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Il Paradiso degli Orchi
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Stefano Torossi

Ottorino Respighi

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Nel 1926 molla tutto per dedicarsi solo alla composizione e produce i suoi immortali, colorati, suggestivi e popolarissimi poemi sinfonici: “I Pini di Roma”, “Le Fontane di Roma”, e le “Feste Romane”, che diventano da subito monumenti al suo genio (e a Roma, naturalmente, di cui da allora sono la firma sonora).
A questo punto è necessario il classico passo indietro.
Ottorino Respighi nasce in una famiglia di musicisti: padre buon pianista dilettante, nonno organista della cattedrale di Fidenza. Fino a otto anni la musica non gli interessa, poi evidentemente scatta qualcosa e si mette a studiarla sotto la guida del padre, per poi proseguire con il violino da un professore esterno, che abbandona, furibondo, perché lo ha picchiato con un righello sulle dita per un passaggio male eseguito.
Intanto studia anche geografia, lingue (arriverà a parlarne undici!) e scienza. La moglie racconta a tutti di un suo incontro con Einstein a Berlino e della profonda sorpresa dello scienziato per la sua preparazione sull’argomento.
Non diventerà mai un virtuoso di pianoforte, ma sugli altri strumenti va forte. Dicono che sia riuscito a imparare a suonare l’arpa in una settimana. Studia al Liceo Musicale di Bologna, e poi si perfeziona arrivando al diploma accompagnato dalla dichiarazione del suo professore, Martucci: “Respighi non è un allievo, Respighi è un maestro”.
Lo troviamo in seguito prima viola nell’Orchestra Imperiale a Pietroburgo; qui approfitta per studiare orchestrazione con Rimskij Korsakov.
Nel 1908 Etelka Gerster, famosa soprano ungherese, lo chiama a Berlino come pianista accompagnatore nella sua scuola di canto; qui conosce Ferruccio Busoni, studia composizione con Max Bruch e abbandona la viola, di cui ormai era diventato un solista popolarissimo, per dedicarsi solo al pianoforte.
Oltre che autore è acuto studioso della musica antica italiana con pubblicazioni e revisioni di Monteverdi, Vivaldi, Marcello e riscritture o arrangiamenti di canto gregoriano e trascrizioni per orchestra di opere monostrumentali antiche e contemporanee.

Finalmente, nel 1913 vince la cattedra di alta composizione al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, dove si installa e di cui in seguito diventa direttore.
Da questo momento in poi parte per lui una folle vita di tournee, di concerti, di viaggi in giro per il mondo che lo rendono sempre più famoso, anche grazie al sostegno di Toscanini che lo ha convinto a dargli le sue “Fontane di Roma” per una serie di trionfali concerti che lo consacrano fra i massimi musicisti italiani.
E con il trionfo entrano in gestazione anche i futuri guai con i posteri. Popolarissimo, ricco e amato dal pubblico, comincia a essere oggetto degli onori ufficiali, graditissimi allora, ma poi fonte di problemi. In quel momento lui è il compositore italiano più conosciuto e il regime se ne impadronisce per farne una bandiera della cultura fascista. Lo nomina Accademico d’Italia, il massimo per un intellettuale e artista.
 Onorificenza concessa però solo a persone di dichiarata fedeltà al Partito.

Poco alla volta cominciano a emergere i suoi problemi di salute: fra gli altri difficoltà a dormire di notte, accompagnata da sonnolenze improvvise di giorno, anche durante le prove, che fanno pensare ad attacchi di narcolessia.
Alla fine gli si scatena un’endocardite batterica che lo fa fuori, a cinquantasette anni, in quattro mesi. Sua moglie Elsa, con la quale, anche a detta dell’amico Giacomo Puccini, ha vissuto un felicissimo e invidiatissimo rapporto coniugale basato sull’amore reciproco e su quello concorde per il can-to gregoriano, gli sopravvive di parecchio promuovendo, diffondendo, facendo eseguire le sue opere, finché muore anche lei, ma a centodue anni (meno una settimana).
Ancora oggi nell’ambiente serpeggia una certa diffidenza verso Respighi perché, insieme ad al-tri musicisti dell’epoca come Pizzetti e Mascagni, gli si attribuisce un’adesione al regime fascista (come Direttore di Conservatorio e Accademico d’Italia), dimenticando che all’epoca o si accettava l’appartenenza, anche se di facciata, al Partito, oppure si finiva ai giardinetti a leggere il giornale.
Se non peggio.





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