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INTERVISTE

Daniele Garbuglia

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Mi sembra obbligatorio, prima di parlare di Home, sapere cosa hai fatto in precedenza e soprattutto cosa hai pubblicato.



Un "romanzetto popolare", Fagotto e Sarafucile , uscito presso l'editore Pequod nel 1998.



Finalmente uno scrittore vicino ai quarant'anni che non subisce l'influenza di Tondelli. Almeno noi non abbiamo visto questo nel tuo romanzo.



Non è facile per me rispondere a questa domanda. Nel senso che non ho mai avuto una grande attrazione per l'opera – che pure riconosco importante, ci mancherebbe altro! – di Tondelli. La mia esperienza di appassionato di letteratura parte da scrittori come Antonio Delfini, Silvio D'Arzo, mentre Tondelli li scopre alla fine del suo percorso. Forse se c'è una tangenza è proprio in quella parte finale, meno caduca forse. Ma con questo non voglio esprimere nessun giudizio su un autore come Tondelli: forse ognuno ha il suo "canone", la sua "tradizione", fatta di autori che ama, che vorrebbe avere come numi tutelari e compagni di strada. A me questo, con Tondelli, non è accaduto. Tutto qui. Per natura poi soffro molto nel sentirmi intruppato o arruolato. Preferisco rischiare ma andare per la mia strada, se posso.



Home come casa, come focolare domestico. In realtà il romanzo, al di là della casa-opera architettonica al centro della storia, mostra invece la difficoltà delle persone a costruirsi un "rifugio" attorno.



Non saprei. Nel senso che non ci avevo mai pensato prima. È vero che ogni persona in questa storia ha le sue difficoltà, ma non vorrei aver fatto un altro romanzo sull'incomunicabilità contemporanea. A modo loro mi sembra che comunque i protagonisti delle storie comunichino, cerchino al contrario di aprire le porte del loro rifugio. Anche visivamente, attraverso le pareti-finestre della stanza sopra il blocco di cemento, il mondo entra in modo allucinato, surreale, dentro la casa. "Rompe" il bunker rifugio che comunque c'è è rimane. Quando scrivevo questa storia poi avevo in mente poche cose, ma quelle erano chiare: un luogo quotidiano ma insolito, una coppia che si ama e non riesce a avere figli e sondare fino a che punto questo può creare problemi, un'altra storia che non funziona forse per immaturità. Lo sfiorarsi delle storie, il loro schivarsi o scontrarsi, crea cortocircuiti, complica e rende più sfaccettata qualsiasi definizione.



Il tuo romanzo è stato definito da alcuni, compreso il sottoscritto, uno dei migliori libri italiani del 2006. Sta a te ora indicare qualche tuo collega meritevole di essere citato e soprattutto letto.



Vorrei citare, per dare una risposta fuori tema!, i nomi di tre artisti italiani che, per motivi diversi, meritano secondo me di essere visti e letti: Maurizio Cattelan, Paola Pivi, Eva Marisaldi. Nelle loro opere riescono, in modo spesso fulminante, a coagulare sensi, emozioni, significati sorprendenti e attualissimi.



Ad una prima lettura avevo scorto in "Home" riferimenti al cinema di David Lynch. Riflettendoci bene poi mi sono reso conto che l'impressione era sbagliata. Ma rimane il tuo un romanzo decisamente cinematografico. Se dovessi indicare il nome di un regista che ti ha influenzato, chi faresti?



Credo anch'io che Home sia un romanzo che debba molto al cinema, per esempio sia come tecnica di montaggio che come modo di tagliare le scene. Non c'è però un regista in particolare che mi abbia influenzato, credo. A me piacciono molto quei film che riescono prima di tutto a sorprendermi, a creare dei mondi immaginari, visivi, comunicativi inattesi. Per esempio questo è accaduto con alcuni film di Kieslowski o, più di recente, con i film straordinari dei fratelli Dardenne (trovo il loro Il figlio un capolavoro assoluto!). Più in generale non mi definirei un esperto: rubo qua e là quanto mi serve per scrivere le mie storie.



In un recente saggio, pubblicato da Bompiani, "La letteratura dell'inesperienza" Antonio Scurati, l'autore, propugna un'idea azzardata della narrativa contemporanea, che non sarebbe tale perché priva della tenaglia della drammaturgia e delle esperienze di guerra. Tu che hai scritto una storia lontana da eventi bellici (come d'altronde farebbe il 99,9% degli scrittori contemporanei) cosa gli risponderesti?



Domanda difficilissima! Innanzitutto mi sembra un bel segno che un editore importante dedichi uno spazio alla riflessione teorica di uno scrittore di oggi: più unico che raro. Sulla sostanza del libro di Scurati poi ho delle perplessità. È paradossale come ancora riemerga – nonostante un sostegno teorico di prim'ordine - l'idea che la sostanza di un libro alla fine nasca dal tema che si affronta. Cosa c'è di bellico in un tipo che una mattina si sveglia e si ritrova scarafaggio? O ancora: è così importante la cornice bellica in un racconto come Una questione privata di Fenoglio? O ancora più paradossale: come spieghiamo l'opera di uno scrittore come Robert Walser? Non so... Qui c'è poi l'idea centrale della fine dell'inesperienza che, da scrittore, mi lascia perplesso e, detta da un altro scrittore, mi sorprende. Per dirla con il fotografo Luigi Ghirri, se non crediamo che "nulla di antico sia sotto il sole", com'è pensabile soltanto mettersi a tavolino e scrivere storie? Eppure questo continuiamo a fare, perché è l'esperienza che facciamo del mondo che ci obbliga a proseguire. Di che tipo sia l'esperienza che facciamo, come si traduce in parole, è la sostanza del nostro scrivere.





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