INTERVISTE
Flavio Mazzini

La prima domanda mi sembra inevitabile: cosa c'è di diverso e cosa invece in comune tra il tuo libro e "Ragazzi che amano ragazzi" di Paterlini?
Quando da ragazzo lessi il libro di Paterlini mi riconobbi solamente nell'introduzione. Tutte le storie che seguivano, infatti, riguardavano ragazzi con una notevole esperienza sessuale alle spalle. Io avevo la loro età ma non avevo mai fatto sesso con nessuno, mai dato un bacio, mai scambiato una parola con una persona omosessuale (dichiarata). Mi sentivo un alieno e forse lo ero, ma sono convinto non fossi il solo e credo che anche adesso il mondo gay, compreso quello degli adolescenti, sia molto variegato. Nel mio libro questo si riscontra: per quanto non abbia cercato storie "clamorosamente" diverse tra loro, le testimonianze mettono in luce i tanti differenti approcci al mondo gay.
Si ha l'impressione che spesso il coming out sia inteso come rivelazione della propria omosessualità alla famiglia (e il tuo libro da in questo senso un contributo decido). Non sarebbe meglio interpretarlo più "generalmente" come presa di coscienza del proprio essere di fronte alla società con tutte le conseguenze del caso?
Senza dubbio. La famiglia è però il simbolo della società: per quanto citata spesso in modo strumentale e fuorviante, ne costituisce la base, con i suoi pregi e difetti. E' vero che il coming out consiste prima di tutto in una lunga presa di coscienza con se stessi, ma poi si passa obbligatoriamente a dover fare i conti con un mondo - la famiglia su tutti - che ci ha già inquadrati come eterosessuali, senza che noi ne avessimo mai fatto accenno. Sono tutte tappe di un unico percorso. Se ho posto l'accento sulla mamma è perché in Italia ha una rilevanza fuori misura e perché ben rappresenta la questione, a mio giudizio. Ma avrebbe potuto intitolarsi comodamente "Mio Dio, ma allora sono frocio!".
Tutti i racconti del libro sono anonimi. E' una precisa scelta per mantenere la privacy degli autori o cosa?
Ovviamente. Se nel mio primo libro non avevo interesse a fare i nomi dei miei clienti questo vale ancor più per le persone che hanno affidato a me la storia della loro vita. Sta a loro poi decidere di far circolare il libro - una sorta di metacoming out - oppure custodirlo gelosamente.
Quando si parla di omosessualità spesso il riferimento è alle nuove generazioni (nel tuo libro molte rivelazioni di venti/venticinquenni, poche dei quasi quarantenni, nessuna delle "categorie superiori"). Non ti sembra una forma "snobistica" nell'affrontare il problema? Davvero le "vecchie" generazioni sono molto diverse dalle nuove?
Devo correggerti, perché le storie del libro riguardano una fascia tra i 25 e i 40 anni. Se possono sembrare storie di ventenni è perché a quell'età si vivono i grandi travagli, le scoperte e, generalmente, si decide se fare o meno il coming out in famiglia. Ho deciso di non andare oltre non perché non mi interessino le storie delle generazioni che mi hanno preceduto, anzi: il mio stesso pseudonimo fa riferimento all'eccezionale Flavio Merkel e a tutto il mondo che è riuscito a trasmettermi, la vita gay degli anni Settanta, un'aneddotica mai vasta quanto avrei voluto. E' però mia opinione che quella generazione, peraltro falcidiata dall'Aids, abbia vissuto una realtà molto diversa da quella odierna, mentre io avevo interesse a stringere il campo di indagine. Per lo stesso motivo non ho intervistato persone sotto i 25, anche perché, nel loro caso, ritengo sia troppo presto per avere una testimonianza "definitiva".
In un passo del libro si dice: "Il coming out è un argomento che non mi riguarda. Non mi pongo il problema di dire che sono omosessuale più di quanto se lo pongano gli altri di dire che sono eterosessuale". E' una presa di posizione molto comune tra i gay. Non è il caso di prenderli per i capelli, scuoterli e dir loro che gli eterosessuali non hanno bisogno di "rivelarsi" perché i diritti, (cioè l'essere soggetti politici) gli sono comunque riconosciuti?
Ti riferisci all'opinione di una persona che, per quanto non si finga eterosessuale (nel libro ho volutamente escluso chi conduce una doppia vita), tuttavia non si è mai dichiarato gay in famiglia e non ha mai stretto la mano a nessuno dicendo "Salve, io sono gay". Al tempo stesso, però, confessa di non aver mai negato di esserlo, di fronte a domande precise. E' una questione complessa. Personalmente credo che fare coming out sia più utile per tutti, per se stessi, per la famiglia, gli amici, la società. Se ho scritto un libro come questo è stato anche per dimostrare come il mondo, conoscendoci meglio, finisca per smettere di aver paura di noi.
Sono però altrettanto convinto che non si debba generalizzare. Ognuno ha un carattere diverso, una famiglia diversa, una realtà diversa dagli altri. Per cui non si può costringere tutti a fare coming out nello stesso modo e negli stessi tempi. Sarebbe una forma di violenza. Per questo non discrimino tutti quegli omosessuali del mondo dello spettacolo, della politica e della Chiesa che hanno deciso di non rivelarsi. Almeno fin tanto che evitano dichiarazioni omofobe o millantate fame di Don Giovanni, li rispetto. Se si dichiarassero sarebbe meglio per l'intera società ma non trovo si debbano giustificare se non lo fanno, come non trovo si debbano giustificare tutti quelli che non possiedono nemmeno una villa in Sardegna. Qualcuno di noi sarà stato anche un pessimo amministratore o non avrà compreso le meraviglie della cementificazione di massa. Ma per altri ci potrebbero essere ragioni più serie. Non so se ho reso l'idea... a volte temo di usare metafore fuorvianti...
Che ne pensi del disegno di legge sui Pacs?
Penso che qualunque cosa si riesca ad ottenere sarà comunque poco, per un vero paese democratico. Poi mi rammento che noi non siamo un paese democratico ma un accozzaglia di truffatori, mafiosi e, nella migliore delle ipotesi, cialtroni - tra i quali non pretendo di escludermi - e allora ribalto completamente il giudizio. Qualunque cosa si riesca ad ottenere penso che sarà comunque tanto.
Quando da ragazzo lessi il libro di Paterlini mi riconobbi solamente nell'introduzione. Tutte le storie che seguivano, infatti, riguardavano ragazzi con una notevole esperienza sessuale alle spalle. Io avevo la loro età ma non avevo mai fatto sesso con nessuno, mai dato un bacio, mai scambiato una parola con una persona omosessuale (dichiarata). Mi sentivo un alieno e forse lo ero, ma sono convinto non fossi il solo e credo che anche adesso il mondo gay, compreso quello degli adolescenti, sia molto variegato. Nel mio libro questo si riscontra: per quanto non abbia cercato storie "clamorosamente" diverse tra loro, le testimonianze mettono in luce i tanti differenti approcci al mondo gay.
Si ha l'impressione che spesso il coming out sia inteso come rivelazione della propria omosessualità alla famiglia (e il tuo libro da in questo senso un contributo decido). Non sarebbe meglio interpretarlo più "generalmente" come presa di coscienza del proprio essere di fronte alla società con tutte le conseguenze del caso?
Senza dubbio. La famiglia è però il simbolo della società: per quanto citata spesso in modo strumentale e fuorviante, ne costituisce la base, con i suoi pregi e difetti. E' vero che il coming out consiste prima di tutto in una lunga presa di coscienza con se stessi, ma poi si passa obbligatoriamente a dover fare i conti con un mondo - la famiglia su tutti - che ci ha già inquadrati come eterosessuali, senza che noi ne avessimo mai fatto accenno. Sono tutte tappe di un unico percorso. Se ho posto l'accento sulla mamma è perché in Italia ha una rilevanza fuori misura e perché ben rappresenta la questione, a mio giudizio. Ma avrebbe potuto intitolarsi comodamente "Mio Dio, ma allora sono frocio!".
Tutti i racconti del libro sono anonimi. E' una precisa scelta per mantenere la privacy degli autori o cosa?
Ovviamente. Se nel mio primo libro non avevo interesse a fare i nomi dei miei clienti questo vale ancor più per le persone che hanno affidato a me la storia della loro vita. Sta a loro poi decidere di far circolare il libro - una sorta di metacoming out - oppure custodirlo gelosamente.
Quando si parla di omosessualità spesso il riferimento è alle nuove generazioni (nel tuo libro molte rivelazioni di venti/venticinquenni, poche dei quasi quarantenni, nessuna delle "categorie superiori"). Non ti sembra una forma "snobistica" nell'affrontare il problema? Davvero le "vecchie" generazioni sono molto diverse dalle nuove?
Devo correggerti, perché le storie del libro riguardano una fascia tra i 25 e i 40 anni. Se possono sembrare storie di ventenni è perché a quell'età si vivono i grandi travagli, le scoperte e, generalmente, si decide se fare o meno il coming out in famiglia. Ho deciso di non andare oltre non perché non mi interessino le storie delle generazioni che mi hanno preceduto, anzi: il mio stesso pseudonimo fa riferimento all'eccezionale Flavio Merkel e a tutto il mondo che è riuscito a trasmettermi, la vita gay degli anni Settanta, un'aneddotica mai vasta quanto avrei voluto. E' però mia opinione che quella generazione, peraltro falcidiata dall'Aids, abbia vissuto una realtà molto diversa da quella odierna, mentre io avevo interesse a stringere il campo di indagine. Per lo stesso motivo non ho intervistato persone sotto i 25, anche perché, nel loro caso, ritengo sia troppo presto per avere una testimonianza "definitiva".
In un passo del libro si dice: "Il coming out è un argomento che non mi riguarda. Non mi pongo il problema di dire che sono omosessuale più di quanto se lo pongano gli altri di dire che sono eterosessuale". E' una presa di posizione molto comune tra i gay. Non è il caso di prenderli per i capelli, scuoterli e dir loro che gli eterosessuali non hanno bisogno di "rivelarsi" perché i diritti, (cioè l'essere soggetti politici) gli sono comunque riconosciuti?
Ti riferisci all'opinione di una persona che, per quanto non si finga eterosessuale (nel libro ho volutamente escluso chi conduce una doppia vita), tuttavia non si è mai dichiarato gay in famiglia e non ha mai stretto la mano a nessuno dicendo "Salve, io sono gay". Al tempo stesso, però, confessa di non aver mai negato di esserlo, di fronte a domande precise. E' una questione complessa. Personalmente credo che fare coming out sia più utile per tutti, per se stessi, per la famiglia, gli amici, la società. Se ho scritto un libro come questo è stato anche per dimostrare come il mondo, conoscendoci meglio, finisca per smettere di aver paura di noi.
Sono però altrettanto convinto che non si debba generalizzare. Ognuno ha un carattere diverso, una famiglia diversa, una realtà diversa dagli altri. Per cui non si può costringere tutti a fare coming out nello stesso modo e negli stessi tempi. Sarebbe una forma di violenza. Per questo non discrimino tutti quegli omosessuali del mondo dello spettacolo, della politica e della Chiesa che hanno deciso di non rivelarsi. Almeno fin tanto che evitano dichiarazioni omofobe o millantate fame di Don Giovanni, li rispetto. Se si dichiarassero sarebbe meglio per l'intera società ma non trovo si debbano giustificare se non lo fanno, come non trovo si debbano giustificare tutti quelli che non possiedono nemmeno una villa in Sardegna. Qualcuno di noi sarà stato anche un pessimo amministratore o non avrà compreso le meraviglie della cementificazione di massa. Ma per altri ci potrebbero essere ragioni più serie. Non so se ho reso l'idea... a volte temo di usare metafore fuorvianti...
Che ne pensi del disegno di legge sui Pacs?
Penso che qualunque cosa si riesca ad ottenere sarà comunque poco, per un vero paese democratico. Poi mi rammento che noi non siamo un paese democratico ma un accozzaglia di truffatori, mafiosi e, nella migliore delle ipotesi, cialtroni - tra i quali non pretendo di escludermi - e allora ribalto completamente il giudizio. Qualunque cosa si riesca ad ottenere penso che sarà comunque tanto.
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