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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Matt Bell

Il Raincheck (traduzione dall'americano di Stefania Rega)

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Adesso non saprei più dire cosa ho conosciuto prima, la donna o il Raincheck Lounge. Spesso ho la sensazione che siano entrati nella mia vita contemporaneamente, che si siano concretizzati con straordinario sincronismo qui, in questa città, che allora mi era ancora estranea. C'era anche un uomo, ma è arrivato dopo, troppo tardi perché io capissi chi fosse. Non chi fosse davvero. Non intendo questo. Nessuno può saperlo. Intendo chi fosse rispetto a me, e alla donna, e al Raincheck.

La donna era portoricana o messicana. Non ne ero sicuro, ed ormai erano passate settimane dall'ultima volta che ero stato da lei, e tutto era ancora più confuso per me. L'ultima volta mi aveva buttato fuori perché ero arrivato troppo ubriaco per fare qualsiasi cosa, completamente inutile per lei. Mi arrabbiai di brutto, e decisi che non ci sarei più andato. Ma continuai ad andare al Raincheck, solo per restare nella sua orbita. Non posso dire che sentissi la sua mancanza, ma di sicuro mi mancava qualcosa. Forse mi mancava la dolcezza del suo spagnolo quando giurava di essere venuta, o la delicatezza con cui mi metteva fuori della porta dopo che mi ero vestito. Mi mancava qualcosa, qualcosa che non riuscivo a capire. Quello di cui ero certo era che anche se lei mi faceva sentire abbandonato e fottuto, era diverso da come era successo in tutta la mia vita prima di allora, e questo me lo rendeva più che tollerabile.



Nel Raincheck, fu Frank Talbot a parlarmi per primo della lotta. A quanto pare, tutti sapevano già che sarebbe successo, ma i dettagli erano ancora poco chiari. Ignorai i segnali di avvertimento e ordinai una birra. Frank provò a dirmelo di nuovo.

"Ascolta," gli risposi, "non voglio guai. Non questa sera." Mi infilai una sigaretta in bocca, Frank aprì l'accendino con uno scatto e mi fece accendere.

Mi sorrise. "Nessuno sa nemmeno chi sono quelli che combatteranno."

"E allora come facciamo a sapere che ci sarà una lotta?"

"Qualcuno ha detto qualcosa a qualcun altro che lo ha detto a qualcun altro. E adesso tutti lo sanno."

"Ma non chi o quando? Che idiozia."

"In questo posto capitano cose del genere a volte."

"Questo lo so già. È inutile che continui a dirmelo."

Era agosto, fuori il tempo era caldo e umido, anche di notte. Le mura di cemento sudavano gocce di condensa, brillando di rosso e blu e giallo sotto le luci al neon e le lampade fluorescenti. Un'umidità buia mi circondava e io non riuscivo più afferrare le cose, l'alcool e il bar stavano per prendere il sopravvento su di me. "Sei tu?" gli chiesi. "Sei tu quello che deve battersi?"

"Forse," rispose. "Ci sono delle persone che vorrebbero farmi passare un brutto quarto d'ora."

"Chi?"

"Persone a cui devo dei soldi, per esempio. E anche altre."

"Quanti soldi?"

"Non chiedermelo. Non è questo il problema."

"Puoi dirmelo. Siamo amici, no?"

"Sì... beh, vedremo."

Quello che pensai volesse dire era che, se si fosse presentata l'occasione, mi sarei schierato dalla sua parte in una lotta? Ero sicuro che lui l'avrebbe fatto per me, mi aveva già aiutato una o due volte da quando aveva cominciato a frequentare il Raincheck. Io mi facevo vedere nel locale già da un po'. In quale circostanza mi avesse aiutato, come qualsiasi altra cosa di quel periodo, non mi è chiaro adesso. Non è sbagliato dire che probabilmente non mi era chiaro neanche allora. Frank raccontava sempre storie, alcune vere altre inventate. Qualsiasi versione lui credesse fosse la sua vera vita, io pensavo di averla sentita dall'inizio alla fine, e poi sì, è vero che lui non era una brava persona, lo ammetteva lui stesso. Eppure, con me era stato leale una volta, se questo può fare una qualche differenza.



Frank non era l'unico che si chiedeva ad alta voce se quel combattimento significava che quella notte era il suo turno di difendersi per quello che aveva fatto. Un uomo che entrambi conoscevamo come un codardo ci disse di aver rapinato una donna minacciandola con un coltello, in pieno giorno. Aveva avuto paura di usare la pistola. Un altro aveva tentato di vendere il suo primo carico di roba ma poi si era preso una tale paura che aveva scaraventato tutto nel gabinetto. Si fece dei conti che sembravano numeri di un folle e ci disse a quanto ammontava il suo debito. Tutti pensammo che potesse essere lui, ma c'erano anche altre possibilità, come l'uomo che era andato a letto con la moglie del fratello, e quello che si era battuto con un tizio la settimana prima, in un altro bar, e aveva ancora i lividi a provarlo. Il suo avversario era finito in ospedale ma poteva essere uscito ora. Uno era stato arrestato due anni prima ma era uscito consegnando due suoi amici. Si toccava la croce d'oro appesa al collo e diceva di essere un Giuda. Sentiva un senso di colpa pesante, che non gli dava tregua, e nessuno disse una parola dopo che lui ebbe finito. Quando la porta che dava sul parcheggio si aprì, tutte le teste si voltarono e cadde un silenzio così profondo che si poteva sentire il tremore delle nostre spine dorsali nell'umidità buia del bar. Finalmente, le nocche scricchiolarono e le mani si strinsero in pugni esplorativi. Gli uomini contrassero muscoli che non utilizzavano da anni. Tutti prendemmo a tastarci le mascelle come se sperassimo di trovare invece della carne, il ferro o addirittura l'acciaio. Lo so che una persona ragionevole direbbe che eravamo una massa di criminali, che qualsiasi cosa ci avrebbero fatto sarebbe stata la metà di quello che meritavamo. Ma cosa importava? A quei tempi in giro non c'era niente altro che criminali e non credo che le cose siano cambiate molto da allora.

Era una serata divertente, ridevamo dei nostri stessi crimini. Per quanto riguarda me almeno, era così. Sì, qualcuno stava per essere punito, qualcuno stava per essere ferito, e ferito in modo grave se fosse successo. Ma gli altri l'avrebbero scampata, ancora liberi. Quello che ci spaventava era che sarebbe arrivato il giorno anche per noi. Quello che ci liberava era la possibilità che quel giorno non fosse ancora arrivato.



"E tu cosa ci racconti, Jack? Sei l'unico che non ha detto niente." Frank si alzò in piedi e si appoggiò contro il bar. Mi guardava con una smorfia sulla faccia e il bicchiere affogato nella carne del suo pugno.

Aveva ragione. Avevo fatto delle cose brutte come tutti gli altri, e alcune anche peggiori. Solo che non mi sentivo pronto a parlarne. A quel tempo credevo ancora nell'invisibilità, credevo che le cose che facevo non toccassero nessuno. I miei crimini per me erano crimini senza vittime.

"Io sono innocente," dissi, mostrando i denti, e tutti scoppiarono a ridere. Era passato molto tempo da quando avevo fatto ridere qualcuno in quel modo.

"Tu sei innocente? Davvero? Non hai niente che vorresti confessarci?"

Non risposi, e Frank scosse la testa. "Questa storia mi ha stancato", disse, scolandosi la birra in un sorso. Conficcò i pollici nei passanti della cintura e guardò gli altri uomini presenti, che aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto. Mentre andava verso la porta, Frank mi diede una pacca sulla spalla così forte che andai a sbattere con i denti contro il collo della bottiglia di birra, e per poco non soffocavo. Le lacrime mi accecarono. Ebbi solo il tempo di schiarirmi la gola e vidi che Frank aveva raggiunto la porta e si immergeva nella notte. Ci raccogliemmo tutti intorno alla porta, lo guardammo avvicinarsi alla sua vecchia Cadillac, chiedendoci se fosse lui quello della lotta. Quando accese il motore e uscì dal parcheggio, sentimmo che l'incantesimo era finito. Non sarebbe successo nulla, ormai era certo. Era stato tutto un errore.

Tornammo alle nostre birre. Adesso si parlava poco, eravamo tutti delusi per la lotta mancata e a disagio per le cose che avevamo detto, apparentemente senza motivo. Non restai a lungo. Per una volta mi sentivo felice, e abbastanza ubriaco da pensare che la donna quella notte mi avrebbe fatto entrare, abbastanza sobrio da pensare che poteva esserci un motivo per prendermi il disturbo. Uscii dal bar e superai i sei isolati fino a raggiungere il suo appartamento, fumando e canticchiando una canzoncina che avevo sentito dal juke box durante la serata. Non ricordo quale canzone fosse. Sapendo quello che so adesso, vorrei essere stato più attento. Avevo già avuto molti avvertimenti, e quella canzone forse era l'ultimo.

No, non c'è stata nessuna lotta al Raincheck. Era stata solo una menzogna, uno scherzo che nessuno aveva capito in quel momento. Quando arrivai nell'appartamento della ragazza la porta era già aperta. Lei non c'era, o almeno io non la vidi. Vidi però Frank, seduto sul divano, che beveva una birra. Si alzò quando io entrai e scosse la testa, lentamente e con tristezza. Quando cominciò a colpirmi, mi raggomitolai sul pavimento e cercavo di discolparmi dicendo che non lo sapevo, che glielo avrei detto se lo avessi saputo. Era troppo tardi per la confessioni, troppo tardi per il perdono. Il naso si ruppe e le costole si fratturarono. Mentre sanguinavo, sapevo che non era per quello che avevo fatto con lei, ma per quello che avevo fatto a lui.



Matt Bell



E' un giovanissimo scrittore statunitense, che vive nel Michigan. Ha pubblicato numerosi racconti su molte riviste americane, tra cui Hobart, Barrelhouse, Caketrain e McSweeney's Internet Tendency. È editor per la rivista NewPages e terrà un corso di scrittura creativa presso la Bowling Green University.

Il Raincheck, è stato pubblicato sulla rivista Storyglossia nell'agosto 2006 ed è stato incluso tra i migliori racconti dell'anno (Notable Story of 2006, Million Writer's Award).

Il suo primo romanzo è attualmente in corso d'opera.





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