CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Le ossessioni italiche di Mike Patton: 'Mondo cane' il suo disco.
Era da tempo che circolava la notizia di questo progetto, anzi, s'era già sentito in giro. Mike Patton, leader dei Faith No More e di altri gruppi (di cui si fa fatica ormai a tenere il numero), chissà perché innamorato del nostro paese e della nostra musica, aveva fatto alcune serate in giro per l'Italia, accompagnato tra l'altro da Roy Paci, proponendo versioni 'sue' del nostro repertorio nazional-popolare, riscuotendo consenso, apprezzamento, e suscitando ovviamente curiosità e aspettative riguardo un eventuale messa a punto del programma. Programma che, proprio in questi giorni, è diventato un disco: Mondo cane.
Già il titolo è 'capriccioso': si rifà ad un vecchio documentario italiano, che girava nelle sale cinematografiche nel 1962 e diretto da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi , che inaugurò il filone dell'indagine sensazionalistica, destinato soprattutto ad impressionare un pubblico 'assetato' di grottesche porcherie scambiate per esplorazioni etnografiche.
Ovviamente le canzoni che invece propone Patton non sono porcherie, anzi, diciamo che appartengono davvero al nostro bagaglio musicale con qualche (e non poteva essere diversamente) originale bigiotteria di classe da mostrare al momento opportuno al posto della vera gioielleria.
Se Il cielo in una stanza che apre la track list è ovviamente oro colato e che Patton, con la sua preziosa impostazione vocale, rende quasi simile alla versione di Mina, anche nel registro, se Che notte di Buscaglione rivive armoniosa e 'di mondo' mantenenuta su ritmi e scansioni educati rispetto all'originale, se Quello che conta dell'onnipresente Tenco, al di là di una curiosa apertura alla spaghetti-western, è anch'essa riguardosa e vissuta come solo una canzone del disgraziato cantautore potrebbe essere, se anche Senza fine non mostra particolari asperità rispetto al capolavoro della Vanoni (preferiamo indicare lei come interprete ideale del pezzo), ben altro si può dire sul resto dell'operazione.
Intanto Ore d'amore (che il sottoscritto si è scervellato giorni a tentare di ricordare l'interprete primiero e che poi arresosi all'enciclopedismo googliano ha ri-scoperto essere Fred Bongusto) che rispetto al successo degli anni sessanta è più aggressivo e meno giocato sulla soavità vocale, poi L'uomo che sapeva amare, anche qui pezzo più convincente ed 'aggressivo' nella sua potenzialità sentimentale rispetto alla suadente versione di Nico Fidenco, poi ancora Ti offro da bere, che fu uno dei tanti successi di Gianni Morandi (forse non il più conosciuto e ricordato) che Patton rivitalizza un po' (ma ci si chiede come gli sia venuto in mente di riproporlo). Ma questi citati sono mignon sfiziosi che l'artista americano ha sfoggiato come appunto prelibatezze da fine pasto: ma ha osato di più, crediamo nel tentativo di fare vera e propria ricerca musical-filologica. Come nel sesto pezzo della track list dove s'ingegna a riproporre un semi-sconosciuto Urlo negro (brano dei The Blackmen, formazione tutta italiana che nel 1967 sfornò appunto il brano dedicato ai 'negri' che erano stufi di essere schiavizzati dai bianchi) che diventa una sorta di grido proto punk (altro che lo Scream di Siouxie and the banshees... si celia ovviamente) nell'accorata e incazzosa sua versione.
Non contento di ciò Patton 'impila' un'improvvida Scalinatella dell'immortale repertorio napoletano che francamente fa arricciare la pelle (passi la pronuncia 'sixties' che ricorda molto Mal dei Primitives e Shel Shapiro, ma il napoletano proprio no!), ma che comunque non sposta di una virgola il nostro giudizio sull'intero disco. Disco che lo vediamo a fianco del primo Songbook di Morgan anche se con motivazioni diverse. Mentre quest'ultimo bada molto ai contenuti (la riscoperta di un italiano cantato che non ha nulla da invidiare alla migliore letteratura), Patton bada alla forma, spesso alla sfizio musicale, alle noisettes da sgranocchiare.
In ogni caso ci fa piacere sapere che un'artista americano abbia colto l'ingegno nel nostro repertorio canzonettistico e che spesso il tentativo 'contemporaneo' di rendercelo solo oggetto di revival per balere e per vecchie incartapecorite agonizzanti non porti proprio a nulla. C'è sempre qualcuno pronto a puntarci sopra e a raccontarcelo nel modo giusto (personalmente sono sempre più convinto che Io che non vivo di Pino Donaggio sia la canzone del secolo scorso!).
Mike Patton
Mondo cane
Ipecac Recordings - 2010
Già il titolo è 'capriccioso': si rifà ad un vecchio documentario italiano, che girava nelle sale cinematografiche nel 1962 e diretto da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi , che inaugurò il filone dell'indagine sensazionalistica, destinato soprattutto ad impressionare un pubblico 'assetato' di grottesche porcherie scambiate per esplorazioni etnografiche.
Ovviamente le canzoni che invece propone Patton non sono porcherie, anzi, diciamo che appartengono davvero al nostro bagaglio musicale con qualche (e non poteva essere diversamente) originale bigiotteria di classe da mostrare al momento opportuno al posto della vera gioielleria.
Se Il cielo in una stanza che apre la track list è ovviamente oro colato e che Patton, con la sua preziosa impostazione vocale, rende quasi simile alla versione di Mina, anche nel registro, se Che notte di Buscaglione rivive armoniosa e 'di mondo' mantenenuta su ritmi e scansioni educati rispetto all'originale, se Quello che conta dell'onnipresente Tenco, al di là di una curiosa apertura alla spaghetti-western, è anch'essa riguardosa e vissuta come solo una canzone del disgraziato cantautore potrebbe essere, se anche Senza fine non mostra particolari asperità rispetto al capolavoro della Vanoni (preferiamo indicare lei come interprete ideale del pezzo), ben altro si può dire sul resto dell'operazione.
Intanto Ore d'amore (che il sottoscritto si è scervellato giorni a tentare di ricordare l'interprete primiero e che poi arresosi all'enciclopedismo googliano ha ri-scoperto essere Fred Bongusto) che rispetto al successo degli anni sessanta è più aggressivo e meno giocato sulla soavità vocale, poi L'uomo che sapeva amare, anche qui pezzo più convincente ed 'aggressivo' nella sua potenzialità sentimentale rispetto alla suadente versione di Nico Fidenco, poi ancora Ti offro da bere, che fu uno dei tanti successi di Gianni Morandi (forse non il più conosciuto e ricordato) che Patton rivitalizza un po' (ma ci si chiede come gli sia venuto in mente di riproporlo). Ma questi citati sono mignon sfiziosi che l'artista americano ha sfoggiato come appunto prelibatezze da fine pasto: ma ha osato di più, crediamo nel tentativo di fare vera e propria ricerca musical-filologica. Come nel sesto pezzo della track list dove s'ingegna a riproporre un semi-sconosciuto Urlo negro (brano dei The Blackmen, formazione tutta italiana che nel 1967 sfornò appunto il brano dedicato ai 'negri' che erano stufi di essere schiavizzati dai bianchi) che diventa una sorta di grido proto punk (altro che lo Scream di Siouxie and the banshees... si celia ovviamente) nell'accorata e incazzosa sua versione.
Non contento di ciò Patton 'impila' un'improvvida Scalinatella dell'immortale repertorio napoletano che francamente fa arricciare la pelle (passi la pronuncia 'sixties' che ricorda molto Mal dei Primitives e Shel Shapiro, ma il napoletano proprio no!), ma che comunque non sposta di una virgola il nostro giudizio sull'intero disco. Disco che lo vediamo a fianco del primo Songbook di Morgan anche se con motivazioni diverse. Mentre quest'ultimo bada molto ai contenuti (la riscoperta di un italiano cantato che non ha nulla da invidiare alla migliore letteratura), Patton bada alla forma, spesso alla sfizio musicale, alle noisettes da sgranocchiare.
In ogni caso ci fa piacere sapere che un'artista americano abbia colto l'ingegno nel nostro repertorio canzonettistico e che spesso il tentativo 'contemporaneo' di rendercelo solo oggetto di revival per balere e per vecchie incartapecorite agonizzanti non porti proprio a nulla. C'è sempre qualcuno pronto a puntarci sopra e a raccontarcelo nel modo giusto (personalmente sono sempre più convinto che Io che non vivo di Pino Donaggio sia la canzone del secolo scorso!).
Mike Patton
Mondo cane
Ipecac Recordings - 2010
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