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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Luigi Rocca

Dei nostri giorni

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La sveglia manda un suono fastidioso e intermittente, fino a quando la mia mano non lo interrompe con una leggera pressione sulla plastica. Apro gli occhi. il tempo ormai non si misura più con il movimento di una lancetta su un quadrante o con l'avvicendarsi di numerini luminosi: ora è scandito da suoni lunghi o brevi, accordati su tonalità differenti secondo il compito predisposto, che debbano controllare la cottura di un cibo o il nostro riposo notturno. Capita talvolta che i diversi suoni si sovrappongano o si uniscano in brevi frasi musicali dettate dal caso. Quasi sempre l'orecchio ne rimane disturbato o indifferente, qualche volta però l'effetto è piacevole e si può prendere come segno di buon augurio per il tempo che verrà. Ma non importa.

Appoggio i piedi sul tappeto e sollevo la schiena. Il risveglio è sempre un brutto momento, mi coglie impreparato. Ho come l'impressione che un occhio nascosto abbia spiato il mio sonno ed ora segua anche questo mio ritorno alla realtà, scrutando dentro ai miei pensieri ancora confusi. E' solo questione di un momento: appena apro la porta ed esco nel corridoio sono già ritornato in me stesso. In quel punto per me comincia il mondo, in quel momento ricomincia la mia vita.

La doccia, il caffè ed il rasoio sono piccoli riti propiziatori, scanditi anch'essi da suoni brevi e fastidiosi che ne annunziano l'inizio e la fine e soltanto dopo averli compiuti posso aprire la porta di casa senza paura. Tralasciare anche una sola di queste azioni mi lascerebbe dentro una sensazione di incompletezza. D'altra parte è molto raro che succeda. Chiudo la porta senza far rumore, per non svegliare nessuno. Per strada, come sempre, incontro solo facce imbarazzate, perché anche la tranquillità può creare imbarazzo.

C'è la guerra, dicono. Laggiù la città è distrutta e neanche le macerie possono rimanersene tranquille. Si combatte, si uccide, qualche volta si muore anche, ma sono soprattutto le macerie a sentire il peso delle bombe, quasi che l'accanirsi contro di loro con armi sempre più perfezionate possa garantire la vittoria definitiva. Ma questa è una guerra che combattiamo contro noi stessi ed è giusto che siano i resti della nostra città a farne le spese.

Un signore in tuta mi viene incontro di corsa, quando mi passa accanto fa un sorriso di saluto, poi si allontana, paonazzo e traballante. Certamente anche lui sta aspettando il cicalare dell'orologio da polso che gli permetterà di fermarsi e di spalancare i polmoni a nuovo ossigeno. Salgo in ufficio.

I fattorini parlano tra loro. Qualcuno ride, un altro allarga le braccia. Provo a chiedere notizie della guerra.

"Stanno attaccando gli altri" risponde il più serio. "Una rappresaglia."

Ma anche lui non sa nulla e quello che dice 1'ha sentito alla televisione ieri sera. Mi salutano con serietà prima di ricominciare a ridere fra loro. Hanno un'allegria di casta, non la dividerebbero mai con un funzionario. Abitano tutti giù, nella città vecchia, nelle case risparmiate dai cannoni. Devono rientrare prima del coprifuoco, se non vogliono rischiare la fucilazione; alcuni hanno voluto anche un permesso speciale per fare orario ridotto. La sera rivedono le loro case alla televisione, riconoscono i muri crivellati, nei corpi distesi ricordano qualche conoscente. A volte si telefonano per dirselo, per avvertirsi di accendere subito e di guardare quello che stanno trasmettendo.

Neanche le loro mogli sanno molto di più. Le tessere per gli alimenti sono inutili da tempo, si mangia quello che si trova. La verdura non manca. Mi domando spesso dove si trovino ancora dei campi coltivati, se è vero che i carri armati stanno percorrendo in lungo e in largo tutto il paese, evitando le strade principali per timore degli agguati. Decido sempre di domandarlo a qualche collega, ma poi mi dimentico. Quando sono in ufficio ho altro cui pensare.

La segretaria mi sorride. Ha studiato all'estero e le hanno insegnato che deve sorridere a tutti, se vuol fare carriera. Lei è ambiziosa e sorride anche agli oggetti. Abita proprio al confine fra la città di macerie e la città intatta. Non parla mai della guerra, non guarda mai la televisione. La vergogna più grande della sua vita è un fratello arruolato nell'esercito. E' inutile chiederle sue notizie: quel fratello per lei non è mai nato. Sorride ai telefoni che le trillano davanti e con gesti sicuri solleva il ricevitore giusto. Non sbaglia mai. Per me quei trilli sono tutti uguali, non sento differenza tra il telefono e l'interfono, ma lei sa in ogni momento quale tasto premere o a quale apparecchio rispondere. E sorride.

I colleghi si voltano verso una finestra.

"Sparano" dice uno.

Aspettiamo in silenzio di individuare nuovi colpi, ma sappiamo che difficilmente potremo sentirli perché l'aria condizionata ci dispensa dal tenere i vetri aperti ed è facile che i rumori rimangano fuori. Stasera alla televisione parleranno ancora di rappresaglie e cannonate, magari anche di aerei abbattuti.

"Sono tutte storie" afferma il capo della contabilità. "La guerra è finita da tempo."

Lui legge i giornali del governo. E' l'unico che ancora crede a quello che dicono e ci crede tanto che è pronto a discutere con tutti.

"Voi non vi muovete di qui " dice. "Ma io ci vado giù in città, e vedo quello che succede. E' tutto calmo. La televisione vi prende in giro, fa vedere scene registrate, roba vecchia."

In questo almeno ha ragione: sono mesi che nessuno di noi scende in città a guardare cosa stia succedendo veramente. E' come se la nostra discussione riguardasse posti lontanissimi, impossibili da raggiungere. La segretaria sorride anche a lui, ma senza dargli ragione: per lei la guerra non può essere finita perché non è mai iniziata. Trilla un telefono e lei risponde, questo è tutto. Poi si esce.

I fattorini se ne sono già andati con i loro permessi speciali e noi ci fermiamo nell'atrio, non ancora pronti a riaffrontare la vita nella città intatta, a ritornare individui. Ma non si può rimanere in eterno sulla porta: qualcuno fa il primo passo, ci si muove a gruppi, poi ci si separa e ognuno torna a casa propria.

I palazzi sono sempre intatti, le automobili corrono lisce sulla strada. Un uomo dal volto paonazzo mi sorride. E' lo stesso che stamattina correva in tuta e ora se ne torna all'albergo in giacca e cravatta. Ha un viso tondo e sereno, potrebbe essere un giornalista.

Mi convinco sempre di più che abbia ragione il capo della contabilità o addirittura la segretaria: non stanno combattendo nessuna guerra reale e chi sostiene il contrario è solo per un proprio disagio, un imbarazzo che si porta dentro. Vorrei essere altrove per ragionarne con calma. Mi fermo davanti al portone di casa mia.

Al terzo piano troverò il televisore acceso e un'annunciatrice che assomiglia a mia moglie. Nel frigorifero, come sempre, carne e verdura. Il saluto del portiere mi conferma che non ci sono novità: tutto procede come al solito. Le pareti di ogni pianerottolo mi assicurano che ho gli occhi aperti. Ed è anche giusta la certezza che le rappresaglie di cui stasera sentiremo notizia, sono rappresaglie simboliche e solo chi sta sotto le macerie potrà dire se c'è ancora la guerra. Se mai c'è stata.





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