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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Ersilia Tomoe

L'appartamento

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Nel corso della mia vita avevo abbandonato tutto e tutti e, a loro volta, tutti, con la pochezza del loro tutto, avevano altrettanto rinunciato a me. Come quell’appartamento, possedevo corridoi labirintici dove smarrirsi e zone nere che creavano una sorta di disagio nel prossimo. Ripensandoci, chiamarlo disagio non era proprio esatto, almeno Zolletta così sosteneva e anch’io ero d’accordo: l’abbandono che subivo dagli altri sembrava più la paura di chi a un certo punto non vuol farsi domande né ricevere risposte, l’indolenza di chi non vuole attraversare i territori intermedi così restando fermo al principio, all’ingresso, accolto dagli abitanti invisibili. Nulla più: gli invisibili aprivano e salutavano per cortesia, al massimo offrivano il tè. Forse ero come quell’appartamento. Anzi, io ero l’appartamento che nessuno avrebbe mai comprato e mai vissuto.

Dopo qualche mese decise di porre fine alla nostra relazione. Preso da un ossessivo desiderio di riconoscimento sociale, Tiberio pretendeva di esser presentato a tutti i componenti della mia famiglia. Mi rifiutai nel modo più assoluto, o meglio, cercavo solo di tutelarci. Ma lui non capì e mi lasciò.
Il caso volle che di lì a poco arrivò la telefonata in cui mi avvisarono che l’adoraaabile zia Adelina, l’ultima di una serie infinita di sorelle e fratelli, avrebbe presto lasciato questa terra miserabile, mi scappò un ghigno che prontamente camuffai con un colpo di tosse, quindi ringraziai per l’informazione ricevuta e chiusi la conversazione. Dopo una settimana esatta, ricevetti un’altra telefonata: fui invitato da un suo nipote per l’apertura del testamento. Di tutti i parenti ero il più giovane, ma mi dissero che, nonostante rientrassi nell’ultima parte dell’asse ereditario, era comunque richiesta la mia presenza. Non chiesi altro né gli altri aggiunsero ulteriori dettagli. Provato dall’ennesimo fallimento sentimentale e turbato dall’invito giunto all’improvviso, presi del tempo per riflettere dando colpa al lavoro e, dicendo che avrei dato loro notizie quanto prima, riagganciai. Ce la puoi fare, continuavo a ripetermi tra una respirazione diaframmatica e un’altra, sapendo di mentire a me stesso. Insomma, si trattava di una formalità, non c’era bisogno di farne una tragedia, continuavo a dirmi, ma erano passati quasi vent’anni dall’ultima volta che misi piede in quell’appartamento, che però nei miei incubi tornava a farmi visita spesso. Anche Zolletta, con fare entusiasta, mi incoraggiò, in tono confidenziale mi disse: «Giovanni, le cose peggiori ci sono già capitate», e aggiunse che dovevo cogliere l’occasione perché sarebbe stata un’ottima opportunità per verificare l’andamento della terapia. Mi diedi coraggio e così feci.

L’appuntamento con tutta la stirpe era stato fissato di venerdì alle ore diciotto, però mi consigliarono di recarmi un paio d’ore prima così da poter passare più tempo con l’adoraaabile zia Adelina, anche se quest’ultima riconosceva ormai a stento e non parlava più con tutti quei sondini infilati qua e là. Mi era stata descritta come un bozzolo raggrinzito tra le lenzuola e l’idea che avesse potuto crepare prima della mia visita mi rallegrava.
Lungo il tragitto, dopo aver attraversato un piccolo parco, camminando a testa alta come alla ricerca di un appiglio che mi sollevasse, imboccai una strada secondaria che dava su una vecchia scuola in disuso, l’edificio era ormai ridotto in macerie; le persone del posto, una volta alunni di quella scuola, avevano l’abitudine di chiamarla “monumento”. Ma quale monumento?, pensai infastidito. Attraversai la strada, ero arrivato. Il portone era aperto. Scala sinistra. Cinque piani. L’ascensore era sempre lo stesso: un mini-bunker rosso fuoco con aperture manuali e scricchiolanti. Entrai. Primo piano, buio, cemento, il respiro rallentò, secondo, altro cemento, la palpebra destra sbatteva veloce per il nervoso, era un’ala di colibrì impazzito, cercavo di fermarla con la mano, ingoiavo a stento, fame d’aria, ancora il terzo piano, il rosso dell’ascensore si mescolava al grigio, una tela brutta dove io ero il punto nero e smarrito, poi ancora un altro piano, il respiro si bloccava e poi riprendevaLa fine del quarto, apnee continue, stavo per svenire, esausto mi appoggiai allo specchio, sconfitto nel corpo e nella mente sbarravo gli occhi al cielo, ma nessun cielo, solo il neon accecante che funzionava a intermittenza, ecco, ecco… finalmente ci siamo, cristo santo, il quinto. Strusciai contratto fuori dall’ascensore. Presi un bel respiro mentre con un fazzoletto di cotone mi asciugavo il sudore della fronte; era febbraio, ma non lo sentivo addosso. Mi trovavo davanti alla porta che mi ero lasciato indietro vent’anni fa, presi un altro respiro, ricontrollai l’occhio guardandomi nella videocamera dello smartphone, poi poggiai il dito sul campanello, ma la porta si spalancò e un vocione disse: «Cugino carissimo! Da quanto tempo, ma dove sei finito? Lavori? Hai moglie? Figli?» Attilio, cugino del ramo paterno dal fisico aitante, per nulla a me carissimo, mi abbracciò stringendomi in una morsa.
«Mmm sì, lavoro non lontano da qui» risposi cercando di divincolarmi e togliermi dall’impaccio, ma Attilio, dandomi le spalle, già non mi ascoltava più.

«Giovanni, molte paure e angosce nascono dal nulla, non c’è bisogno di scomodare Freud e Jung» mi disse Zolletta durante uno dei nostri primi incontri. «Esistono perché siamo proprio noi a creare spazio e a coltivarle, ci annoiamo tanto, in fondo» e, sbuffando, mi sembrò annoiato anche lui: «Comunque sono 150 euro». Non esiste, la paura non esiste, ricordati, Giovanni, respirazione diaframmatica.
«Tutto è rimasto com’era, ne potremo ricavare una buon profitto» aggiunse mio cugino, interrompendo il flusso dei miei pensieri, mentre eravamo ancora fermi all’ingresso.
Era vero, tutto era uguale: la porta blindata della casa introduceva direttamente nel lunghissimo corridoio; gli appartamenti erano due, poi congiunti per esigenze familiari. A destra c’era la zona giorno e a sinistra la zona notte. Il corridoio mi dava l’impressione di un lungo corso d’acqua adagiato in penombra e le parrucche di mia zia Adelina erano poste in fila sulla cassapanca in legno, come sempre, poco più in là dell’ingresso.
Ero rimasto lì, tentennavo tra Attilio che parlottava e la mia palpebra destra che ricominciava a ballare. Attilio si accorse della mia riluttanza a procedere: «Cos’hai?»
«No, niente, tu vai, io arrivo tra un attimo, ho dimenticato lo smartphone nel cappotto» mentii.
Feci un grosso respiro e mi tuffai nel corridoio, camminavo barcollando come uno di quei pesciolini rossi suscettibili e frenetici in attesa dei gamberetti triturati introdotti dall’alto dall’essere umano, il padrone che decide vita o morte, tutto in una boccia. Dopo aver superato una serie di camere sul percorso rettilineo, arrivai: quella di Adelina era l’ultima stanza. Le tipiche vetrate anni settanta della porta lasciavano intravedere delle macchie umane più o meno fisse, alcune sedute, altre oblunghe. Ero ancora stordito e titubante se entrare o andare via, ma il vocìo che proveniva dall’interno mi riportò lì, davanti l’uscio della stanza della povera adoraaabile zia Adelina e insieme a me, con un irruente colpo di pinna del tutto inaspettato, entrò anche il pesciolino rosso affannato e spaurito che mi viveva dentro. Adelina, quasi del tutto consumata e in uno stato ormai catatonico, giaceva avvolta nel bozzolo bianco. Alcuni parenti li ricordavo, altri no. Erano circa una decina di persone.
«Toh, c’è Giovanni, mancava solo lui» disse ad alta voce la cugina zitella, quella che mi aveva telefonato la prima volta.
«Beh, siamo quasi al completo adesso» rincarò la sorella, l’altra zitella.
Parlavano come se non fossi presente. Nella stanza l’aria era greve e opprimente. Le tapparelle erano quasi abbassate del tutto e il lampadario al soffitto faceva una luce flebile. Non mi sporsi neanche a vedere se quello a letto fosse per davvero il corpo della vecchia, per me poteva essere chiunque o nessuno. Ecco, non m’importava. Rimasi in piedi, immobile e a distanza. Era solo una di quelle cose che, prima o poi, si dovevano fare, come mi diceva Zolletta, e che presto sarebbe finita: che bella è la fine delle cose, dicevo a me stesso cercando di trovare un anfratto sicuro nella mia testa. Qualche mese prima ero andato dal dottor Zolletta per un problema di cui ho molta vergogna; oltre la questione dell’appartamento c’era, come dire, un’altra cosa che tornava di notte a farmi cattiva compagnia, avevo un’avversione, una fobia assurda e immotivata che mi aveva tormentato sin dalla nascita. Lui la definì papiliofobia. Dopo aver fatto accuratissime e costosissime indagini, aggiunse che avevo anche qualcosa di organico, di non grave, ma abbastanza invalidante. Quindi, mi mandò da Medico Specialista Numero 1, Medico Specialista Numero 2 e Medico Specialista Numero 3. Tutti suoi amici, bravissime persone e, soprattutto, professionisti del male di vivere. Compassionevoli, davvero. «Giovanni, lei va aiutato. Lei si deve far aiutare» era la nenia che ripetevano tutti, ma non ne ero tanto convinto.
Mentre tutti i parenti parlottavano, avvertii una spossatezza improvvisa, così sprofondai nel pouf in un angolo. Ritornò il tremolio alla palpebra destra. Mi sentivo osservato.
«Giovanni!»
«Sì?»
«Stai bene?»
Non risposi.
«Ma te lo ricordi? Da piccino era il più smunto dei cugini» disse un’altra.
Macchie, vedevo solo macchie, più grandi, più piccole, ma comunque macchie. Riconoscevo ogni macchia dalle voci e così le distinguevo, facevo fatica solo con le sorelle-cugine-zitelle.
«Sì, è vero. Un caro ragazzo, eh, ma parecchio umbratile…»
«E quella volta che da bambino lo ritrovarono nella tinozza, nudo come un verme, con il figlio del vicino, ve lo ricordate?»
«Invece, sui quindici anni, ve lo ricordate quando correva come un ossesso lungo tutto il corridoio?! Diceva che le farfalle lo inseguivano! Scivolò e si slogò una caviglia!»
Risero tutti tranne il sottoscritto.

Suonarono alla porta. Attilio, da buon maggiordomo, andò ad aprire. Dopo un po’ di trambusto, comparve sull’uscio un uomo belloccio sulla cinquantina, canuto, alto e prestante, con una valigetta. Riuscivo a vederlo bene, a distinguerne i contorni. Lui non era una macchia come gli altri.
«Prego, avvocato Spezzaferri, la stavamo aspettando».
«Ebbene, eccoci qua. Buonasera a tutti. La signora Gelsomina come sta?»
Accavallai le gambe mentre sprofondavo sempre più nel pouf.
«Adelina, avvocato, si chiama zia Adelina» sbuffò una parente.
«Sì sì, certo, ma respira ancora?» incalzò l’avvocato.
Seguirono sospiri, poi silenzi. Sentendomi in imbarazzo, iniziai a grattarmi la testa con insistenza.
«Avvocato Spezzaferri, accomodiamoci nel soggiorno grande, forse è meglio» disse Attilio. Pian piano e in ordine uscirono tutti dalla camera, fui l’ultimo. Prima di lasciare la stanza diedi uno sguardo al capezzale della vecchia: notai una specie di liquido denso e degli strani filamenti tra le lenzuola.

Quando entrai nel “salone delle feste”, come lo chiamavo da piccolo, gli altri avevano già preso posizione: chi si era accomodato sulle sedie dalla massiccia spalliera di legno, chi sui divanetti tappezzati démodé, invece Spezzaferri era in piedi a capo tavola. Era un soggiorno spettrale, il pavimento in marmo nei toni di grigio tortora e beige melange dava sensazione di freddezza funerea. I tre mobili in stile settecentesco e la lunga tavola rettangolare completavano quella sorta di reggia decadente. L’aquila impagliata sulla cassettiera sembrava quasi ghermire Spezzaferri. Ai rispettivi lati dell’aquila c’erano altri due rapaci mummificati: un barbagianni dagli occhi ipnotici e un gufo accigliato e guardingo. Erano i feticci di mio nonno, li adorava.
La disposizione delle cose era la stessa di venti anni fa, nulla era mutato nonostante la morte fosse passata a prendersi i miei nonni e tutte le altre zie che abitavano sotto lo stesso tetto. Era rimasta ancora in vita, seppur molto malata, solo zia Adelina. Non sapevo dove sistemarmi perché i posti erano tutti occupati, rimasi in piedi così da poter essere libero di girovagare un po’ nel grande salone. Avvicinandomi alla cristalliera di mia nonna notai un’etichetta con un numero, l’aprii: alcuni ninnoli, i ricordi in cristallo di Boemia e la sua bambola francese erano etichettati con un numero. La richiusi. Mi resi conto che anche le sedie avevano un numero, il tavolo, i divanetti, perfino gli uccellacci imbalsamati. Qualsiasi oggetto era numerato. Lanciai un’occhiata ad Attilio, lui sviò e mi diede le spalle, il suo culo fasciato nei jeans era grosso ma sodo, intravidi fuoriuscire una coda lunga, pelosa e arricciata all’estremità. La palpebra destra ricominciò a tremare.
Spezzaferri si schiarì la voce e disse: «Bene carissimi e carissime, allora, la signora Adelina è ancora tra noi. Quindi inizieremo con i beni presenti nell’appartamento. Per quanto riguarda l’apertura del testamento ci penseremo dopo».
Continuavo a osservarli come se fossi stato anche io uno di quei mobili etichettati. Le due cugine zitelle erano impettite sul divanetto e sorseggiavano il tè facendo un rumore che mi irritava. Indossavano indumenti simili: gonna antracite e dolcevita in lana color celeste polvere l’una, l’altra gonna in lana color celeste polvere e dolcevita antracite. Da bambino, durante le festività, ci riunivamo a pranzare in quell’appartamento per la felicità dei miei nonni e mi obbligavano a sedere in mezzo alle due cugine così sarei stato più in compagnia, mi avrebbero fatto giocare e il pasto sarebbe stato più lieto, a detta di nonni, genitori e delle stesse cugine zitelle. Mi alzavo prima dell’arrivo del dessert, stanco e dolorante, con le braccia viola piene di lividi.
C’erano dei numeri anche sulle loro tazze usate, me ne accorsi una volta che le poggiarono sul tavolino. Fu così che abbassai lo sguardo e guardai i loro piedi che sembravano più grandi del solito, le scarpe erano forate e si scorgevano tre dita assottigliate ricoperte di squame con delle unghie nere, il dito centrale era quello più lungo dotato di un vero e proprio artiglio, incurvato e rivolto in avanti. Sul pavimento, non poco distante, delle piume. Non avevo più saliva, strabuzzai gli occhi.
Spezzaferri annunciò: «Si proceda con il sorteggio!»
Non riuscivo più a deglutire, iniziai a strofinarmi gli occhi, la palpebra destra mi si chiuse definitivamente.
«Ognuno verrà qui e sorteggerà nella bolla il numero a cui è assegnato l’oggetto corrispondente». Alzò e sventolò una specie di inventario, poi proseguì: «l’oggetto o il bene in questione andrà per diritto alla persona che ha estratto e così via, vi ricordo che è stata numerata anche la biancheria… ogni cosa che si trova nell’appartamento, come da vostro volere, se non ha il numero contrassegnato, è segnato in questo libricino. Si faranno più estrazioni fino a quando non verrà assegnato tutto, chiaro signore e signori?» Le orecchie di Spezzaferri facevano movimenti inconsulti, s’erano inspessite e ingrigite, gonfiate e allungate diventarono quasi più grandi dell’avvocato stesso, fino a toccare a terra. Attilio era ricoperto di peli. Le cugine con le lunghe zampe fecero un balzo verso l’avvocato cercando di beccargli in testa, gli altri commensali inferociti ruggivano e sembravano pronti a sferrare un attacco di branco mentre l’avvocato cercava di difendersi a colpi di orecchie e proboscide. Attilio era l’unico che sembrava estraniarsi dalla faccenda gorgogliando versi strani e cacciando dalla tasca dei jeans delle banane schiacciate che divorò con tutta la buccia. Urla, schiamazzi, barriti, starnazzi e ruggiti. Tramortito da quel marasma e con un solo occhio vedente, fuggii, chiusi a chiave la porta del salone. Corsi lungo il corridoio buio, urtai la cassapanca e, inciampando nelle parrucche della zia Adelina, caddi battendo la testa sulla parete. Mi rialzai, ero spaventato e ansimavo, arrivai all’ingresso, afferrai cappotto e sciarpa, mi accorsi che non avevo con me il cellulare: dovevo averlo lasciato nella stanza della vecchia. Mi diedi a schiaffi in faccia sperando di svegliarmi o di rinsavire, invece no, ero ancora lì nell’appartamento. Zolletta si era sbagliato, si sbagliava su tutto.

Dovevo recuperare lo smartphone, non potevo lasciarlo nell’appartamento, avrebbero numerato e messo al sorteggio anche quello. Ce la posso fare, mi incoraggiavo, Giovanni, approfitta della bagarre nel salone, coraggio, poi sarai fuori per sempre. L’occhio destro si riaprì, era un buon segno, pensai. La gola era secca, la testa ancora mi doleva per il colpo preso nella caduta, poggiai la mano sudaticcia e scivolosa sulla maniglia e aprii. Nella penombra intravidi i macchinari per la respirazione ancora in funzione, ma privi di traccia di vita, i sondini erano staccati. Mi avvicinai con passo quasi strisciante e respiro mozzo. Sul letto il groviglio di lenzuola era stato sfasciato e imbrattato da una bava viscosa: zia Adelina era sparita. Non mi persi d’animo e mi fiondai sul pouf, il cellulare era caduto infilandosi sulla sacca al lato. Lo recuperai, alzandomi sentii una specie di solletico sulla nuca, mi guardai intorno: non c’era nessuno. Massaggiandomi la testa e il collo che si era come bloccato a causa della scivolata, mi volsi al soffitto: un gigantesco lepidottero dalle ali scure e pelose era sopra di me… urlai, ma il mio urlo era come se non emettesse alcun suono, scappai con i pantaloni bagnati dal piscio e con l’orrore e il ribrezzo ancora negli occhi, non presi neanche il cappotto e la sciarpa, mi precipitai fuori. Una volta all’interno dell’ascensore ebbi dei conati di vomito, mi voltai tremante verso lo specchio: avevo in testa una delle parrucche di Adelina, quella con il caschetto color castano scuro. Appena fuori dal portone, stravolto e disperato, quasi in lacrime, chiamai il dottor Zolletta. Il telefono suonò per un po’ fino a che non ci fu un attimo di silenzio interrotto da un raglio di somaro.




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