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CINEMA E MUSICA

Alfredo Ronci

L'ironica disperazione di John Grant: 'Queen of Denmark' l'opera prima.

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Recentemente alcuni studiosi hanno trovato il rimedio 'ultimo' al problema dell'insonnia: hanno somministrato per ore alcuni brani dei Tindersticks, dei Barzin e degli Czars ottenendo una soporifera miscela che ha schiantato anche il più impenitente insonne esistente sulla faccia della terra.

Si scherza, ovvio, ma certo che se uno avesse il coraggio di ascoltare gran parte dei dischi dei tre citati gruppi rischia davvero il letargo. Eppure qualcosa di buono c'è in quella congrega di narcolettici musicisti.

Prendiamo John Grant. Per molti anni è stato il cantante degli Czars (si potrà dire quel che si vuole, ma la loro versione di Song to the siren di Tim Buckley per certi versi era stupefacente) poi allo scioglimento del gruppo ha deciso di fare l'eremita scrivendo canzoni, ma tenendoli nel cassetto. Finché non è stato notato dai Flaming Lips e soprattutto dai Midlake che lo hanno spronato a realizzare un disco. E il disco puntualmente è arrivato: Queen of Denmark.

I soliti figliocci della musica indie l'hanno subito sparata grossa e hanno definito l'opera una delle cose migliori di quest'anno. E boom diremo noi!

Per carità, John Grant ha fatto un lavoro dignitoso e godibile (la prima parte scorre che è un piacere con un paio di ballate decisamente riuscite), ma da qui all'eternità, come direbbe qualche cinefilo, ce ne passa. Diciamocelo: siamo di fronte ad un riuscito bignamino della musica degli ultimi trent'anni (o forse più, se si considera l'amore di Grant per certe atmosfere vagamente country alla Patsy Cline).

C'è un vago sentore di già ascoltato in tutto l'album (come potrebbe non essere, dati i tempi e il secolo?): When dreams go to die soprattutto nell'attacco ricorda il senso 'epico' di Mandy di Barry Manilow (a chi sovviene la versione italiana di Venditti e riaggiustata da Patty Pravo?). Chicken Bones ricorda spudoratamente l'Elton John più 'semovibile', come avrebbe detto Renato Pozzetto, mentre i più giovani faranno fatica a trovare un modello per Silver platter club, ma noi che 'paura non abbiamo' e invece abbiamo gli anni, lo riconduciamo senza alcun tentennamento ad un cantautore ormai dimenticato, ma che negli anni settanta mostrò un alito dignitoso del 'comporre: Gilbert O'Sullivan

Ad essere onesti le cose migliori di Grant (a parte le ballate... When dreams go to die, Sigourney Weaver e soprattutto la title-track Queen of Denmark sono notevoli) vengono dai testi. Si respira un'aria di resoconto finale, supportato però da un senso ironico delle cose che per fortuna non lo rende totalmente tragico, ma tagliente ed incisivo. E di conseguenza anche la sua condizione di omosessuale ne esce ambigua (ma non nell'accezione che solitamente si da al termine): una sensibilità che grida la propria voglia di amore si scontra con retaggi quasi religiosi, freni dettati da una cultura imposta.

La sua straziante brama di affrontare la vita ('Mi sento come Sigourney Weaver quando ammazzava tutti quegli alieni' – Sigourney Weaver) si scontra con la convinzione di un'angoscia ed una inadeguatezza di fondo ('Volevo cambiare il mondo e non sono riuscito a cambiare nemmeno le mie mutande – Chicken Bones). E aprendo il cuore a chi lo ascolta confessa senza fronzoli: 'Basterebbe un sorriso perché mi si aprano i cieli' –Outer space.

Quando poi attacca la title track, dedicata ad un amore vissuto intensamente e finito male, si capisce come Grant è davvero un poeta sfortunato, un loser, un artista che ha trovato nelle canzoni la via più semplice ed appropriata per vivere le sue fantasie e rielaborare le sue disgrazie.

A volte è noioso, come lo era anche il suo gruppo, ma quando c'azzecca (come direbbe Di Pietro) è un bel sentire. E solo per questo ci sentiamo accomunati all'entusiasmo dei figliocci dell'indie-rock.



John Grant

Queen of Denmark

Bella Union - 2010







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