RACCONTI
Patrizia Rocchi
Ciambelle rosa
Scendo a Green Park, infilo il biglietto rosa che il varco risputa con un sibilo e mi arrampico sulla scala mobile che trovo ancora più ripida e verticale di quanto la ricordassi. In alto si incrociano le travi metalliche, così slanciate e lucide che sembrano alleggerire i pilastri, oltrepassare il soffitto e proiettare le mura fuori, verso il cielo. Come un'opera d'arte, trasmettono sicurezza e una spudorata consapevolezza d' infallibilità.
Due ragazze con micro gonne impalpabili sopra collant neri, pesanti, mi corrono affianco salendo senza fatica, i gradini a due a due. Hanno visi di porcellana rosa che temono il sole, e capelli chiari, sottili, senza sfumature. Le guardo affascinata, attaccata al mancorrente di gomma, a destra, come richiede il cartello, e mi lascio superare mentre penso com' è ridicolo che " questa gente" superi a sinistra solo in metropolitana.
Sento la tua presenza massiccia alle spalle, l'odore di sigaretta appena spenta, e indovino l'ombra affiancata alla mia sul muro che scorre. In pochi attimi si sale e subito una ventata spazza la caverna e avverte che è quasi finita, che fuori c'è ancora l'aria tiepida, e un'altra città che vive col fiato corto e che non può aspettare.
Sono ancora qui, sono ancora qui e non mi sembra possibile di rivedere gli splendidi palazzi delle aristocrazie borghesi, percorsi di geometrie ordinate, strade affollate di taxi neri e lucidi come scarpe da ballo. La ricordavo così, la desideravo così, in questa luce morbida e un po' malata, ma non come me, forse solo attenuata dall'equinozio imminente di fine estate e dalle ombre cupe che a momenti, minacciano pioggia. Per ora no.
Promesse su promesse. Ho aspettato troppo, volevo troppo.
Le sdraio stanno allungate in attesa, quasi tutte vuote. Green Park non è una metafora ma un tappeto di lucido verde uniforme, folto e spazzolato con cura che aspetta ammiratori sedentari, affamati di luce. È ancora presto per gli adolescenti a piedi scalzi e le tate con i carrozzini. È presto anche per me che mi muovo lenta, gustandomi ogni passo sul marciapiede, un occhio alle tele dei pittori di strada, uno a cercare la presenza di qualche scoiattolo sfacciato, aldilà della ringhiera. Manca ancora un'ora all'appuntamento.
Cammino sbilanciata all'indietro, agganciata ai ricordi che ecco, sono tutti qui, impossibile ignorarli. Lo stesso vento insicuro di due anni fa, gli stessi percorsi. Meglio lasciarsi andare e sentire il tuo braccio sulle spalle, la testa che mi sovrasta e ogni tanto si piega su di me, per parlare, per baciarmi, lo sguardo compiaciuto che dice -vedi, pensavi che non saremmo mai venuti insieme a Londra, e adesso siamo qui- e quell'alone di sicurezza che sembrava proteggermi da tutto. Non ho bisogno di essere protetta. Non lo sapevo e mi sono stupita a scoprirlo. Tu lo sapevi.
La sciarpa mi scivola via e la riprendo al volo. È quella turchese che mi hai regalato a Firenze ricordi? Tu, così estraneo ai gesti romantici ti eri accorto che guardavo la vetrina con un interesse particolare, tentata di entrare in quel negozio del centro, tentata dal colore cangiante e dall'idea di sentirmi addosso quel genere di cosa leggera e costosa che non indossavo mai, troppo abituata a vestiti sobri e pratici. Sei entrato spavaldo e l'hai comprata pagando il prezzo assurdo che chiedono ai turisti, mentre io sbirciavo la scena da fuori e seguivo le tue espressioni di stupore. Quando sei uscito con il tuo pacchetto in mano e l'aria trionfale, sono scoppiata a ridere della tua faccia da ragazzino che si aspetta un premio, con un punto interrogativo disegnato tra gli occhi. Eri così buffo! Ci eravamo appena ritrovati e tutto sembrava ancora possibile. No. Adesso al diavolo le amarezze e la voglia di farsi del male, al diavolo il senso di marcio che ti resta addosso dopo, oggi solo ricordi positivi. Ieri sera camminavo per Oxford Street. Ho camminato fino ad avere i piedi gonfi e la testa pesante, ma più camminavo più ritrovavo i flash di quelle giornate. Lungo la strada solo ragazzi, ad ogni passo un pub, un locale con le porte spalancate affollato di giovani che parlano e ridono mescolando colori diversi, razze e accenti, con i bicchieri colmi di birra, appoggiati fuori, coagulati sui muri che ancora portano il tepore del giorno a raccontarsi la voglia di esserci. Un gigantesco orgasmo consumato per le strade luminose, più di notte che di giorno, nei vestiti della festa, che ognuno si inventa come vuole. Dicevi che solo qui è possibile, solo in questo vorticoso ombelico di suoni, di odori e di luci che ti chiamano dai locali, dai ristoranti, dai teatri, ti rapiscono, solo qui è possibile sentirsi parte di qualcosa di magico che sta accadendo ora e che non vuoi perdere. A Covent Garden ho ritrovato Oscar, il colombiano con cui parlavamo di Londra in italiano, che, non ci crederai, mi ha chiesto di te. Sono salita sul suo risciò arancione e mi sono fatta portare a Piccadilly. Non potevo tornare senza salutare il piccolo Eros, senza fingere che mi riguardi ancora.
Ho fatto il giro della piazzetta, e poi sono rimasta per un po' a guardare la gente, seduta sui gradini, con un caffè in mano. È fredda la serata a Londra, il letto è piccolo e mi manca il bidet.
Vorrei aggrapparmi a un pretesto per fare tardi, come un bambino, dare la colpa a un imprevisto e saltare l'appuntamento, mandare tutto al diavolo e magari arrivare fino a Harrods, guardare vestiti che non comprerò mai e invidiare le ragazze dalle misure perfette che avanzano senza rumore su scarpe tacco 12, e che nessuno oserebbe mai chiamare commesse.
Invece giro per Down Street e vado incontro al mio destino, verso un favoloso studio di gastroenterologia e un bastardo che per un consulto mi prende 250 euro previa raccomandazione di amici di altri amici. Mi aspetto un posto severo, di eleganza contenuta e una specie di maggiordomo-segretario vestito col tight nero che apre e chiude le porte senza un fiato, perfetto per il ruolo dell'assassino in un romanzo giallo. Quando suono risponde una voce femminile al citofono che mi chiede solo il nome e qualcuno che non si mostra apre la porta con un interruttore. È uno studio al terzo piano, la vista su una strada laterale senza un fiore alle finestre e con poca luce. Nella piccola sala d'attesa alcuni quotidiani di oggi sui divanetti di pelle scura, un tavolino basso con un abatjour e una brocca di acqua con dei bicchieri di vetro. Di vetro, non quelli di plastica usa e getta. Molto British, ti piacerebbe. Nessun suono per alcuni minuti finché non arriva una splendida ragazza in tailleur blu che si siede accanto a me con una posa studiata, si informa deliziosamente sulla mia salute e mi pone alcune sgradevoli domande con un delicato distacco. Colgo una nota comica in questa scenetta che mi sembra di osservare dall'esterno: sì ho bevuto 4 litri di una sostanza immonda e ho passato buona parte della notte nel bagno, ho un colorito verdastro sotto la cipria e paurosi aloni scuri intorno agli occhi; sì sono digiuna, ho portato una cartella copiosa con i miei dati clinici e no, non voglio la sedazione. Voglio fare presto, voglio uscire e sentire i rumori della strada, guardare la gente, comprare le ciambelle con la glassa rosa e sorridere al barista che mi passa il suo pessimo caffè. Voglio poterti dire che non fa niente, che non morirò di dolore perché non sei con me, che devo fare ancora tante cose e che certamente avrò altre occasioni. Aspetto che il grande clinico mi chiami, controlli quanto di più intimo è rimasto in me e poi mi dica con parole chiare quello che infondo già so. Quando riappare la splendida bionda mi fa strada verso un'altra stanza, apre una porta e scompare. C'è una signora dietro una scrivania di noce pesante, con il camice tutto abbottonato sopra un vestito color pistacchio chiuso al collo. In realtà forse non ce lo ha proprio il collo. La testa sembra restare attaccata alle spalle per via del vestito senza alcuno slancio di autonomia. Mi guarda con occhi tondi benevoli, di un azzurro acquoso, apparentemente senza ciglia, e accenna un sorriso con labbra rosa salmone e denti molto bianchi. Non mi sono neppure preoccupata di sapere se fosse un uomo o una donna, e infondo non mi cambia nulla. Mi viene incontro e mi mostra un'altra stanzetta con il lettino e la strumentazione necessaria. Parla pochissimo, ma quando finiamo l'endoscopia mi riconduce alla scrivania e capisco che è arrivato il momento. Sembra sollevata dalle mie reazioni pacate, dall'assenza di proteste e lamenti. La interrompo durante una spiegazione: - I' m a doctor-. Lo dico nel mio inglese timido, dai suoni impuri che pian piano riacquistano certezza. - lo so dottoressa, ma sono qui per chiarirle possibili dubbi.- Così è più facile, tra colleghi non c'è bisogno di affogare nei dettagli, e mentre recupero lucidità capisco, parola dopo parola, che posso sorridere. È fantastica! Improvvisamente mi pare persino bella, le riconosco dei capelli setosi e una pelle levigata nonostante abbia passato la cinquantina. Si sforza di parlarmi in italiano e di essere rassicurante. È più di quanto sperassi. Ci stringiamo la mano e poi esco da un altro lato dell'appartamento, senza passare più dalla sala d'attesa. Persino la bionda è scomparsa. È una bellissima giornata e voglio festeggiare, senza più attese sbagliate, senza false illusioni. Ho tutto il tempo.
Due ragazze con micro gonne impalpabili sopra collant neri, pesanti, mi corrono affianco salendo senza fatica, i gradini a due a due. Hanno visi di porcellana rosa che temono il sole, e capelli chiari, sottili, senza sfumature. Le guardo affascinata, attaccata al mancorrente di gomma, a destra, come richiede il cartello, e mi lascio superare mentre penso com' è ridicolo che " questa gente" superi a sinistra solo in metropolitana.
Sento la tua presenza massiccia alle spalle, l'odore di sigaretta appena spenta, e indovino l'ombra affiancata alla mia sul muro che scorre. In pochi attimi si sale e subito una ventata spazza la caverna e avverte che è quasi finita, che fuori c'è ancora l'aria tiepida, e un'altra città che vive col fiato corto e che non può aspettare.
Sono ancora qui, sono ancora qui e non mi sembra possibile di rivedere gli splendidi palazzi delle aristocrazie borghesi, percorsi di geometrie ordinate, strade affollate di taxi neri e lucidi come scarpe da ballo. La ricordavo così, la desideravo così, in questa luce morbida e un po' malata, ma non come me, forse solo attenuata dall'equinozio imminente di fine estate e dalle ombre cupe che a momenti, minacciano pioggia. Per ora no.
Promesse su promesse. Ho aspettato troppo, volevo troppo.
Le sdraio stanno allungate in attesa, quasi tutte vuote. Green Park non è una metafora ma un tappeto di lucido verde uniforme, folto e spazzolato con cura che aspetta ammiratori sedentari, affamati di luce. È ancora presto per gli adolescenti a piedi scalzi e le tate con i carrozzini. È presto anche per me che mi muovo lenta, gustandomi ogni passo sul marciapiede, un occhio alle tele dei pittori di strada, uno a cercare la presenza di qualche scoiattolo sfacciato, aldilà della ringhiera. Manca ancora un'ora all'appuntamento.
Cammino sbilanciata all'indietro, agganciata ai ricordi che ecco, sono tutti qui, impossibile ignorarli. Lo stesso vento insicuro di due anni fa, gli stessi percorsi. Meglio lasciarsi andare e sentire il tuo braccio sulle spalle, la testa che mi sovrasta e ogni tanto si piega su di me, per parlare, per baciarmi, lo sguardo compiaciuto che dice -vedi, pensavi che non saremmo mai venuti insieme a Londra, e adesso siamo qui- e quell'alone di sicurezza che sembrava proteggermi da tutto. Non ho bisogno di essere protetta. Non lo sapevo e mi sono stupita a scoprirlo. Tu lo sapevi.
La sciarpa mi scivola via e la riprendo al volo. È quella turchese che mi hai regalato a Firenze ricordi? Tu, così estraneo ai gesti romantici ti eri accorto che guardavo la vetrina con un interesse particolare, tentata di entrare in quel negozio del centro, tentata dal colore cangiante e dall'idea di sentirmi addosso quel genere di cosa leggera e costosa che non indossavo mai, troppo abituata a vestiti sobri e pratici. Sei entrato spavaldo e l'hai comprata pagando il prezzo assurdo che chiedono ai turisti, mentre io sbirciavo la scena da fuori e seguivo le tue espressioni di stupore. Quando sei uscito con il tuo pacchetto in mano e l'aria trionfale, sono scoppiata a ridere della tua faccia da ragazzino che si aspetta un premio, con un punto interrogativo disegnato tra gli occhi. Eri così buffo! Ci eravamo appena ritrovati e tutto sembrava ancora possibile. No. Adesso al diavolo le amarezze e la voglia di farsi del male, al diavolo il senso di marcio che ti resta addosso dopo, oggi solo ricordi positivi. Ieri sera camminavo per Oxford Street. Ho camminato fino ad avere i piedi gonfi e la testa pesante, ma più camminavo più ritrovavo i flash di quelle giornate. Lungo la strada solo ragazzi, ad ogni passo un pub, un locale con le porte spalancate affollato di giovani che parlano e ridono mescolando colori diversi, razze e accenti, con i bicchieri colmi di birra, appoggiati fuori, coagulati sui muri che ancora portano il tepore del giorno a raccontarsi la voglia di esserci. Un gigantesco orgasmo consumato per le strade luminose, più di notte che di giorno, nei vestiti della festa, che ognuno si inventa come vuole. Dicevi che solo qui è possibile, solo in questo vorticoso ombelico di suoni, di odori e di luci che ti chiamano dai locali, dai ristoranti, dai teatri, ti rapiscono, solo qui è possibile sentirsi parte di qualcosa di magico che sta accadendo ora e che non vuoi perdere. A Covent Garden ho ritrovato Oscar, il colombiano con cui parlavamo di Londra in italiano, che, non ci crederai, mi ha chiesto di te. Sono salita sul suo risciò arancione e mi sono fatta portare a Piccadilly. Non potevo tornare senza salutare il piccolo Eros, senza fingere che mi riguardi ancora.
Ho fatto il giro della piazzetta, e poi sono rimasta per un po' a guardare la gente, seduta sui gradini, con un caffè in mano. È fredda la serata a Londra, il letto è piccolo e mi manca il bidet.
Vorrei aggrapparmi a un pretesto per fare tardi, come un bambino, dare la colpa a un imprevisto e saltare l'appuntamento, mandare tutto al diavolo e magari arrivare fino a Harrods, guardare vestiti che non comprerò mai e invidiare le ragazze dalle misure perfette che avanzano senza rumore su scarpe tacco 12, e che nessuno oserebbe mai chiamare commesse.
Invece giro per Down Street e vado incontro al mio destino, verso un favoloso studio di gastroenterologia e un bastardo che per un consulto mi prende 250 euro previa raccomandazione di amici di altri amici. Mi aspetto un posto severo, di eleganza contenuta e una specie di maggiordomo-segretario vestito col tight nero che apre e chiude le porte senza un fiato, perfetto per il ruolo dell'assassino in un romanzo giallo. Quando suono risponde una voce femminile al citofono che mi chiede solo il nome e qualcuno che non si mostra apre la porta con un interruttore. È uno studio al terzo piano, la vista su una strada laterale senza un fiore alle finestre e con poca luce. Nella piccola sala d'attesa alcuni quotidiani di oggi sui divanetti di pelle scura, un tavolino basso con un abatjour e una brocca di acqua con dei bicchieri di vetro. Di vetro, non quelli di plastica usa e getta. Molto British, ti piacerebbe. Nessun suono per alcuni minuti finché non arriva una splendida ragazza in tailleur blu che si siede accanto a me con una posa studiata, si informa deliziosamente sulla mia salute e mi pone alcune sgradevoli domande con un delicato distacco. Colgo una nota comica in questa scenetta che mi sembra di osservare dall'esterno: sì ho bevuto 4 litri di una sostanza immonda e ho passato buona parte della notte nel bagno, ho un colorito verdastro sotto la cipria e paurosi aloni scuri intorno agli occhi; sì sono digiuna, ho portato una cartella copiosa con i miei dati clinici e no, non voglio la sedazione. Voglio fare presto, voglio uscire e sentire i rumori della strada, guardare la gente, comprare le ciambelle con la glassa rosa e sorridere al barista che mi passa il suo pessimo caffè. Voglio poterti dire che non fa niente, che non morirò di dolore perché non sei con me, che devo fare ancora tante cose e che certamente avrò altre occasioni. Aspetto che il grande clinico mi chiami, controlli quanto di più intimo è rimasto in me e poi mi dica con parole chiare quello che infondo già so. Quando riappare la splendida bionda mi fa strada verso un'altra stanza, apre una porta e scompare. C'è una signora dietro una scrivania di noce pesante, con il camice tutto abbottonato sopra un vestito color pistacchio chiuso al collo. In realtà forse non ce lo ha proprio il collo. La testa sembra restare attaccata alle spalle per via del vestito senza alcuno slancio di autonomia. Mi guarda con occhi tondi benevoli, di un azzurro acquoso, apparentemente senza ciglia, e accenna un sorriso con labbra rosa salmone e denti molto bianchi. Non mi sono neppure preoccupata di sapere se fosse un uomo o una donna, e infondo non mi cambia nulla. Mi viene incontro e mi mostra un'altra stanzetta con il lettino e la strumentazione necessaria. Parla pochissimo, ma quando finiamo l'endoscopia mi riconduce alla scrivania e capisco che è arrivato il momento. Sembra sollevata dalle mie reazioni pacate, dall'assenza di proteste e lamenti. La interrompo durante una spiegazione: - I' m a doctor-. Lo dico nel mio inglese timido, dai suoni impuri che pian piano riacquistano certezza. - lo so dottoressa, ma sono qui per chiarirle possibili dubbi.- Così è più facile, tra colleghi non c'è bisogno di affogare nei dettagli, e mentre recupero lucidità capisco, parola dopo parola, che posso sorridere. È fantastica! Improvvisamente mi pare persino bella, le riconosco dei capelli setosi e una pelle levigata nonostante abbia passato la cinquantina. Si sforza di parlarmi in italiano e di essere rassicurante. È più di quanto sperassi. Ci stringiamo la mano e poi esco da un altro lato dell'appartamento, senza passare più dalla sala d'attesa. Persino la bionda è scomparsa. È una bellissima giornata e voglio festeggiare, senza più attese sbagliate, senza false illusioni. Ho tutto il tempo.
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