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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Sevi

Denti

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Suo marito l'aveva lasciata. Senza una cardiaca apprensione per la figlia. Senza un eccetera eccetera di troppo: sarebbe stato almeno un pezzo di vita!

Da tempo gridava solo uh...uh...uh... strozzando il sibilo, un lungo sbuffo sofferente che evaporava amaro come naftalina. E poi sbatteva la porta facendo tintinnare i bicchieri nelle mensole. Angela aveva sempre tentato di fermarlo, perché credeva di più in un incontro a quattrocchi risolutivo. Ma le sembrava di provocarlo ancora di più tirarlo a sé e guardarlo senza parlare equivaleva a spingerlo fuori la porta con violenza.

Così l'aveva lasciato fare. Non gli aveva chiesto dell'altra, del lavoro, dell'alcool. O del fecciume che lui le proponeva quotidianamente.

" E Paolo non ti piace?" Le bisbigliava.

" Perché dovrebbe piacermi?"

" E Sandro?"

" Nemmeno se me lo servissero su un piatto d'oro".

A quel punto lui imbestialiva. Con la fossetta del mento che tremula sudorava una patina oleosa di rabbia. Voleva insomma qualcosa di troppo che lei non gli avrebbe concesso mai.

Angela entrò in cucina asciugandosi la fronte. Aprì il rubinetto ficcandoci sotto prima un braccio poi l'altro.

" Fanatico! Fanatico!" Gridò.

Poi rise. Le era sembrato di sprecar fiato con quell'imprecazione anemica. Nemmeno aprendo il frigorifero la frescura le suggerì altro.

Perché non voleva. Ecco perché.





Sara le corse incontro chiedendole: "Sono bianchi?".

Si riferiva ai denti. A quell'attrazione che amava mostrare.

"Dio mio, e' un bucato!" Disse Angela accarezzandole i capelli. "Dove stai andando?".

"Da Giulia, vuole che le regga il gioco".

"Quale gioco?"

Sara allargò le braccia - "dai mamma, non fare l'ingenua!". Poi si accostò allo specchio: Non si trovò granché. Nemmeno i capelli che le incappucciavano la testa le regalavano la giusta e colorita carineria. Alzò le labbra digrignandole.

"Oh mio Dio!" disse.

"Che c'e'?"

"Hai visto?"

"Cosa?"

"Qui!"

Angela le si avvicinò e le afferrò le spalle. " Allora?"

"Ma non vedi?"

"No". Angela stava mentendo.

"Come no! Questo alone appena sopra la gengiva..."

"Veramente...aspetta prendo gli occhiali. Così ci vedo poco."

Gli occhiali le davano un'aria infermiccia. Ma gli occhi belli li aveva solo per piangere. E infoscati come se il dolore non potesse che essere nero.

"Fammi un po' vedere?"

"Qui!"

"Ma io..."

"Oddio mamma, non prendermi in giro!"

"Sara, ti prego, calmati...io...non..."

"Oh...fanculo!"

Sara schizzò via: aveva un'incatenatura alla gola, un anello di ferro che avrebbe volentieri strappato via insieme ai denti. Si sentiva tradita. Dal destino, dall'odontotecnia, dalla madre. Chiuse con forza la porta dietro sé.

Angela, in mezzo alla stanza, in preda ad un'angoscia che la straziava cominciò a piangere. Ad imprecare contro il Creatore

"Ma che ho fatto!" Singhiozzò tra le lacrime, mentre le mani vibravano come scacciamosche impazzite.

"Ma cosa diavolo avrò mai fatto!"

Tirò su col naso.

"Dio mio..." disse asciugandosi le lacrime.



Sara stava facendo tardi. Angela guardò l'orologio alla parete: mezzanotte e un quarto. Avrebbe voluto accanto suo marito, magari scandendo le sillabe della preoccupazione in un'interminabile palilalia.

Spense il televisore.

Suo marito non l'aveva chiamata più. Nemmeno nel giorno del compleanno di Sara. Che poverina aveva aspettato un segno con riguardosa cortesia. Ma niente altro, perché nel cuore le cresceva l'astio di un'assenza. Che equivaleva ad una schedatura che grondava bile e sangue. Sara parlava di suo padre quando ad Angela veniva il dubbio che non parlarne fosse non solo inevitabile, ma delittuoso. E lì spazientiva. E coi suoi denti bianchissimi marcava l'aria come un tempo si marcava un affronto con un guanto sulla faccia. Non avrebbe mai pianto cercando suo padre, ma per un oltraggio all'igiene orale sì.

Una volta le aveva chiesto:

"Mamma perché lo hai sposato?"

"Eh...gia perché? Ne ero innamorata"

"Innamorata di un uomo che sputa in terra?"

"Ma Sara!"

"L'ho visto sai?"

"Non può averlo fatto!"

"Sì che l'ha fatto! E poi quella saliva così scura...sembrava catrame."

Era fuggita in bagno scuotendola testa.

Angela cominciò a ciondolare miseramente e a riflettere che nessuno al mondo avrebbe potuto distoglierla dal ricordo di suo marito. O meglio, da quell'irritante prepotenza che negli ultimi tempi l'uomo aveva assunto a bandiera, a vessillo crociato di crociata immorale. Troppo facile parlare di resistenza, quando ad ogni parola malfatta e sconcia null'altra difesa le riusciva che un'alzata di spalle. Le si infiammavano gli occhi però e quella vivida e lucente ragionevolezza allo specchio diventava un soffio di speranza. Per sé più che per lui.

Allo stesso modo aveva subito il suo abbandono, così improvviso ed osceno. Prima in un'indifferenza infantile, quasi capricciosa, di chi vuole ostentare una superiorità malgrado tutto, poi in un'attesa finita nella tragedia dei ricordi.

Le rimaneva una prurigine infetta: l'amava ancora.

In quel momento rientrò Sara. Era pallida e tremante: appena sostenuta da una volontà ridotta ad uno straccio emise due singulti ed uno sfiatato balbettìo.

"Va...Vado a letto"

"Ma che ti è successo!"

"Nulla".

"Come nulla...sei pallida come..."

"Nulla"

Angela la raggiunse, col cuore in tumulto. Appena in tempo perché Sara aveva già allungato il passo.

"Dimmi la verità, cos'hai combinato?"

"Meriteresti ben altra risposta..."

"Che vuol dire?". Angela stringeva convulsamente le braccia della figlia.

"Lasciami!"

"Che vuol dire?"

"Quello che ho detto. Lasciami!"

Angela la lasciò. Lei avanzò quel poco da sembrare sufficientemente lontana. Poi si voltò.

"Ho visto un uomo morto"

"Ma che dici?"

"... Un incidente stradale a qualche centinaio di metri da qui. Ho sentito un botto secco...un urlo straziato...e poi un silenzio di tomba. Mi sono voltata e ho visto un uomo disteso sulla strada. Aveva sfondato il parabrezza...era piombato in avanti. Aveva la testa fracassata, il sangue dappertutto e...e..."

"Oh Signore mio...Sara!"

Angela corse in avanti nel tentativo di raccoglierla, come uva nel cesto durante una vendemmia. Sara, ancora ritta, le impedì il contatto.

"Non mi toccare!" Disse.

"Ma..."

"Non puoi capire...ma non mi toccare"

"Avrò anche il diritto..."

"Diritto?". Sara ghignò. Le tremava la testa.

"C'è del giusto nella morte di quell'uomo..."

"Giusto? ...Ma lo conoscevi?"

"Conosco quelli come lui".

Angela non capiva, le sembrava che la percezione della realtà fosse solo un buffo ricordo. Ora le si stava sgrammaticando anche il cuore, che a pezzettini reclamava una sopravvivenza.

"Sara, ti prego...mi rendo conto che quel che hai visto può averti..."

"Cosa ne sai di quello che ho visto!"

"Me lo hai detto tu stessa!"

"Ti ho forse detto che quell'uomo restituendo l'anima a Dio ha mostrato al mondo intero una fila di denti marci? Ti ho forse detto che dalla sua bocca usciva l'inferno?"

"Sara ti prego!"

Angela si trovò a gridare come mai aveva fatto. Disabituata alle alzate di testa, che riteneva un'invenzione dei deboli piuttosto che un gesto arrogante, si lasciò andare a terra, sgonfia come un pallone bucato. Accartocciata da sembrare pelle di rettile.

"Non puoi dire questo..." farfugliò tra i singhiozzi.

"E' la verità mamma"

"Mamma? ...Mi chiami mamma solo quando hai la certezza di vedermi distrutta?".

Sara non le rispose. Fuggì nella sua stanza sbattendo la porta.





Non aveva dormito. Ma gli occhi avevano avuto il buon gusto di negarle il mondo o almeno quel che restava. Nel riaprirli s'accorse che il sole quadrettava il pavimento del soggiorno in un gioco ridicolo di luci ed ombre.

Era rimasta lì in terra come un oggetto rifiutato, annusando l'odore della cera, ma con la testa altrove, ficcata in chissà quale universo.

Un ricordo, più degli altri, la infastidiva: il suo gridare sguaiato, la sua isteria che aveva cozzato contro la stupida fragilità di Sara. Lei e quella irragionevole mania igienica!

Trovò la casa silenziosa, appena disturbata da rumori esterni.

Angela sapeva che non avrebbe resistito a quell'intollerabile inquietudine: provò a chiamare.

"Sara!"

Sapeva che sua figlia non avrebbe risposto. Addormentata chissà dove e chissà come e piena fin dentro le scarpe di un risentimento che avrebbe covato per settimane.

Provò di nuovo, ma maggiore era l'insistenza del richiamo maggiore era la pena di sé stessa.

Prese l'iniziativa di andarle incontro, mendicando una dipendenza che le sarebbe costata molto. Quando aprì la porta della camera il cuore si concesse una pausa.





Quella giornata di luglio era asfissiante: i miasmi afosi della strada tremolavano come venature ubriache.



"Sara" bisbigliò.

Se involontario era quel sussurro, gigantesco era lo sforzo che la bocca sosteneva. Come una crocifissione che rallenti anche l'atto del chiudere le mani.

Pure raddoppiò.

"Sara"

Triplicò.

"Sara"

L'aveva trovata in un lago di sangue coi denti, suoi bianchissimi, appena sfiorati di rosso. Nella mano destra una pallottola di carta inzuppata.

L'aveva accarezzata tutta. Scansandole i capelli dalla fronte devastata.

Poi le aveva strappato il cartoccio nervosa e dispiegandolo aveva gridato.

Come una civetta irritata.

Come una iena all'attacco.

Come un palloncino a gas che scoppia.

Con i capelli che esagitati le si riversavano addosso appiccicosi e sudati.

Si dispogliò il volto, rubandolo alla sua scolare, seppur segnata, carineria. E con le unghie lo graffiò fino a ridurlo ad un campo arato.



Angela si passò una mano sulla fronte accaldata. Era davvero un inferno.

Rientrò in casa per cercare qualcosa. Non aveva più specchi, nemmeno per riconoscersi intatta, lei che non lo era più.

E persa, tra le ultime parole di carta di sua figlia che reclamava suo padre.





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