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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Giuseppe Di Berardi

Cammino lungo il marciapiede

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Cammino lungo il marciapiede. Guardando per terra noto casualmente una carta da gioco: l'asso di cuori. La osservo un attimo, valutandola. C'è il disegno di due fenicotteri rosa con i colli intrecciati a formare la sagoma di un cuore. Riprendo a camminare lungo il marciapiede; di fianco a me, sulla mia sinistra, c'è una lunga fila di auto parcheggiate. Sento i lamenti di una donna.

Appoggiata a una Punto Abarth, c'è una coppia. L'uomo, piuttosto giovane, rovescia la donna sul cofano e ora le sta sopra e cerca di baciarla sul collo, mentre lei continua a ruotare la testa da una parte all'altra come se tentasse quasi di staccarsela dal resto del corpo.

«Tutto a posto?» esclamo.

L'uomo, sollevando la testa, mi guarda torvo. «Perché non ti fai i cazzi tuoi?» dice, minaccioso. Poi mi viene incontro e quando mi è vicino mi assesta un calcio poderoso sui genitali. Cado a terra come un sacco di patate. Mi contorco sofferente.

L'uomo torna dalla sua donna. Intanto un bambino lentigginoso di passaggio mi dà uno, due, tre colpi sulla testa con un lecca-lecca, poi mi guarda mi fa la linguaccia e fugge via.

A questo punto chiudo gli occhi. E poi faccio quello che so fare meglio, per cui mi sono allenato fin da piccolo. Inizio a piangere.

Dopo circa cinque minuti, smetto di piangere. Mi rialzo da per terra e chiamo un taxi con un fischio, mi infilo dentro e pronuncio soltanto quattro parole: «Piazza Castello, per favore». In un pessimo italiano il tassista mi racconta qualcosa riguardo un politico ucciso oggi da uno squilibrato, ma non gli presto molta attenzione.

Dopo qualche minuto, davanti ad una delle più frequentate piazze di Torino, il tassista accosta. Mi alleggerisco le tasche di un pugno di monete e lo saluto.

Prendo a camminare lungo piazza Castello. Mi faccio largo tra la folla, rimediando insulti e dispensando scuse. Mi passa a fianco un prete con la passione alcolica, e con attaccata alle labbra una fiaschetta che poco prima gli pendeva sul fianco. Rivolgo un cenno di saluto a un sosia di Rino Gaetano. Oltrepasso un gruppo di turisti stretti a grappolo attorno alla guida, poi entro in un museo e, dopo aver pagato, tra gli altri osservo un quadro che rappresenta un cavaliere dalla lucente armatura intento a liberare una dama legata a un albero potato a regola d'arte. Esco dal museo e raggiungo un piccolo gruppo di piccioni che tubano e li faccio volare via. Mi allontano da piazza Castello e prendo a passeggiare lungo via Roma. Una donna con il cranio pelato ed escoriato tipico dei pazienti di chemioterapia mi sbarra la strada. Appena incrocio il suo sguardo, noto che le sue orbite sono perfettamente vuote. Le faccio notare la cosa e, scansandola, proseguo per la mia strada sorridente. Oltrepasso una lavanderia a gettoni, un negozio di liquori, un monte dei pegni chiuso da un'inferriata, infine mi fermo a guardare una squadra di operai sistemare un gigantesco cartellone pubblicitario contro il lato di un edificio. Riprendo a camminare. Un suonatore ambulante è così stonato che i passanti hanno la responsabilità morale di rubargli i soldi e spaccargli il violino in testa. Penso questo mentre oltrepasso un bambino con una tracolla di cuoio a sostenere il peso di una chitarra grande quanto lui. Scanso un ragazzo alto più o meno il doppio di me, poi entro in un negozio e fingo di ammirare un acquario brulicante di pesci rossi.

– Come diavolo si possono considerare, i pesci rossi, animali da compagnia? – penso questo mentre esco dal negozio. Riprendo a camminare lungo il marciapiede. Un uomo molto basso si solleva da un inchino e mi guarda torvo. Poi mi dice: «Dio ti punirà. Segui i dieci comandamenti o dio ti punirà. Dammi una monetina o dio ti punirà». Lo evito allungando il passo, poi, mentre a qualche metro da me sfreccia un bimbo con il monopattino, cerco di attraversare la strada. L'omino del semaforo è rosso, e mi arriva una maledizione da un automobilista, ma riesco ad approdare lo stesso sulla sponda opposta senza rimbalzare sul cofano di nessuno. Ero a un niente dall'essere salma.

Invece adesso cammino lungo il marciapiede e supero una palazzina con un ingresso sontuoso con tanto di guardaportone. Il guardaportone è in uniforme rossa con galloni dorati, ha in testa un berretto nero con la visiera sulle ventitrè, e ha un viso leggermente cereo.

Prendo un bel respiro profondo mentre passo davanti a una cioccolateria artigianale. Vengo assalito dal profumo dei dolciumi.

Oh, che beatitudine. Mi fionderei a comprare qualche biscotto al cioccolato se non fosse per un piccione che, arrivando dal cielo, si dirige velocissimo verso di me, mi raggiunge e mi colpisce in testa con il becco – talmente forte da farmi uscire il sangue.

Niente di grave, per fortuna. Da alcuni bidoni colmi di lische di pesce e torsi di cavolo e altri rifiuti maleodoranti, sbuca fuori un gatto bianco, dal pelo lungo e la coda folta, e a seguire ne sbucano parecchi altri di vari colori e dimensioni. Mettono in mostra la dentatura e sembrano avere cattive intenzioni. Mi accerchiano.

Indietreggiando, per non lasciare che mi aggrediscano, finisco sulla bancarella della frutta di un negozio, dalla quale collassano cataste di susine e pesche e fragole, che rotolano sull'asfalto oltre il bordo del marciapiede per venire poi schiacciate da un auto della polizia diretta chissà dove.

Riesco a fuggire, e mentre un cane dall'aria tonta mi passa di fianco, oltrepasso il Cafè Rossellini. Il Cafè Rossellini è stritolato tra un'erboristeria e un ristorante cinese. Il menù del giorno è scritto su di una lavagnetta al di fuori del locale. Mentre cammino lungo la strada, un inserviente mi porge un giornale gratuito, io lo prendo al volo e incomincio a sfogliarlo. Continuo a passeggiare. «Ouch!» esclamo, dopo aver inavvertitamente urtato un uomo obeso e ansimante che fa la pantomima di quel che viene chiamato jogging.

Butto il giornale in un cestino. Intanto osservo un essere umano impegnato in un litigio con un compagno immaginario. Distolgo lo sguardo e, dopo aver contemplato per qualche istante il rottame di una lavatrice, sbuco in un piccolo piazzale a ferro di cavallo.

Un uomo, con il cranio coperto di verruche, e con un cigno morto in una busta, mi sbarra la strada. La testa e il collo del cigno penzolano fuori dalla busta, gli occhi del cigno sono spalancati. Per un momento, l'uomo, guardandomi, abbozza un sorriso come se mi conoscesse, ma improvvisamente si rende conto di non avere idea di chi sia io, e io mi rendo conto di non avere idea di chi sia quest'uomo. C'è un attimo di esitazione in cui nessuno tra noi due si muove. Poi la scena continua con quest'uomo che si dilegua farfugliando qualcosa, gli occhi vergognosamente puntati sull'asfalto.

Se non vado errato, quella che si sta accostando al marciapiede è una Ferrari con i vetri fumè. La portiera si apre ed ecco che scende una ragazza che sarebbe da Guinness dei Primati per la sua bellezza. Indossa un maglione largo che lascia intravedere le punte dei suoi seni, e una gonnellina scozzese che lascia intravedere le cosce. In un baleno vivo tutta una vita con lei: viaggi, notti di sesso, bagni di mare con spruzzi d'acqua e senza costumi. Con aria trasognante, mi incammino verso un localino scoperto l'altra sera dalle parti del Quadrilatero Romano, dove per poco si può consumare una pizza. Dopo aver camminato per circa cinquecento metri, noto una mendicante. E' giovane, è seduta ai lati della strada, è senza casa, ha quattro figli e ha bisogno di soldi per comprare da mangiare. La fisso assente per un minuto, infine le dico: «Sul suo cartello c'è un errore di ortografia. "Caza" si scrive con la "s" di saponificio. Deve togliere dal cartello quell'orrenda "z" e sostituirla con una bellissima "s". Dovrei avere qui con me la mia stilografica Montblanc. Mi dia il cartello che provvedo io».

Mentre mi passa il cartello le dico gioviale: «Sa, io sono uno scrittore. Odio gli errori di ortografia diffondersi nel mondo». Prendo a correggere lì dove c'è da correggere.

Improvvisamente qualcuno mi tocca una spalla e, quando mi giro, davanti a me c'è Emma, una ragazza con cui negli anni passati avrei voluto fare l'amore ma non c'è mai stato verso. Sfoggia un'abbronzatura impeccabile, e ha un corpo che richiama a sé tutti i gemiti degli esseri umani mentre fanno sesso. Mi scopro agitato e inizio a blaterare, e sono costretto a uscirmene con frasi del tipo:«Sai per caso quanto costano le renne di Babbo Natale? Stavo pensando di comprarmene una... uhm... ehm... per caso hai le tette ustionate da bruciature di sigarette? Perché se è così, potrei benissimo leccartele per alleviare tutti i tuoi dolori. Che ne pensi?». Vedendo che non mi risponde, aggiungo: «Il tuo mutismo cala sul mio stato d'animo e mi rende malinconico. Potresti rispondermi, in qualche modo?». Lei ignora la mia domanda e prende a parlare di solarium, aperitivi, negozi d'abbigliamento, quali sono i posti migliori dove fare jogging a Torino.

Emma indossa una camicetta di seta, una gonna di chiffon, tacchi alti e un paio d'orecchini d'argento. La sua pelle ha il profumo degli aghi di pino.

Infine mi dice che va di fretta e, dopo avermi abbagliato con un luminoso sorriso, mi saluta, e per un attimo il suo corpo si sbilancia in avanti, verso di me, come una che sta per abbracciare qualcuno. Io indietreggio, e lei tonfa per terra rumorosamente, provocando rumore di cianfrusaglie.

Lascio che qualcuno la aiuti a rialzarsi e punto dritto verso la carcassa abbandonata di un tram, dove un cervello industrioso ha messo su una pizzeria. Entro e prendo una pizza al tegamino. Ho già l'acquolina in bocca: mozzarella di bufala, pomodori verdi fritti, banana, uova di quaglia, capesante, triplo peperoncino, nero di seppia, il tutto sopra della pasta per pizza.

I camerieri sono galanti e allegri, e vanno su e giù per la pizzeria con passo spedito, tenendo alti i loro vassoi d'argento. E' bello avere qualcun altro che cucini per me. Poi penso: le tovaglie dei tavolini della pizzeria in cui mi trovo, sono bianche e i tovaglioli, verdi.

Io noto ogni cosa. Sono abituato a osservare tutto, e a restarmene zitto e buono a mangiare da solo.

Finisco di mangiare, e dopo aver pagato, esco dalla pizzeria dirigendomi verso la mia libreria preferita. Lungo la strada adocchio un venditore di noccioline con la merce esposta, gli vado incontro con una domanda che mi ronza in testa, prendo fiato e gli dico: «Le dispiace se le faccio una domanda?».

«Per niente. Ma scommetto che so già la risposta».

«Davvero?».

«Ma certo. Ha visto che sapevo già la risposta?».

«Geniale, veramente geniale. Come mai ha scelto questo lavoro?».

«Mi laureai in Economia e Commercio nel 1996 ma poi, un giorno, rotolai giù per le scale di un edificio ecclesiastico e, sbattendo la testa forte contro un gradino, dimenticai tutto quello che avevo studiato. Così decisi di mettermi a vendere noccioline».

«Che storia commovente. Le piacciono le noccioline?».

«Certo. E poi, le dico la verità, non mi piacerebbe lavorare al chiuso, in un ufficio o in un negozio, mi farebbe venire la nausea».

«E qui in strada non le viene la nausea?».

«No, qui no. La sa una cosa? La gente, quando si ferma da me per comprare le noccioline, è meno nauseabonda, è come se dimenticasse tutti i suoi problemi per un attimo. Una nocciolina ti cambia l'umore, non c'è niente da fare. E' proprio così»».

«Immagino».

«Vuole noccioline, mandorle o lupini?».

«Non ho soldi dietro, ma comunque la ringrazio lo stesso per l'offerta».

«Si figuri».

«Buona giornata».

«Buona giornata».

Gli ho mentito dicendogli – non ho soldi dietro – spero che non se ne accorga, nel corso della sua vita. Penso questo mentre oltrepasso i giochi d'acqua della fontana dell'hotel Majestic, oltrepasso uno skate park, oltrepasso un centro estetico. Compro una mela – che finge di essere Melinda quando non lo è, il bollino è palesemente applicato ad una mela qualunque – e me la mangio lungo la strada che mi sta portando dalla mia libreria preferita. A pochi metri di distanza dalla libreria c'è un tavolino dove giocano alle tre carte.

L'imbonitore, una specie di essere mitologico che ha il corpo di un agnello e il volto di una tigre, tenta di abbindolare la gente e sposta le carte velocemente. Davanti al tavolino c'è una piccola folla: una donna, due uomini, un bambino, un chiuaua e la vittima, un ragazzo sui vent'anni, che sta per scommettere un centone.

«Non farlo» urlo al ragazzo. Subito vengo intercettato da uno dei due uomini che mi guarda torvo, dicendomi: «Vedi di smammare».

«Cosa?».

«Smamma».

«Ma cosa sta dicendo? Mi lasci libero di salvare la gente dalle angherie, furfante».

In qualche modo riesco a scansarlo e torno al tavolino, dove urlo di nuovo al ragazzo di non buttare il suo denaro. Questa volta si gira il bambino, intanto il chiuaua incomincia a mordermi l'orlo basso dei pantaloni.

Il bambino dice: «Togliti dai coglioni se non vuoi farti male».

«Dica al suo chiuaua di lasciarmi subito, se non vuole che mi rivolga alle autorità competenti».

«Vuoi vivere, cretino, allora gira i tacchi e smamma». Il bambino parla sottovoce, con un tono che trasmette tensione, e sta giusto facendomi la doccia con la sua saliva.

«Ok» gli dico. «Giro i tacchi e smammo. Come vuole lei. Scappo che c'è un uomo con una pietra legata al collo su un ponte» gli dico. «Corro a salvarlo» gli dico. «Ha, quest'uomo e secondo i medici, ancora poco da vivere» gli dico. «Buona giornata» gli dico.

Faccio qualche passo ed entro in libreria. A pochi metri dalla porta d'ingresso, c'è una signora attempata seduta in una poltroncina con un lavoro d'uncinetto sulle ginocchia. Mi fa cenno di proseguire lungo la libreria. Mi viene incontro un tipo dark, e così, su due piedi, senza pensarci troppo mi dice: «Io ascolto la musica di Marylin Manson, mi vesto esclusivamente di nero, mangio soltanto pesce affumicato e verdura in salamoia, e bevo un litro di tè verde al giorno».

«Grandioso» replico.

Dopo questo breve scambio di battute, il tipo dark mi fa cenno di proseguire lungo la libreria. Per un tratto della stessa, striscio come un bruco su una foglia. Di fianco a me, lungo il percorso sul quale sto strisciando, vedo un paio di scarpe con il tacco, che si muovono alterne – una volta una, una volta l'altra – come se la loro proprietaria fosse evaporata di colpo mentre girovagava tra i reparti. Intanto un imbuto giallo fluttua sospeso nell'aria, un ragazzo strofina alcune mattonelle del pavimento con uno spazzolino da denti, e una jeep verde criptonite parcheggia davanti al reparto dedicato ai libri in classifica.

L'imbuto giallo e la jeep verde criptonite scompaiono all'improvviso. Sbuca, dal reparto dedicato ai libri fantasy, una coppia, che mi viene incontro dirigendosi dalla parte opposta alla mia. L'uomo sembra avere un'ottantina d'anni, la donna una ventina. Mi oltrepassano. Mi giro a osservarli. L'uomo allunga una mano lungo la schiena della donna e gliela infila sotto la minigonna attillata. Lei ridacchia e gli allontana la mano con uno strattone. «Stupidino. Aspetta almeno che arriviamo in hotel» gli dice. «Poi potrai toccare tutto quello che vuoi» gli dice.

Esco dalla libreria dopo aver dato un'occhiata a un romanzo dal titolo "Ed eccoci dunque qua", senza averlo acquistato, perché poco convinto della sua valenza letteraria, e ci sono auto dappertutto, in doppia, in tripla fila, di traverso sopra il marciapiede. Sbarro la strada a un passante dallo sguardo stralunato, e gli chiedo di salire con me sul tettuccio di una Mini Minor, parcheggiata in sosta vietata. Aiutandoci a vicenda riusciamo a salire sul tettuccio e, scambiandoci uno sguardo d'intesa, iniziamo a urlare. Le nostre urla s'intrecciano andandosi a schiantare in un punto ben definito del cielo. Lì.







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