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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Vera Barilla

Dentro l'inchiostro di quelle parole di bambina. Poche righe (purtroppo) su Caterina Saviane.

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"Qual'è il Suo libro d'elezione?", ci chiedono. E noi: l'edizione in cuneiforme dei più miti tra i miti ittìti, il Beowulf nell' anglo di Mercia senza testo a fronte, la Comoedia del Dante figliol dell'Alleghiero complètta de' centosedici volumi dei Comoenti da Rustico de Filippo al Sermonti, la patristica grecolatina del Migne, la raccolta del New England Journal of Medicine. O equivalenti brand new cadillacs culturali, scelte fra quelli che Lucentini aveva battezzato GLU - Grandi Libri dell'Umanità. Invece agiscono in noi, e potenti, e controversi, dei pìcciol-libri che ci fanno compagnia per la vita. Tra i miei, c'è Invece agiscono in noi, e potenti, e controversi, dei pìcciol-libri che ci fanno compagnia per la vita. Tra i miei, c'è Ore perse - vivere a sedici anni, di Caterina Saviane, edito Feltrinelli (1978). Ch'ebbe diverse edizioni, indi venne dimenticato. Male! Che si ristampi, per diversi buoni motivi: primo, fa da severo antidoto alla Holden-malacìa, ovvero alla creazione d'un adolescente tutto adolescenza senza midollo, che esiste solo nello sguardo e nel ricordo bacato degli adulti (maschi, bianchi, classe media) - tossìne che avvelenano le età brevi e ingrate, forniture "on demand" dell'allucinazione ch'è la realtà borghese, tessuti cancerosi che affliggono le vite "altre".

Secondo: Cate' scrisse bene. Beh, si sente l'acerbo, l'ingenuo ed il rimasticato: e dove no? Ma lei riduce le pécche - eliminarle (per il secondo principio della termodinamica) è impossibile. E rimane appena sotto la perfezione - persino uno come Lorenzo Milani Comparetti forse l'avrebbe gradita.

Non c'è due senza tre: ora conosciamo quel mondo di velleità, d'ipocrisia, di vuote parole espressive di concetti vuoti, avanzo del Montessori e del Mamiani (e lo sguardo impietoso, antipatico e ruvido che lo notomizzò) etichettandoli per "morettiani" - e Gaber irrideva "al bar Casablanca parliamo parliamo di rivoluzione di proletariato". La Saviane, immersa nella ciarla inconcludente, ci reca la sua versione femminil-ista del vanesio cazzimpèrio goscìsta dei coetanei suoi marxisti immaginari, sedicenni medioborghesi fine anni Settanta. E giova il confronto tra il discorso del regista e del "cant-attore", e quello dell'Autrice, per chiarirsi più e meglio il rapporto tra certe parole e certe cose.

Quarto, introdurrei un discorso che, trita immagine, viaggia su due binari: la specificità sessuata d'una scrittura è il primo di questi ferri - ne ho accennato e lo riprendo: nel testo i maschietti non fanno una bella figura. Vantano d'essere per il "free love", ma alle ragazze scherzando dicono "siete le nostre schiave" - e l'Autrice postilla che lo pensano davvero, e ne schernisce l'ottusità: "frilovàtevi le palle col frilàv!". Non per caso il romanzo s'apre sulle pretenzïose nozze d'una diciassettenne. E Cate' non perde l'occasione per una sottile analisi del disagio d'ella, complice prigioniera d'un universo cicisbeo di trombonate marxisanti, maritini stronzi, suocere stuccate di fard e stucchevoli suoceri in retroguardia, e colombe che dovrebbero alzarsi in volo ma che, dopo milioni di milioni di consimili cerimonie del simbolico servizio, più che dal disìo son chiamate a volo dai camerieri a forza di sganassoni - e "mi sa che ci scappa la metafora". (N. Moretti)

E, però: divergendo dal cantore dei Bòmbi autarchici e dal disilluso e dicotomico signor G., la furia della Cate' coerente e seria e invettìva sui bajaderi - modaioli che indossavano le idee di rivolta come fossero state jeans o t-shirt o ciòcie della Romania - manteneva un sottofondo d'intelletto d'amore, d'accoglienza direi (perché non so dirlo meglio), che forse solo una giovane donna forte e smaliziata poteva sentire. E' il controcanto all'agra satira, che sfocia nell'idillio di Nannìa, la contrada di sogno dove vivere fra le nuvole, e nel progetto d'un'esistenza nomade e più umana, che avesse come punti fermi gli amici e Numàna (non New York, per dire).

Con tutto ciò e altro ancora la "lectio brevis" della Saviane assume un'identità sensibile, però non svenevole, energetica ma senza gonfiaggio ormonale, ironica e tuttavia lontana dal viperinìsmo da boudoir, dal sarcasmo iguanesco, che a me pare una grande prova e orma di scrittura al femminile - veramente liberata da ogni complesso d'inferiorità nei confronti del maschio e del suo vivere e del suo scrivere, veramente aliena dall'innesto di coglioni maschi sulla psiche femmina che ogni figlia di madre rende competitiva donna con le palle. E veramente questa personalità viaggiava appoggiandosi al secondo binario della ferrovia immaginaria dapprima designata: chi scrive ricorda - col beneficio d'inventario che merita qualunque prodotto dell'"intermittence du coeur" - un trafiletto su un rotocalco, che identificava la scrittrice come lesbica. Vero? Falso? Non so: e tuttavia mi figuro che tale "quanto d'erotìa", com'un gene organizzatore sul materiale ereditario, inducesse nella sua materia quelle misure assieme di distanza e comprensione, d'amore e rabbia, di rifiuto e appartenenza, che la facevano completa e consistente, se si vuole l'omosessualità non "terzo sesso", ma "terzo occhio": o, meglio, quel particolare linguaggio che consente al traduttore di legare, che so, l'inglese all'italiano, e che risulta dei due senza esserli. Anzi, essendo l'idioletto (lo stile?) del volgarizzatore. Premesse, questo sguardo e il talento, che l'avrebbero destinata a essere scrittrice grande e di gran fama. Ma s'è uccisa.

Rimangono le parole dedicate a lei da chi la rimpiange. E le parole che lei fu: aspre, diverse, gentili, vere - Socrate allievo di Diotima avrebbe detto: erotiche.





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