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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Alessandro Cascio

Chiedilo al cielo, Jack

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Io il cielo lo guardavo spesso, lo facevo da quando Dino s'era messo ad urlare dopo che s'era preso una sbronza al Suarez. Dietro di noi tre ragazze cantavano pessime canzoni in rumeno ed io le avevo distaccate di un bel pezzo, così da raggiungere Dino, che barcollava ma faceva finta. S'era scolato sei birre e poi aveva insultato il barista. Allora era uscito fuori, aveva attraversato la strada senza guardare né a destra né a sinistra e aveva aperto le braccia, poi aveva alzato la testa bagnandosi delle gocce di pioggia che venivano giù quasi asciutte fin dal pomeriggio e aveva detto: "Amico mio, se cerchi le risposte, guarda il cielo, guarda il cielo." Io l'avevo fatto, ma alle mie domande quello non aveva risposto, ed io di domande ne avevo tante.

Per prima cosa domandai cosa ci facessi veramente lì a Londra, se ero davvero destinato al successo o sarei morto come uno di quei barboni di cui sentimmo parlare la sera prima, quello trovato alla Croydon avvolto nelle coperte come un pezzente confezionato e pronto per essere gettato in una fossa così com'era. Gli sbirri lo avevano preso uno da un'estremità della trapunta ed uno dall'altra e lo avevano sollevato da terra. Dino diceva che quello non era morto perché era un barbone, ma perché era un uomo e che sarebbe morto comunque, anche se fosse riuscito a laurearsi in medicina, anche se avesse aperto uno studio privato e anche se avesse avuto moglie e figli. Sarebbe morto ugualmente, perché era un uomo. Quindi per lui io non dovevo preoccuparmi di nulla, che le sicurezze della vita non esistono, che siamo noi ad illuderci che dare il nostro cognome ai nostri figli e ai nostri nipoti ci renderà immortali, che avere un tetto sulla testa e uno stipendio sicuro ritarderà la falciata che ci manderà al creatore: "La morte arriva per i barboni come per il Presidente degli Stati Uniti. Reagan è morto, il barbone è morto, anche Madre Teresa è morta e a Mohammed Ali era venuto il Parkintson, anche a Miachael J. Fox. Quindi, se è finita per loro che sono qualcuno, fratello, perché ti preoccupi tu che non sei nessuno?"

In verità anch'io ero ubriaco, ma non riuscivo mai a liberarmi come faceva lui, che sembrava avere in corpo un tale sprezzo della vita che non gli si poteva stare dietro. Io mi sforzavo, non sempre ci riuscivo, a volte mi chinavo sul tavolo e mi abbandonavo al sonno, lui invece sembrava non avere mai sonno, come se dormire non fosse una ricarica delle energia perse, ma un ulteriore spreco di energia e di tempo. Allora, visto che il cielo non rispondeva, dissi a Dino che forse avevo sbagliato domanda, che forse dovevo chiedere cose differenti. "Già" rispose, "prova" ed io così feci. Chiesi: "Esiste la Luna? Le stelle luccicano? Io sto volando? Le nuvole sembrano bambagia?"

Il cielo rispose in silenzio "Sì, sì, no, sì" alle mi domande e capii che per sapere il perché delle cose, bisogna prima sapere cosa è giusto chiedere. Puoi chiedere ad un albero se ha foglie, sé è autunno, ma non puoi chiedergli quanto dista il Messico dall'Alaska. Puoi chiedere all'aria se dovrai indossare un giaccone o una camicia leggera, ma non puoi chiedergli quanto costa un biglietto per il Brasile, puoi chiedere agli uccelli se sta arrivando l'inverno, ma non puoi chiedere se potrai usare presto il tuo snowboard: quello devi chiederlo alle montagne. Così era per il cielo, potevi chiedere se è giorno o notte ma non se noi nella vita avremmo fatto qualcosa di grande, quello lo devi chiedere al tuo orologio. "E cosa mi risponderebbe il mio orologio?" chiesi. "Che se lo farai troppo scorrere, non diventerai nessuno" disse Dino e poi si accasciò sul muretto.

Dico: "Piove"

"E' pioggerella" risponde, "chiedi al cielo fratello, chiedi: mi bagnerò da inzupparmi i vestiti?"

Il cielo aveva risposto di no, se non avessimo sostato a lungo senza un riparo, saremmo solo tornati un po' umidicci.

Io lavoravo in una libreria che si chiamava "come fare a...". La prima volta c'ero entrato per lo stesso motivo per cui facevo domande al cielo, per lo stesso motivo per cui ci entravano tutti, ovvero: saper come fare a...

Come fare a fare che? Valeva la stessa teoria di Dino così quando la commessa mi porse la domanda, io risposi: "A diventare un artista". "Devi essere più preciso" rispose lei, "che di sicuro io posso darti la risposta". Mi presentai senza metodo, come un cane, dissi: "Jack La Quercia" mi chiamano così e lei restò a guardarmi come se gli avessi detto di chiamarmi Uno Qualunque. "Piacere, io sono Mat". E finì lì. Forse per questo che me ne innamorai, perché non aveva chiesto, come tutti "ma che nome è?", "è un nome d'arte?" e non aveva espresso pareri, ma forse soltanto perché voleva levarsi dalle scatole un altro cliente indeciso. Io però dalle scatole non mi levai, ma dissi che volevo diventare un grande scrittore, uno di quelli che non hanno bisogno di andare in TV per essere conosciuti, un po' come quelli della Beat Generation a cui interessava più vivere che far sapere agli altri della propria esistenza. Così lei mi diede la risposta esatta.

"Allora hai bisogno di un bel libro sulla Beat, di un bel corso di scrittura creativa e di un bel taccuino su l quale appuntare tutti i pensieri che ti saltano in testa mentre cammini per Londra. E una penna, hai bisogno anche di quella".

Poi andò dietro al bancone e disse: "Fanno 30 sterline, la penna te la regalo, è una penna costosa sai, ma te la regalo perché così scriverai di me".

E la sera lo feci, scrissi una cosa che si chiamava "Chiedi a Mat", una cosa da nulla, ma per me era già qualcosa, perché parlava di un pozzo dei desideri, di una fata, di un sacco di droga e di musica, di amicizie, di sesso, che sono alcune delle cose che avrei voluto trovare in un libro. L'indomani m'ero messo in testa che avrei dovuto lavorare, ma non perché avevo bisogno di soldi, m'ero portato abbastanza denaro da poter vivere di me stesso e della grande città per un mese circa ancora, ma forse avevo bisogno di un po' più di sicurezza, forse avevo bisogno di un po' di contatto umano, forse...

Chiesi a Mat, visto che il cielo, alle mie domande aveva risposto che la viene e la gente và. Così smisi di guardare gli aerei e andai al "Come fare a...", entrai cercando di non far suonare tutte quelle campane che erano appese alla porta e che ogni volta che qualcuno varcava la soglia sembrava ti stessero annunciando come si fa con la Regina. E il tappeto era perfino rosso. Io ero diverso da Dino, lui quando veniva a trovarmi era felice di essere annunciato da tutto quello scampanare.

"Mat, cercate qualcuno che lavori qui?"

"Ciao Jack La Quercia, aspirante grande artista. Cerchiamo uno che fa le pulizie".

Sembrava mi stesse prendendo in giro, ma io ero ben contento della risposta, perché sapevo che Bukowski aveva lavorato in un ufficio postale, Kerouac in un fienile, ed io preferivo pulire in terra che parlare con la gente dei loro sogni. Quella era una cosa che Mat sapeva fare bene, lo aveva fatto anche con Dino, che sempre su di giri aveva chiesto imitando il battito d'ali di un uccello: "Mat, come posso fare a volare per i cieli del mondo e guardare tutti dall'alto in basso, libero, con l'aria tra i capelli?"

Quando Mat gli diede in mano "Andare in deltaplano" io risi, perché finalmente avevo trovato una persona che potesse dar testa a Dino. Non che la cercassi, lui andava bene com'era, ma era bello che qualcuno lo mettesse alla prova. Io non ci riuscivo. Mat non era brutta, aveva solo gli occhiali i capelli sempre legati e gli occhiali. Questo per la gente che non guarda a fondo può essere interpretato, più che come bruttezza, come una mancanza di bellezza, ma solo perché lei la bellezza la nascondeva, pensava a lavorare. Ma le cose nascoste alla vista a volte sono più belle di quanto possiamo immaginare, questo mi disse il mare la prima volta che andai a fondo con la mia maschera nelle acque dell'Isola di Santiago. E lei aveva degli occhi verdissimi, un seno grande e delle orecchie con il lobo impercettibile e piccole che ti veniva voglia di strofinarle e farla addormentare così tra le tue braccia. A Dino invece non piaceva, a lui piacevano le Rumene, quelle sempre incazzate ma che appena le vedi ridere in un locale vuol dire che sono aperte ad ogni rapporto.

"Vedi?" diceva Dino indicandomi una ragazza con i capelli neri, un atteggiamento molto posato e con gli occhiali scuri: "Quella non te la darà mai a meno che non le prometti di sposarla. Se ti inviterà a casa sua sarà solo per farsi mettere incinta".

"O visto gli occhiali scuri in piena notte, per ucciderti".

"Bravo, vedo che impari".

Al tavolo del Suarez c'erano tre ragazze bionde che si somigliavano moltissimo e ridevano continuamente agitando le mani come a disegnare all'aria quello che dicevano.

"Quelle lì invece sono le perfette libertine di cui ho bisogno stasera. Ridono per stronzate e..."

"Come fai a saperlo, stanno parlando in rumeno!"

"Sì, ma ridono da un'ora circa. Mentono. Vogliono solo apparire emancipate e pronte. Nella loro fronte è scritto Open, in quella della tipa con gli occhiali è scritto Closed!"

"Sono solo felici!"

Così Dino mi prese per le spalle e mi disse: "Fratello, sai quanta felicità ci vuole per ridere per un'ora di seguito senza una pausa?"

E così giocammo al gioco del "cosa dici cosa?", che era una stronzata ma funzionava sempre. Dino andava al tavolo delle ragazze e diceva una frase qualunque. In quel momento disse: "Avete mai visto un uomo nudo?"

"What?" rispondevano quelle.

"What, what?"

E loro qui ridevano sempre, ma dovevano avere la scritta Open in fronte, perché il gioco non funzionava con le altre.

"Ah, excuse me, dont you speak italian?"

"No, English" e poi il solito: "Di dove siete, cosa fate qui" e il loro: "Italiani? Roma, Pizza, Mafia! Wonderful"

Era tutto sempre uguale. Anche le strade di Londra diventavano sempre più uguali ogni giorno che le attraversavo, ma l'unica cosa che non era mai uguale era Mat. Lei no, lei aveva sempre una novità, eccetto il maglioncino verde che non toglieva mai. La mattina era stata capace di rispondere alla domanda di un vecchio che era entrato con una richiesta un po' anomala, non appena aperto il "Come fare a...".

Aveva aspettato e poi era entrato, ma le campane non avevano suonato o se l'avevano fatto lui era riuscito a non farsi sentire. Io dopo gli avrei chiesto come fare a non farsi sentire entrando dalla porta più rumorosa tra le porte d'entrata, ma prima di tutto fu lui a fare domande. Chiese: "Come posso riavere la mia bambina?"

Abbassai lo sguardo e cominciai a pulire, ma pulii nelle estreme vicinanze, quasi tra i piedi del vecchio che non aveva aggiunto qualcosa come "stavo scherzando" o "avete un libro sulle adozioni?"

Niente di tutto questo, lui aveva fatto una domanda alla commessa del "Come fare a..." e pretendeva una risposta, che l'insegna del negozio era chiara fin da subito. Fu la prima volta che vidi Mat guardarmi o meglio, fu la prima volta che la vidi implorare ai miei occhi di soccorrerla. Ed io lo feci, la guardai e con forza, quella che mi mancava, mi avvicinai al bancone e la affiancai, come se anch'io fossi un commesso. Lei non parlò ed io chiesi: "Cosa è successo alla sua bambina?"

Pensavo che se mi avesse parlato di morte avrei dato un libro sugli angeli, se mi avesse parlato di divorzi, un libro sugli affidamenti o qualcosa avrei trovato: avevo tutto in testa, avevo tutto sotto controllo.

"Non sono stato un buon padre e lei se ne è andata da me, per sempre".

Non toglieva gli occhi di dosso a Mat che non toglieva gli occhi di dosso a me che non toglievo gli occhi di dosso a lui.

"Un libro su come essere un buon padre!"

No, potevo fare di meglio. C'era un libro sul perdono, un libro di così tante pagine che al solo guardarlo capivi quanto era difficile all'uomo perdonare. Ma costava poco e alla fine era ben venduto, quindi un po' di risposte doveva darle o forse... be' , forse erano i clienti ad avere un immenso bisogno di perdonare. Le vendite di quel libro andavano comunque bene.

"Perdonami" dissi e poi cambiai tono: "No, è solo il titolo del libro, lei non mi deve perdonare niente. E' il titolo del libro. Deve solo comprarlo e regalarlo a sua figlia, farglielo avere, a meno che lei non sia lontana".

"Lo è?"

Speravo dicesse di no, perché non avrei saputo cosa inventarmi.

"No" rispose, ed io incartai e chiesi 3 sterline. Lui ne tirò fuori tre come se già sapesse il prezzo ed io gli misi in mano la busta con un "grazie e buona fortuna". Non era poi così difficile, Mat sembrava pietrificata ma non era stato affatto difficile e se c'ero riuscito io, lei che era la maestra del "Come fare a..." avrebbe potuto fare anche di meglio, e invece no, stava legata a me, mi stringeva i fianchi con una mano ed io sarei rimasto lì per sempre. Anche il vecchio a quanto pareva, visto che di andarsene non ne aveva proprio l'intenzione.

S'era imbalsamato, era morto, o forse rivoleva indietro i soldi. Prese il libro dalla busta e lo diede a Mat. Lei lo prese e balbettando lesse la prima frase scritta in corsivo a pagina uno.

Guardando il vecchio disse: "Se non trovi risposte, amico caro, non disperare che nessuno te le ha negate. Guarda bene dentro te, scava l'animo dei tuoi cari e quando avrai bisogno di crescere, tieni i piedi saldi al terreno, se hai paura d'amare... chiedi al cielo, fratello, chiedi al cielo".

Il Padre di Mat non piangeva, ma Mat sì, e tanto. Quando quello se ne andò lei mi abbracciò e poi ci furono ore di discorsi, la portai fuori a parco, chiuse prima e per pranzare si tolse gli occhiali e si sciolse i capelli. Io glie li tirai indietro e riuscii per la prima volta a toccarle le orecchie.

Dino aveva attorno le tre rumene, bagnato si strofinava a loro e cantava un falso rumeno che faceva ridere le ragazze ma non me. Così si scrollò le tipe di dosso e mi disse di smetterla di porre le domande ai marciapiedi, che loro sono i più ottusi per quel genere di cose, neanche i fiori, neanche il Sole può rispondere a quel genere di domande.

"Che domande?" chiesi, "di che parli?

Mi guardò e sorrise: "Se vuoi sapere se Mat ti amerà, non chiedere a me, non chiedere alle strade, non chiedere a nessuno, ma chiedi a lei, Jack La Quercia, è l'unica che può risponderti".

Poi mi disse di andar via da lì, ed io lo feci, chiesi scusa e corsi così veloce verso casa di lei che sembravo dovessi andare a salvarle la vita per qualche disastro imminente. Invece di vita dovevo salvare la mia, la dovevo prendere in mano, perché non si è grandi artisti senza grandi sentimenti ed io avevo capito perché non sarei riuscito a scrivere mai nulla, a dipingere mai nulla, capii perché nessuno rispondeva alla mia domanda, perché non avevo ancora conosciuto la persona che mi avrebbe dato la risposta.

Suonai al campanello e lei uscì dalla porta. C'erano le campane anche in quella, ma andava bene, doveva essere una festa, dovevano squillare le trombe, perché io avevo capito finalmente, qual era la domanda giusta:

"Come posso far sì che tu ti innamori di me, Mat?"

E all'istante smise di piovere.





Alex Cascio



Alessandro Cascio vive tra Londra e Coimbra dal '77, ma studia sceneggiatura con l'Oscar Mario Monicelli e Francesca Marciano a Roma, dove approfondisce le sue conoscenze del cinema e del fumetto alla Scuola Internazionale Comics con David e Wallnofer. Edita per Il Foglio i romanzi Tutti tranne me (2004) e Tre candele (2005) e con KVP Il lustrascarpe di uno dei migliori locali d'America (2006). Fa parte del collettivo Underground Book Village ed edita, nella raccolta di romanzi brevi Le sette vite di Dalila e Achille, il primo romanzo italiano che racconta le isole di Capo Verde: Noi sotto il sole di Santiago (2008). Scrive solo quando fa notte... nella sua mente.

Sito: www.myspace.com/alessandro_cascio E-Mail: alexcascio@inwind.it





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