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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Aurelio Delfini

IL ragazzo del circo

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Una bomboniera di cartapesta, grossa poco più di uno sputo di un cammello, è ferma da tre giorni in uno slargo polveroso a pochi chilometri da casa: è il circo di Brema.

Guardando il via vai di gente che nelle prime ore del mattino è esagitato e quasi isterico (nelle prime ore del pomeriggio si placa improvvisamente, come se il luogo fosse un piccolo cimitero di paese) mi vien da pensare che l'origine teutonica dei suoi componenti sia la stessa dei componenti delle torte di mele: estremamente variabile.

E che di tedesco ci sia solo il capo comico che con la sua faccia rosa, già sfiorata dalle prime violenze del sole nostrano, e con i capelli contati col pallottoliere, sbraita in continuazione con accento inflessibile e autoritario.

Non capisco cosa ci sia di godibile in un circo che non sia la visione di qualche corpo d'atleta che guizza (a meno che non venga l'idea a qualche compagnia improvvisata, raccolta in assonnati dopolavori ferroviari, di mostrarsi in panciformi volute poco artistiche e allora lo spettacolo sgomenta) o di una calzamaglia trasparente un po' troppo attillata sul davanti.

A pensarci bene nella rappresentazione a cui assisto il piacere è tutto mio, perché i bambini non ridono coi clowns, sorridono appena, attratti come sono dall'eco rimbombante della bomboniera e da qualche schizzo di colore degli artisti meno scorati.

Gli adulti poi sonnecchiano quando gli animali, o qualche loro imitazione, obbediscono militarmente e se ne rientrano nelle loro gabbie in perfetta fila indiana.

Sono venuto al secondo spettacolo nella speranza di trovare meno gente e di dimenticare le ansie che mi prendono quando sono solo in casa.

A volte mi sorprendo a pensare che la rinuncia a qualsiasi confronto sociale può di per sé non comportare la rivendicazione di un malessere: si può essere stanchi ed annoiati degli altri senza per questo ripudiarli o passare per depressoidi solo perché la vita impone un minimo di relazione umana. Questione di vecchia data che mi torna in mente solo per una naturale inclinazione alle convenzioni e all'ordinario.

Mia madre quando mi guardava (lei che era sempre depressa e aveva gli occhi che piangevano in continuazione senza alcun motivo apparente) lo faceva sempre con un'aria compassionevole ed ansiosa: temeva che fossi l'esatta copia di mio padre.

Ma mio padre costruì i suoi rapporti rinunciando alla sua personale libertà, confondendo il bisogno di emozionarsi con la necessità di costruire una famiglia.

Era bello e triste allo stesso tempo vederlo sorridere per una suggestione (il batticuore era un'inquietudine che gli era sconosciuta) che comunque sapevi avrebbe vissuto sempre a metà.

Io, semmai confondo, non rinuncio mai alle mie urgenze primarie. Ora ho bisogno di mischiarmi alla gente, ma che sia lì, ad un passo da me, non pressata e violenta, come bestia indiavolata.

Il circo è l'apoteosi del meccanicismo, che è un po' come la Storia: ambedue sempre per proprio conto, mai inclini a considerare l'esatta tempera della gente.

Ho sentito parlare di fiuto della Storia, ma se non fosse per le parole di qualche disgraziato parzialmente compreso, saremmo ancora all'età della pietra.

Il circo vive perennemente il suo momento giurassico e nel guardarmi attorno mi accorgo che non c'è nulla che possa fargli da contraltare e che possa spezzare quella coazione a ripetere che prepara gli eventi, la riuscita delle prove e poi l'applauso.

So come consolarmi: gli occhi mi cadono su un ragazzo (sulla cui potenzialità seduttiva mi soffermerò più tardi) una fila più in basso (saremo sessanta persone, sparse in uno spazio ristretto ma più che sufficiente per sembrare chicchi di grano disordinatamente disseminati su un sedile di un'utilitaria). Sta in canottiera dopo essersi tolta la camicia a quadri e averla appoggiata alla sua destra.

Segue con movenze appena accennate, ma che vogliono chiaramente imitare, i passi coreografici e la dinamica degli esercizi di un contorsionista. Quando l'artista piega quasi in due la colonna vertebrale, il ragazzo inarca appena la schiena, ma il movimento è così lento e misurato che alla fine quello che sembrava solo un piegamento senza pretese assume una rilevanza diversa. Una specie di riassunto esatto e conciso dell'exploit del professionista.

Più bizzarro e caricaturale il passaggio successivo, quando il contorsionista allunga una gamba per poi portarla con morbida gestualità sopra il collo, il ragazzo al rallentatore ricopia tutto, ma un po' per la posizione scomoda, un po' per una più che naturale resistenza dell'anca, finisce coll'assumere una postura smezzata. Ora assomiglia ad una segretaria bonazza e formosa che ha accavallato la gamba, accentuando allo spasimo l'angolatura, nella speranza di compiacere un datore di lavoro con l'occhio nemmeno tanto lungo.

Prima che possa accorgersene gli sottraggo la maglia e la nascondo di lato. Mi verrebbe di annusarla e di sentire di cosa sa, ma penso alla reazione della gente nel guardarmi, o alla mia nel caso dovessi accorgermi che l'odore che mi arriva è qualcosa di antico e familiare.

Mi giro attorno per controllare se qualcuno ha seguito la mia rapina: pure se lo spettacolo è noioso e triste il contorsionista, discretamente professionale, riesce a tener desta l'attenzione.

Tranquillizzatomi mi rimetto ad osservare il ragazzo. Avrà venti, ventidue anni, il chiarore delle braccia è compatto e lineare, quasi impressionante: a segnarlo non c'è un neo, nemmeno una punteggiatura.

Pur nella sua acerba costituzione la muscolatura mostra leggeri rilievi nei punti chiave, sul trapezio, sul dorsale, sul bicipite.

Tutto sommato è un bel vedere, anche se la lattea consistenza della carne mi suggerisce tuttavia un rifiuto. Non dipende dalla giovane età, sono lontano dal pensare che gli anni possano costituire un ostacolo per chi già fa tristemente i conti con quelli che gli rimangono. Credo sia una questione di suggestione. L'odore della maglietta in questo caso potrebbe aiutarmi, ma non ho il coraggio di tirarla fuori e di annusarla. Mi sembrerebbe di offrire uno spettacolo patetico quanto quello del circo.

Gli osservo la nuca. In fondo la ricerca del dettaglio prezioso e convincente potrebbe indurmi alla fine a suggestionarlo o, al più, sedurlo. Ma devo fare i conti ancora col rovescio della medaglia (è triste trattare gli uomini come fossero oggetti, ma quando si fa sesso e il sentimento vacilla ci si aggrappa inesorabilmente alla materia, che seppure animata, è pur sempre lontana da una parvenza di spiritualità. La parola è nella carne, diceva un poeta. E io mi ritrovo a raddoppiare il concetto nel momento in cui escludo a priori qualsiasi ossessione mentale). Insomma, avrei bisogno di vederlo in faccia, di completare il quadro, perché se le spalle tornite e la nuca liscia e perfettamente rasata alla fin fine suggestionano, ma mi dividono, il viso darebbe una risposta concreta e, sono sicuro, definitiva.

Mi viene in aiuto, quasi avesse captato nell'aria qualcosa, perché il ragazzo allunga una mano in cerca della maglia e, non trovandola, si gira da una parte all'altra per capire dove possa essere andata a finire.

Con una bella torsione delle spalle e del collo si volta del tutto e finalmente posso guardarlo con attenzione.

E' davvero bellino. Aggettivo da cretinetti (nell'uso, ovvio) che comunque gli si confà perfettamente. Mantiene le promesse del retro, con due occhi azzurri vivacissimi, una bocca segnata da un labbro superiore più carnoso dell'inferiore e una barba di pochi giorni che invece di maturarlo gli conferisce l'aria di eterno ragazzino, immutabile anche ai dolori dell'esistenza.

Così potrei dunque emettere un giudizio finale e conclusivo (mi chiedo perché ormai sono ridotto a fotografare, con perizia quasi professionistica, un corpo invece di goderlo nella spontaneità dei movimenti), al contrario mi ritrovo a pensare che le gambe potrebbero essere corte rispetto al busto. Mi verrebbe di gridare e dirgli di alzarsi e mostrarsi nella sua completezza.

Per fortuna il ragazzo spezza l'odioso ragionamento e fissandomi negli occhi mi chiede:

- Ha visto per caso una maglietta?

- Che maglietta?

- Bianca, con una striscia rossa attorno al collo.

Rispondo di no, ma per un attimo sono preso dal panico perché penso che qualcosa si possa comunque vedere. Aspetto che il ragazzo si giri per sincerarmene.

Non si vede nulla e io tiro un sospiro di sollievo. Non avrei sopportato uno smacco del genere, soprattutto in prospettiva di un futuro aggancio.

Per quanto sia ancora indeciso sulle sue potenzialità seduttive voglio raggirare il ragazzo e portarlo dove dico io.

Decido di uscire dalla bomboniera prima della fine dello spettacolo, che ora mostra una ballerina paillettata e con le cosce da vitellona che volteggia pesante su una trave al centro della pista.

Fuori l'aria è umida: è un maggio come tanti altri, assolato ed estivo. Con buona pace di chi crede che il mondo stia cambiando e le stagioni pure. Gli odori sono sempre quelli, perché a volte non è il tempo che regala le suggestioni, ma solo e soltanto i luoghi. In un giorno di pioggia il posto in cui ora sto, non lontano da dove sono nato, avrebbe le stesse capacità di fascinazione, di resistenza agli anni. Ma solo la frequentazione continua può dare il meglio, non il contatto a singhiozzo, che può essere sì evocativo, ma mai completo.

Mi accorgo di avere ancora in mano la maglia del ragazzo. Ne approfitto per annusarla. Col timore di vedermi intronato da fragranze eccessive e devastanti. Fortunatamente la maglia ha un vago odore di borotalco, appena accennato. Ed è una sensazione piacevole perché lascia quasi intuire che non ci sia altro, che quello che si avverte è solo un rilascio spontaneo della pelle.

L'idea mi eccita: raddoppia in pratica quello che annuso nell'aria e la combinazione mi risulta fatale.

Decido di aspettare il ragazzo. Non ha senso avergli sottratto la maglia solo perché diventi un simulacro di desiderio.

L'oggetto deve per forza accompagnarsi al proprietario, ma non solo perché l'ho finalmente deciso, ma perché l'esatto contrario svaluterebbe il furto, chi lo ha commesso e il tempo, seppur minimo, inteso a progettarlo.

Mi va di pensare che non è solo il ragazzo che voglio con tutta l'anima, ma anche sincerarmi della bontà di quel che faccio e di come spendo le mie ore e le mie giornate. Mi sembra così di prendere due piccioni con una fava: da una parte il senso materiale delle cose (sì ho intenzione di mettere le mani addosso al ragazzo e di vivermi le mie pulsioni elementari) dall'altra il senso spirituale del mio essere pedina del gioco. Non avere cioè da rimproverarmi nulla, almeno nell'arco ristretto di una giornata.

L'attesa non è lunga. Circa venti minuti. La gente defluisce dalla bomboniera confabulando e agitandosi. La visione dei bambini finalmente liberi da qualsiasi vincolo è insostenibile: urlano, si sbracciano e si tirano calci. Un bignami pressoché perfetto delle violenze adulte che hanno il pregio, a volte, di mostrarsi sommesse, meno assordanti, per questo più subdole.

Il ragazzo con la canotta viene spedito verso di me, con un'aria di sufficienza e la bocca leggermente dischiusa.

- Senti, qui comincia a fare fresco, perché non mi restituisci la maglia . Tanto so che sei stato tu.

- Lo sai?

- Certo, chi altri poteva rubarla?

- Ma proprio sicuro di questo?

Provo a temporeggiare, sapendo benissimo che è una perdita di tempo. A pensarci bene il furto è stata una sciocchezza: avrei potuto semmai giocare sull'eventuale rimorchio, non sulla mia responsabilità allo scippo. Per questo gli ero troppo vicino e tutti gli altri lontani; per l'aggancio, ahimè, devo tutt'ora confidare sul suo buon cuore o sulle sue voglie.

Ma a vederlo così da vicino e frontale mi viene il dubbio di una scelta azzardata e frettolosa: non è quel che si dice un campione della proporzione, le gambe sono corte e robuste, danno l'idea che si siano insaccate all'improvviso. E anche il viso, ad un'attenta analisi, non sembra granché: il ragazzo ha le labbra sensuali ed invitanti, ma la pelle è brutta e porosa, e gli occhi, anche se azzurri e vividi, hanno un disegno discendente ai lati, come i cani bastonati.

- Perché insiste? Rivoglio la mia maglia.

- Ma io non ho nessuna intenzione di tenerla.

- E allora perché l'ha fatto?

- Secondo te?

E' un prendere tempo. A questo punto si fa impellente la scelta: sedurlo o no? O meglio... nel caso in cui il ragazzo dovesse accettarmi, è il caso che io concluda oppure lasciarlo andare e fare pure la figura del salame?

Non mi sottraggo nemmeno questa volta ad una valutazione che implica altre cose, prima fra tutte il disappunto tutto mio, sempre crescente, per un'estetica omosessuale che definisco razzista e massificante. Il corpo di per sé non appartiene più a colui che lo vive e poi lo mostra, e nemmeno a chi lo recepisce, ma ad una sovrastruttura che impone le scelte e le sguinzaglia.

L'eterosessuale, che costituisce il modello dominante, proprio perché sicuro del potere abbozza una sua estetica fluttuante, e mai immagazzinata. L'omosessuale, frastornato dai sensi di colpa e da complessi d'inferiorità pretende il riscatto creando un'idea di bellezza apparentemente suggestiva, ma vuota e standardizzata.

I gay, nella suddivisione in categorie, si assomigliano tutti, soprattutto i maschi, e si accoppiano con cloni di se stessi.

Il ragazzo che mi sta di fronte non appartiene a nessuna categoria, non potrebbe comunque, per via di alcune mancanze che ne limitano l'appeal. Ma l'appeal per chi ha omogeneizzato i canoni delle scelte.

Nella mia necessità di distinguermi e non apparire adeguatamente conforme, decido alla fine di farlo mio (col beneficio del dubbio).

- Perché vuoi fare sesso con me – dice scuotendomi dai pensieri e con una sicurezza che addirittura invidio.

- Sesso?

- Vuoi che dica scopare?

- No no, tanto è lo stesso. – Aggiungo sorridendo.

Gli allungo la maglia, ma prima di restituirgliela, nel tentativo di impressionarlo, l'annuso di nuovo assumendo un'aria falsamente estasiata.

- Buono – Dico.

- Ti piace?

Faccio di sì con la testa. Lui indossa di nuovo la maglia e subito dopo si aggiusta i capelli. Gli guardo i pantaloni: sono stretti e a vita media e non rivelano nulla su un'eventuale abbondanza. Lui sembra accorgersene, mi restituisce un mezzo sorriso che non capisco cosa sia.

- Hai la macchina? – Mi chiede improvvisamente.

La domanda mi costringe ad una nuova pausa. Lo guardo come un'epifania laica: non potrebbe essere altrimenti, se lo sentisse il prete del paese o il presidente dell'associazione cattolica degli scout, avrebbe i minuti contati.

- Sì, ma sono a pochi chilometri da casa.

- E hai il coraggio d'invitarmi?

Lo chiama coraggio e non capisco il perché. Semmai il fegato è il suo che accetta le avances di un perfetto estraneo che gli ha addirittura rubato una maglia e che fa pure il finto tonto.

In macchina la sua disinvoltura diventa quasi sfacciataggine: appena si accorge che la strada è poco frequentata, si abbassa su di me e comincia a lavorare.

- Si fa così – dice, come se volesse più che giustificare la fretta dell'approccio, consolidare il suo ruolo di attore principale.

- Ma non puoi aspettare? Manca pochissimo e siamo a casa.

Non capisce nemmeno che la foga mi ha bloccato la libido: si ritrova in bocca un cazzo moscio e sudato. Lui raddoppia l'impegno, mentre smanetta vistosamente lascia andare dei gemiti che assomigliano più allo sfregamento di un pollice su di un piatto lavato con l'aceto che ad un vero e proprio indizio di godimento.

Cerco di spostargli la testa. E' granitico perché mi accorgo che il collo è tirato allo spasimo come se la posizione equivalesse a raggiungere un traguardo.

- Dai, smettila.

- Perché dovrei.

- Non sono eccitato.

- Io i soldi me li guadagno. Cosa credi.

Stavolta gli afferro i capelli e lo costringo ad alzare la testa.

- Hey, che cazzo fai!

- Quali soldi scusa.

Tenta di strapparmi la presa afferrandomi il polso. Io insisto e lo costringo a girare la testa dalla mia parte.

- Ti ho chiesto quali soldi.

- Ma quelli che mi dai per la pompa.

- Ma io non ti pago.

- Come sarebbe a dire.

Gli lascio la testa e gli do una spinta perché si rialzi. Prima di rispondergli a tono cerco di mettere riparo alla mia mortificante posa: il cazzo moscio che esce dalla lampo sembra un vermiciattolo da cartoonistica cecoslovacca degli anni '60. Lo infilo nei pantaloni prendendolo col pollice e l'indice.

- Sarebbe a dire che non ti pago, mi pare chiaro.

Il ragazzo mi guarda accigliato.

- Ma ti sei mai guardato? – mi fa puntandomi con un dito.

- Lo faccio ogni mattina.

- Avrai almeno cinquant'anni.

- Ne ho cinquantatre.

- E pretendi che uno di venti venga a far sesso con uno di cinquantatre senza una contropartita?

Fermo la macchina lungo il ciglio. Il traffico è inesistente e la vicinanza a casa mi dà un coraggio che forse non avrei in un luogo diverso e lontano. Guardo intensamente il ragazzo per pochi secondi, poi gli sferro un pugno direttamente sul naso.

- Questo non è per i cinquantatre anni... decidi tu per cosa.

Lui urla dal dolore. La mano che istintivamente ha portato al naso non impedisce che un rivolo di sangue scivoli su un angolo della bocca e poi finisca sulla maglia bianca.

Non avendo mai picchiato nessuno, rimango un attimo inebetito, ma la scena che ho di fronte ha un che di fascinoso: sono intervenuto laddove la natura in genere è inattaccabile, dove si estrinseca la bellezza più esibita, dove l'occhio degli altri quando guarda, guarda perché ne è attratto.

- Toh – gli dico acido – le macchie rosse fanno pendant con il colletto.

- Vaffanculo stronzo!

- Te l'ho detto, decidi tu cos'è stato il pugno.

- Mi hai rotto il naso!

- Sono affari tuoi. Anzi, vedi di scendere dalla macchina che me la macchi.

Mi allungo dalla sua parte e gli apro lo sportello.

- Dai, esci.

- Vaffanculo bastardo!

- Ti ho detto di uscire.

- Io vado alla polizia.

- Vai dove ti pare, non mi riguarda.

- Ti denuncio.

- Parola tua, parola mia. Esci!

Fa il gesto di scendere, ma con un guizzo improvviso si volta e mi piazza la mano insanguinata direttamente sulla faccia. E fa girare il palmo come se volesse lucidarmi il naso.

- Tieni stronzo... lo sai che sono sieropositivo?

Prima che lui esca del tutto gli sputo addosso un bolo di un colore denso e rosato.









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