliberatori, ai visionari botanici o, come in questo caso, ai rari ma costanti cultori della levitazione discenditiva.
Non è chiaro che dietro le capacità lessicali di Manganelli si dipinga un mosaico di efferata tragicità?
Il testo da noi considerato è:
Giorgio Manganelli
Hilarotragoedia
Feltrinelli
Innanzi tutto diciamo che affermare che Hilarotragoedia sia stato un libro di debutto è quasi un falso. Manganelli già dagli anni ’50 collaborava con le migliori testate giornalistiche soprattutto in fatto di recensioni, e si divertiva alla radio con compagni che soprattutto poi negli anni settanta sarebbero stati di grande tessuto letterario: Eco, Calvino, Arbasino e altri.
Il libro quindi non fu un esordio vero e proprio, ma tale si presentò. Per alcuni fu una specie di autobiografico ritratto. Manganelli frequentava allora lo studio di Ernst Bernhard, illustre psicoterapeuta di stampo junghiano, il quale affermava che il suicidio e la morte erano testimonianza della discesa agli inferi guardata come entelechia attuale del vivo, dimensione nella quale punti di vista opposti possono avere pari validità. Per carità, fin qui nulla di dissociativo, ma bisogna comprendere che il libro diventa una risposta attiva ad un conflitto psicologico che l’autore si è poi portato dietro per anni.
Da un punto di vista strettamente letterario (sul conflitto torneremo poi) Hilarotragoedia è un testo ricco di termini desueti, di latinismi, di arcaismi, di dantismi arricchiti da una sintassi spesso fastosa e lussureggiante. Tanto per farsene un’idea. Quando Manganelli accenna all’idea di rinunciare al vissuto dice: ciò sia satis a dirti che la tua vocazione al precipizio non è rinunciante o trascurabile: ma riposata, saggia, onestissima; solenne anche, giacché tutta una vita occorre alla consumazione della gran caduta; et anche: rationalissima.
Hilarotragoedia è il primo antiromanzo di Manganelli. Si è detto in alto, il testo uscì nel 1964, periodo letterario denso di innovazioni con l’avvento soprattutto della neoavanguardia e di alcuni nomi che avrebbero fatto grande, anche col passare del tempo e delle situazioni, la letteratura italiana: da Pizzuto a Frassineti, da La Capria a Marmori, da Tadini a Volponi.
E’ un antiromanzo perché non ha personaggi né articolazione narrativa; come avrebbe detto Calvino in quei tempi, sono le metafore a fare da narrazione. E’ un trattato sulla natura discenditiva dell’uomo verso la morte, verso un inferno che però non sarà mai raggiunto.
Giuseppe Petronio alcuni anni fa, in un testo di pregevole fattura Racconto del Novecento letterario in Italia, diceva di Manganelli: Quasi sconosciuto al grande pubblico, temperamento schivo e scontroso, è stato per alcuni un modello esemplare, quasi un guru o un santone.
Orbene, questa specie di guru affermava: Prigione, donna infedele, sedia sfatta: lì abita l’imperfetta divinità, o forse la perfettissima a noi accessibile. E ancora: adòrane il fiore della fregna.
E’ la parte dedicata all’Inserto sugli addii e più precisamente alla chiosa sulla donna infedele.
Questo ci riporta al concetto iniziale: punti di vista opposti possono avere pari opportunità. Ma per Manganelli è la stessa letteratura ad essere artificio, menzogna, provocazione, ambiguità e l’opera letteraria e un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione.
Anni più tardi, quando il testo fu ripresentato per le edizioni Adelphi, il Manganelli tentò di scherzarci su (ma comunque sempre lo aveva fatto) e precisò così: Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un manualetto teorico-pratico; e, come tale ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore: testi, insomma, nati da lunga e affettuosa frequentazione della materia, compilati con diligente pietas da studiosi di provincia, socievoli misantropi, mitemente fanatici ed astratti; e segretamente dedicati alle anime fraterne, appunto ai capziosi deliberatori, ai visionari botanici o, come in questo caso, ai rari ma costanti cultori della levitazione discenditiva.
Non è chiaro che dietro le capacità lessicali di Manganelli si dipinga un mosaico di efferata tragicità?
Il testo da noi considerato è:
Giorgio Manganelli
Hilarotragoedia
Feltrinelli
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