RECENSIONI
Annie Ernaux
Una donna
L’Orma editore, Traduzione di Lorenzo Flabbi, Pag. 99 Euro 15.00
Non so a voi, ma a me sono sempre piaciute le storie che iniziano con la
morte di un personaggio per poi, a ritroso, ricostruirne l’intera vicenda.
Sarà perché mi ricordano tanto i bei film di una volta in bianco e nero,
come Viale del tramonto, che inizia con William Holden che galleggia morto
in piscina per poi proseguire riavvolgendo tutto il nastro all’indietro.
È proprio dalla morte di una donna che inizia la storia del libro, nel letto di
una struttura che adesso chiameremmo RSA, ma che negli anni 80 era forse
soltanto un ospizio o, al più, una casa di riposo. Adesso come allora, però,
l’ultimo rifugio per chi non ha più rifugio. Prima del lungo viaggio.
La donna del titolo è la mamma biologica dell’autrice, quindi nessun
racconto fantasioso o inventato, ma è pur sempre una storia che ci tiene
legati alla trama fino all’ultima pagina, anche grazie a una scrittura scarna,
essenziale. E per questo incisiva.
Direte: troppo facile scrivere dei propri cari! Vi assicuro che in tanti ci
abbiamo provato, ma con scarsissimi risultati. E per Annie Ernaux non è
l’unico libro autobiografico, anzi tutta la sua opera è incentrata sulla sua
vita e su quella di chi le è stato accanto.
Del resto, la motivazione con cui a Stoccolma le hanno assegnato il premio
Nobel per la letteratura nel 2022 recita proprio così: “per il coraggio e
l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli
collettivi della memoria personale”. Insomma, è davvero tanta roba...
Questa donna, la mamma di Annie, nasce e vive in un’epoca in cui, per il
genere femminile, procreare e garantire la soddisfazione del proprio marito
erano gli unici doveri da rispettare. Eppure lei, cresciuta in un mondo
contadino/operaio, troverà il modo, a suo modo, di emanciparsi. Riuscirà a
leggere, a esprimersi con parole sempre meno popolane, a gestire con cura
la sua persona. E soprattutto, nonostante i mille conflitti che per natura e
salto generazionale dovrà affrontare con la figlia, a permettere ad Annie
Ernaux di diventare quella donna colta e sensibile che è tuttora.
Da tutte le pagine del libro traspare questa riconoscenza che la scrittrice
prova per l’autrice della sua realizzazione, come se, senza di lei, tutto
sarebbe stato diverso. Anche se questa crescita è dovuta passare
attraverso tutte le incomprensioni e le cose non dette che, per svariati
motivi, animano e pervadono il rapporto tra una madre e una figlia.
Se ai giorni d’oggi noi genitori smaniamo e lottiamo, anche con armi
improprie, affinché i nostri figli si realizzino, negli anni cinquanta non era
davvero così. Quasi tutto era affidato al dio destino, sperando che facesse
in modo di trovare a una donna un buon partito, una casa e dei figli da
tenere a bada.
Annie Ernaux ci descrive puntigliosamente, con parole di amore/odio, il
complesso rapporto che ha intrecciato con sua madre, una donna di uno
spessore tale, per l’epoca in cui ha vissuto, da farle tener testa a tutti gli
uomini prepotenti e le donne bigotte che si è trovata di fronte.
Nel libro della Ernaux si susseguono parole di infinita tenerezza, come
quando racconta dei due rametti di cotogno in fiore che vorrebbe lasciare
sul corpo della madre prima che la bara sia richiusa; ma anche di estrema
durezza quando Annie, ormai scrittrice affermata, avverte come si sia
enormemente accresciuto il divario tra di loro. Ma, di tutte le parole del
libro, quelle che davvero rimangono impresse sono forse proprio quelle
che concludono la storia.
“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi
gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla
bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui
provengo.”
di Massimo Grisafi
morte di un personaggio per poi, a ritroso, ricostruirne l’intera vicenda.
Sarà perché mi ricordano tanto i bei film di una volta in bianco e nero,
come Viale del tramonto, che inizia con William Holden che galleggia morto
in piscina per poi proseguire riavvolgendo tutto il nastro all’indietro.
È proprio dalla morte di una donna che inizia la storia del libro, nel letto di
una struttura che adesso chiameremmo RSA, ma che negli anni 80 era forse
soltanto un ospizio o, al più, una casa di riposo. Adesso come allora, però,
l’ultimo rifugio per chi non ha più rifugio. Prima del lungo viaggio.
La donna del titolo è la mamma biologica dell’autrice, quindi nessun
racconto fantasioso o inventato, ma è pur sempre una storia che ci tiene
legati alla trama fino all’ultima pagina, anche grazie a una scrittura scarna,
essenziale. E per questo incisiva.
Direte: troppo facile scrivere dei propri cari! Vi assicuro che in tanti ci
abbiamo provato, ma con scarsissimi risultati. E per Annie Ernaux non è
l’unico libro autobiografico, anzi tutta la sua opera è incentrata sulla sua
vita e su quella di chi le è stato accanto.
Del resto, la motivazione con cui a Stoccolma le hanno assegnato il premio
Nobel per la letteratura nel 2022 recita proprio così: “per il coraggio e
l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli
collettivi della memoria personale”. Insomma, è davvero tanta roba...
Questa donna, la mamma di Annie, nasce e vive in un’epoca in cui, per il
genere femminile, procreare e garantire la soddisfazione del proprio marito
erano gli unici doveri da rispettare. Eppure lei, cresciuta in un mondo
contadino/operaio, troverà il modo, a suo modo, di emanciparsi. Riuscirà a
leggere, a esprimersi con parole sempre meno popolane, a gestire con cura
la sua persona. E soprattutto, nonostante i mille conflitti che per natura e
salto generazionale dovrà affrontare con la figlia, a permettere ad Annie
Ernaux di diventare quella donna colta e sensibile che è tuttora.
Da tutte le pagine del libro traspare questa riconoscenza che la scrittrice
prova per l’autrice della sua realizzazione, come se, senza di lei, tutto
sarebbe stato diverso. Anche se questa crescita è dovuta passare
attraverso tutte le incomprensioni e le cose non dette che, per svariati
motivi, animano e pervadono il rapporto tra una madre e una figlia.
Se ai giorni d’oggi noi genitori smaniamo e lottiamo, anche con armi
improprie, affinché i nostri figli si realizzino, negli anni cinquanta non era
davvero così. Quasi tutto era affidato al dio destino, sperando che facesse
in modo di trovare a una donna un buon partito, una casa e dei figli da
tenere a bada.
Annie Ernaux ci descrive puntigliosamente, con parole di amore/odio, il
complesso rapporto che ha intrecciato con sua madre, una donna di uno
spessore tale, per l’epoca in cui ha vissuto, da farle tener testa a tutti gli
uomini prepotenti e le donne bigotte che si è trovata di fronte.
Nel libro della Ernaux si susseguono parole di infinita tenerezza, come
quando racconta dei due rametti di cotogno in fiore che vorrebbe lasciare
sul corpo della madre prima che la bara sia richiusa; ma anche di estrema
durezza quando Annie, ormai scrittrice affermata, avverte come si sia
enormemente accresciuto il divario tra di loro. Ma, di tutte le parole del
libro, quelle che davvero rimangono impresse sono forse proprio quelle
che concludono la storia.
“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi
gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla
bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui
provengo.”
di Massimo Grisafi
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