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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Sara Calzolari

Quella volta il vento...

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“Se le parole non hanno vibrazione
e sentimento, allora sono solo
parole”.
(Charlotte Rampling)

   Galleggiavo intorpidita, in quell’opprimente pomeriggio di un’estate giaguara, schiacciata da un’aria greve che, immobile, calava le palpebre, arrancava il respiro.

    Improvviso, prolungato… lo stormire dei rami mi riscosse.
Nel risveglio, l’intorno, rimasto ovattato in quel limbo sonnolento, s’animò: persiane ballerine sbatterono violentemente, dalle finestre squarciate invadenti fiotti d’aria alzarono polvere e sfogliarono i giornali sul tavolo.
   Dal cuore della stanza, d’istinto lanciai uno sguardo fulmineo al giardino e catturai il balenìo tormentato dei rami, quasi divelti dal tronco. Lasciai che intense folate mi attraversassero mentre si rincorrevano dai vetri spalancati.
   Come una scarica d’energia, fui smossa da un brivido dopo che le perle di sudore evaporarono, rigenerandomi di freschezza.

   Il vento caldo d’agosto che sorprende anticipando un temporale invocato, da sempre riporta dinnanzi antichi ricordi e desideri mai avverati. Gli sbuffi mi pungolano con mozziconi di passato nostalgico che prende il sopravvento su di me, ristorata dall’afa ma vulnerabile, sensibile alla malinconia dolciastra per ciò che fu e non potrà più essere. L’aria, danzante a ritmi precisi, mi sferza d’irrequietezza e mi abbandona, provata, in un limbo indefinito in cui un sereno, felice trascorso si fonde con l’amarezza del presente.
   La forza della lontananza a volte mi colma di nuova vitalità, arma potente per incontrare il mistero del domani. Quando questo accade, significa che sono una creatura dell’aria, una figlia che sa come risorgere nella propria madre.

   L’orizzonte si smorzava rapidamente con l’avanzare inarrestabile di nuvole nere che spinte da violente raffiche mutavano continuamente forma e grandezza, fino a lambirsi quindi ad ammassarsi. Sapevo che presto il vento si sarebbe fermato, lasciando per poco il tempo in sospeso per permettermi di uscire.

   Il pomeriggio trascolorava verso l’imbrunire nel deserto della sperduta periferia, triste nella trascuratezza dell’abbandono, spaventosa nei suoi occulti misteri.
La mia falcata si fece lunga per inghiottire quanta strada potesse, ma s’aprivano vortici improvvisi e l’asfalto a tratti si sbriciolava come pane raffermo. Dunque, la via era abituata al calpestìo, all’andirivieni trafficato e l’aria a riposo, in altri momenti sarebbe stata smossa da indistinti rumori, disturbata da un marasma che avrebbe fuso in sé vaghe sonorità.
 Quella volta fui io incontrastata regina a cui tutto apparteneva: l’eco dei passi solitari nella luce ormai rada, le ultime pettinate d’un vento fiacco e leggero che riusciva ancora a far frusciare i mucchi di secco fogliame.

   Camminai a lungo assieme a tanti pensieri che rincorrendosi, affollavano la mente creando disordine e disorientamento. Non avvertii stanchezza attenta a restar presente a me stessa, ponendo cura di saziare fame d’aria inspirandola avidamente. Al limite dell’ebbrezza, tentata a lasciarmi andare inebriata, una folata di vento caldo mi schiaffeggiò affinché non vidi di fronte a me innalzarsi lo scheletro di quella che fu una fabbrica. Alcuni pinnacoli avrebbero voluto ancora raggiungere il cielo coi loro camini spenti e pareva che le nuvole scure avessero pietà di quella distesa triste e volessero ancora renderle dignità. Di fianco scorreva la ferrovia e il passaggio dei treni produceva un terremoto che umiliava ancor di più quella distesa di cemento.
   Pensai che sarebbe stato meglio coprire le vergogne intime dell’edificio esposto al ludibrio nella sua nudità allo sguardo dei passeggeri…
  Prima di perdere dignità, quei mucchi di macerie e ferraglia erano stati un industrioso formicaio di solerti operai, a ben guardare le vestigia lasciate. L’ampiezza di quel che fu era di vaste dimensioni, ma la vittoria sul tempo se l’accaparrò una sola parte che poteva ancora esibire con orgoglio la propria struttura pressoché inalterata. Forse, si trattava di una zona più recente rispetto al resto, ma immaginare oltre non rientrava nelle mie competenze né nei miei interessi, quanto invece m’incuriosì proprio quella stoica ala e risposi al suo irresistibile richiamo. Mi ritrovai di colpo la bambina curiosa che ero, alla ricerca di meandri celati e di chissà quali tesori nascosti. M’intrufolavo dentro stretti cunicoli, grotte, tane, piccole caverne per perlustrare quei mondi nel buio, alla faccia del pericolo e della disperazione di mia madre.  
    Ora che non dovevo render conto a nessuno, l’ebbrezza della libertà mi caricò d’entusiasmo: a breve avrei soddisfatto la pungolante aspettativa indiscreta.
   Pochi passi e caddi nel cuore d’un intricato labirinto di corridoi che s’intrecciavano per poi allontanarsi a formare ampi spazi vuoti. Un buio profondissimo li avrebbe occupati, invadendoli al di fuori di qualche sottile lama di luce. A stento riuscii ad individuarne la fonte, fori piccoli ma prepotentemente abbaglianti. Il chiarore perforava alte feritoie e, a terra, accendeva vecchi macchinari arrugginiti, accatastati lungo la parete scrostata assieme a sgangherati arredi.
   Colpiti, mostravano un volto torvo, abbruttiti dall’inutilità.

 Il vento riprese e le raffiche s’incanalarono in una strettoia, le lamiere vibrarono al passaggio furioso e anche i legni si lamentarono della vecchiaia. Circondata da discordanti risonanze e richiami stonati, la testa prese a girarmi fortemente e fui scossa da un conato. Serrai le palpebre, tappai le orecchie con entrambi i palmi nel tentativo di riprodurre un illusorio mondo più soffuso, ovattato. M’inginocchiai in preda ad un senso di nausea e di straniamento.
Cercai il respiro lento, profondo e cadenzato che quasi subito m’infuse calma e quiete ai nervi tesi. Avvertendo il ritorno della completa lucidità, avrei dovuto alzare le palpebre, ma il timore di quello che avrei potuto vedere mi lasciava tentennare.

   Il coraggio mi sorprese in uno sbuffo d’aria calda che mi scompigliò i capelli: i poveri resti da cui mi trovai circondata, parlavano di vite al limite, quelle che non han nome, relegate negli angoli fatiscenti, squallidi e consumate nel poco e nel buio. L’ultimo rifugio di un’avara fortuna che un destino previsto offriva per sparire senza morire. Anime in pena, invisibili agli occhi ciechi, i miei coglievano nel desolante abbandono, un temporaneo rimedio alla disperazione.
   L’estate s’era imposta anche in quell’estremo lembo di civiltà, un antinferno che in agosto non ospitava dannati.
   Cercai di tener lontani i pensieri per addentrarmi più leggera nella terra di nessuno, penetrando cunicoli deserti ed accompagnata da una gracidante orchestra.
   La temerarietà fu premiata quando pervenni in un corridoio stretto e lungo, alla fine del quale una luce faceva capolino. Lo percorsi nel silenzio ma rapidamente e… ciò che mi s’aprì dinnanzi superò la realtà. Mi trovai catapultata nel bel mezzo d’una fiaba: una piccolissima stanza, uno spazio minuscolo che qualcuno aveva rubato al resto, ritagliando bellezza, colore, armonia. Contrasto.

   Una giovane donna, seduta su un letto, era intenta a spazzolarsi una lunga chioma dorata. Un’alcova vera e propria, dotata di testata, due cuscini, lenzuola pulite, distese, senza una grinza, ordinatamente rimboccate. La colorata fantasia floreale si esibiva senza interruzione in un tripudio di primavera.
Di fianco, un comodino sul cui ripiano trovavano posto una torcia ed un bicchiere; dall’altro lato, un armadio a due ante. Una sedia offriva appoggio ad una valigia aperta, scrigno di abiti accuratamente piegati.
Aleggiava un’aria gradevole, quasi di profumo. Rimasi per un poco a spiare lo scorcio magico d’una camera femminile nella naturale intimità della propria casa, ma… dentro i resti d’una vecchia fabbrica dai moltissimi trascorsi sulle poche pareti dall’equilibrio assai precario.

   “Che fai? Questo non posto per persone normali”, mi disse con accento slavo dal tono vagamente ostile. M’ero illusa d’esser rimasta fuori dal mirino di quegli occhi algidi, gelidi ma non così distaccati.
La sorpresa dell’impatto, l’evidenza delle parole mi resero impotente e al momento non seppi ribattere.  Il mio silenzio fu una scelta apprezzata e la migliore in casi in cui ogni risposta sarebbe risuonata sciocca. Non potevo, infatti, confessarle che io mi sentivo lontanissima dalla normalità perché sarebbe stato troppo difficile da spiegare e ancor di più farlo comprendere.

   Per tagliare lo spesso disagio che s’avvertiva, buttai lì una domanda: “Stai partendo?”
“Sì, torno a casa”.
Al suono della parola “casa” ebbe un sussulto e l’espressione si chinò in una tristezza che avvertii accompagnata dalla devastante sensazione di pena da cui fui abbattuta.
Sconvolta, mi percepii a pezzi per venir poi spazzata lontano, trascinata altrove. Derubata della mia identità e rapite le sicurezze, divenni a me sconosciuta fragile, facile all’immaginare la breve esistenza di quella giovane: il denaro per il viaggio racimolato sacrificando il suo essere donna, scambi affatto equi, mezzi al cui solo pensiero la mia fantasia pose rifiuto. Tuttavia, troppo potente per esser ignorata fu afferrare una profondissima delusione che appesantì i bei lineamenti del viso di quella giovane. Collegai la sua frustrazione alle dure vicende a cui di certo dovette sottostare, agli atti subiti… eppure, sebbene allo stremo delle proprie forze, resisteva testarda, attaccando, rispondendo e reagendo alla crudezza della vita. Quella stanza tutta agghindata altro non era che il castello rimasto dal crollo delle sue belle speranze. La piccola stanza da letto rappresentava tutto il suo avere investito nel domani, rischiando parecchio, sicuramente, ma… dentro quelle quattro mura si respirava un buon odore e dai vetri s’intravedeva uno spicchio sottilissimo di cielo terso.
   Non aveva perso tutto.
   Allora, non ancora.

   Restai attonita per la naturalezza con cui mi sentivo vicina ad una sconosciuta così apparentemente diversa e distante. Invece, riuscii persino a leggere il tormento che dentro le infuriava, facendolo apparire all’esterno solo come una cupa tristezza.
   Perché pescai nel suo animo ciò che io non avevo mai provato prima? Cos’era quell’invisibile filo che m’attirava legandomi saldamente a quella donna?
   Il panico mi avrebbe inondata a breve quando capii che in quell’anima si dispiegava un dolore devastante di cui il cuore era ricettacolo. Da dove attingesse la forza per scaricare quella potenza rimase un mistero, credetti però che il suo chinarsi fosse l’inganno per far fluire quel male. A lungo andare si sarebbe logorata, non avrebbe dovuto perseverare in quello stato velenoso per troppo livore inghiottito.

   Riuscivo ancora a sostenere quell’esile figura, immagine nitida mal tollerata. I suoi tribolati giorni si rincorrevano davanti a me, sovrapponendosi a lei seduta sul letto. Ero in balìa d’un acuto malessere e sarei stata meglio se fossi riuscita ad aprire le labbra ed intonare parole carezzevoli. Avrei tanto voluto distendere i tratti di quel volto tirato per addolcirlo e far esplodere la ridente bellezza della sua età. Tutto sarebbe accaduto per incanto, senza sfiorarla, gonfiandola di fiducia come solo la magia avrebbe potuto operare ed infine… mi sarei scagliata addosso a lei restando incollata sulla soglia per farle sentire che non doveva più pensarsi sola.
   Le illusioni m’accaparrarono prepotenti e vincendomi con facilità mi mossero realmente verso quel letto, ma il gesto di stizza che fece per rifiutarmi, mi ferì seppure continuai il percorso. Meravigliata dalla mia caparbietà, distese un braccio ed aprì la mano come per misurare la distanza che doveva frapporsi fra di noi. Io fuori, lei protetta al sicuro dietro il suo palmo teso.
   In piedi con l’arma spianata a sua difesa, mi minacciava mentre le dita tremavano. Cominciava ad avere paura. Timore di me. Decise così di retrocedere di qualche passo alla cieca, visto che lo sguardo era puntato su di me ed il corpo sull’attenti che si sincerava della mia immobilità. L’angustia dello spazio le fece raggiungere in breve la parete, ed appena la schiena la sfiorò, spuntò anche l’altro braccio a ulteriore difesa e si chinò a terra. Molto probabilmente, così racchiusa in sé avvertiva la sensazione d’esser più al sicuro.

   La conoscevo anche io quella mossa che avevo tante volte messo in pratica e a me aveva aiutato quell’istinto di raggomitolarmi che mi permetteva di richiamare tutte le forze per sfogarle contro il nemico. Le botte sarebbero arrivate più deboli, la violenza e la furia avrebbero frenato prima dell’impatto col mio corpo rigido e teso. Anche i segni avrebbero macchiato con un tono più sfocato la mia pelle di luna, cosicché ricoprirli con colori felici sarebbe stato assai più semplice e l’esito perfetto.
   Se io ebbi validi motivi per imparare l’arte della guerra, non ne aveva quella donna. Almeno, verso di me. Invece, era la paura. Non sopportavo l’identità che m’aveva erroneamente e chissà perché, attribuito. Cosa c’era in me di tanto sbagliato da produrre in una ragazza uno stato di panico? I suoi occhi sbarrati mi incenerirono.
Ed io… non demorsi, cancellando la distanza come se i miei piedi scalzi stessero frantumando vetri.

 “Senti, è meglio se te ne vai”.
Il suo volere avrebbe richiesto il mio rispetto, vietando la mia insistente caparbietà di impormi. Sarei incappata in una forma di violenza… ma perché non mi gradiva? Perché le arrecavo disturbo? Erano buone, le mie intenzioni e non avrei fatto alcun male. Avrei desiderato essere d’aiuto e sentirmi messa sulla soglia, mi faceva irritare.

   Mi son sempre arrabbiata nei casi in cui mi trovavo a non capire, soprattutto quando per diradare la nebbia dei dubbi, dando una risposta semplice ad una domanda che lo era altrettanto, sarebbe davvero bastato pochissimo: una parola chiarificatrice, anche smozzicata, intuita, balbettata. Io sarei stata paga così!
   Per quale ragione non voleva farmi star bene?

   La freccia che scagliò attraverso due occhi ridotti a fessura, mi centrò il petto e dal dolore fui costretta a tradire me stessa: annuii di forza col capo, le voltai la schiena e uscii dal minuscolo paradiso nell’immensità infernale.
   M’accolse un limbo, una terra di mezzo in cui mi riconobbi sospesa, nel tempo d’attesa… Ad attendermi nel lungo corridoio, un bancone da lavoro. Fu irresistibile il suo richiamo assordante in quella vastità quasi vuota immersa in un’eco perenne.

   Mi sedetti sulla superficie fredda di ruggine e i disaccordati suoni di violino ripresero a vibrare al vento. Se avessi infastidito la ragazza quanto quello stridulo concerto mi colpiva l’udito, forse anch’io sarei fuggita verso il rumore del silenzio. Quel martellante, insistito fragore rischiava infatti di farmi precipitare nella follia e mi augurai che la sua bolla l’avesse resa sorda.
  
 “Ma che fai? Ti ho detto di andare via!”
   L’urlo che pronunciò quelle parole sovrastò quello delle sferzate e braccata, mi vergognai. Avevo fallito, tradendo una persona in cui ogni stilla di fiducia verso gli altri era già evaporata da tempo.

   L’abbattimento, la delusione verso di me mi accompagnarono alla ricerca disperata di un possibile rimedio. Mi sarebbe bastato anche solo lenire il suo nervosismo. Non so cosa mi spinse nel tentare di raccontarle qualche giorno della mia vita, forse per dimostrarle la trasparenza, la purezza, la sincerità di cui avrei tanto desiderato investirla e contagiarla.
   Peccai di presunzione nel ritenere all’altezza i miei trascorsi e mi resi conto che quello che la mia pelle assorbì, non infondeva conforto, coraggio e nuova linfa. Aveva perso lustro smarrendolo lungo il trascorrere del tempo oppure i suoi erano molto più freschi e profondi?
   Mi risucchiò il poco orgoglio rimasto, quel volto trascolorato nella perplessità, quindi nel compatimento. Era arrivata ai limiti della propria massima sopportazione.

 “Ma capisci o no? Devi andare via!” E per sincerarsene, scandì a chiare sillabe ogni parola. A quel punto, avrei voluto ribattere con altrettanta determinazione che non solo lo avevo capito fin da subito attraverso i suoi sguardi arcigni e le strategie per tenermi distante, ma non era quella la mia volontà, bensì la sua. A lei davo noia, lei ordinava di andarmene. Non io.
   Non mi persuadeva affatto la scelta della solitudine rispetto alla mia presenza. E non si trattava di presunzione. Nell’aria satura aleggiava una tensione che m’impediva di mollare la presa, seppure a mio rischio e pericolo che avvertivo incombere su di me se fossi rimasta. Eppure, quello strano sentore mi faceva resistere perché si trattava di un fatto meritevole del mio sacrificio. Insomma, non mi trovavo nei resti d’una vecchia fabbrica martoriata in un giorno d’agosto schiavo di vento e di pioggia lieve solo perché le mie gambe desideravano sgranchirsi dal caldo afoso patito. Avevo trovato un mondo dentro un altro abitato da una giovane donna straniera che mi rifiutava. Dovevo restare. Per lei, che aveva un assoluto bisogno di me e me lo stava urlando ordinandomi di andare via. Quella ragazza non era libera. Avrebbe voluto e dovuto esserlo ed io ero lì per farla fuggire. Se invece avessi fatto quel che lei mi chiedeva, sarei stata schiava io della mia coscienza e lei, chissà dove, come sarebbe andata a finire.
Due donne in una gabbia… Non era lontanamente pensabile.

   Riflettei su come ottenere il suo silenzio affinché potessi parlarle per farle sentire la mia intenzione: farle esplorare il mio universo, che ancora ignoto, l’aveva rifiutato. Il mondo che racchiudevo poteva invece custodire risposte che cercava da tempo ponendo domande a persone sbagliate, avrebbe rischiato di scoprire risorse preziose, utili a soddisfare il suo estremo bisogno di uscire dalla prigione che la soffocava, seppure l’aveva resa confortevole. Non lo avrebbe potuto ammetterlo apertamente ma era fin troppo evidente la sofferenza in cui ristagnava. Le sabbie mobili l’avrebbero a breve inabissata se nessuno le avesse gettato una corda a cui aggrapparsi per risalire e fuggire da quel pantano letale.

   Attanagliata nella calma nel cuore del ciclone, questa fu lacerata dal rimbombo del tuono seguito subito dal rumore secco di un fulmine che puntava con decisa violenza a squarciare quel pezzo di tetto che ancora riparava dal cielo aperto.
   Scorreva il tempo d’agosto e a me gelò il sangue.
A pochi passi da me, un orco nerboruto s’era materializzato dall’inferno chiudendo nel suo sguardo torvo la mia figura, che doveva percepire minuscola con gli occhi quasi serrati, sovrastati da sopracciglia aggrottate e contornati da solchi di rughe.

   “Ma chi cavolo sei?”
Eliminai l’orrore voltandomi verso la ragazza colpita dalle mie saette. Era bloccata, completamente accerchiata da sbarre di puro terrore, occhi spalancati, immobilizzati oltre di me, nell’ombra dalla quale intercettai uno spostamento d’aria. Ormai alle mie spalle, l’energumeno vi si era portato falcando minaccioso.
   “Vattene!” mi spinse verso l’ignoto, il buio, come un uragano verso la direzione contraria alla ragazza.
  “Lasciala in pace, è solo una povera scema”. Ingurgitai il boccone della secca sentenza, come anche il tipaccio che magicamente fu interessato ad altro, cosicché dimentico di me, io mi nascosi in un pertugio adiacente alla camera da letto.
Avevo molti più motivi per rimanere, fra cui l’emozione d’esser presenza, ma acuta assenza che attende, paziente nell’ombra profonda.

Al sicuro con la complicità colpevole del buio, m’arrivarono soffusi ancorché vicini, i loro movimenti, quasi fossero aliti a spazzare l’aria, che s’ostinava a disturbare le voci. Impercettibili, sovrapposte, interrotte, sfuggenti trasformava le parole.
   Eppure… catturavo un alterco in una quiete che copriva tormenta.

La distanza affievolì il turbinìo che si allontanava rinfocolandosi e su di me piombò uno squarcio di sereno. Mi colse stanandomi, così sgattaiolai felpatamente dal guscio per occupare quel piccolo mondo vuoto e intriso di profumo. Sopra al letto, solo un vecchio materasso sformato da vite passate.   Il mio corpo se ne appropriò, allungando e stendendo un gomitolo intricato di nervi tesissimi, le palpebre si serrarono d’istinto e di colpo venni soffocata da un aroma intenso, buono.
   Ebbra, riuscii a trasportarmi fino all’uscita.

   Del temporale, non era rimasta che una sottile scia, sciolta in una pioggerella fitta, decisa a non ferire, scarica al punto da accarezzare.
   Le foglie riuscivano ancora a vibrare appena, poi…
  
                            I rami immobili
                            annunciarono la morte del vento.




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