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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Stefania Rega

Il frutto dell'amore

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Viola guidava con l'autoradio accesa, i tergicristallo pulivano ritmicamente il vetro. Pioveva solo da qualche minuto, una pioggerellina sottile, e l'asfalto cominciava appena a cambiare colore. La strada era un nastro attorcigliato sul costone di una montagna, a destra la roccia, a sinistra il vuoto.

Viola non aveva nessuna fretta. Poteva continuare così, a 50 Km all'ora, fino alla fine. A stento notava che dietro di lei si era formata una coda. Continuava ad ascoltare la musica, a guardare attentamente la strada, seguire dolcemente le curve.

Poi un matto, forse ubriaco, arrivò dalla direzione opposta. Fu un attimo, e lei capì che non aveva più spazio in cui rifugiarsi. La sua auto precipitò nel vuoto, si capovolse infinite volte, e il suo corpo fu sbattuto infinite volte contro le lamiere dell'abitacolo.

Quando finalmente la caduta terminò, Viola era afflosciata sul volante, già coperta di sangue.



Valerio usciva di casa solo per andare al cimitero. Sempre alla stessa ora, sempre lo stesso percorso, sempre fino all'ora di chiusura, e poi a casa.

A lavoro si era preso due settimane di ferie, ma ora erano quasi terminate e lui non aveva nessuna voglia di tornare in ufficio. Lo sanno, pensava, lo sanno tutti cos'era mia moglie per me, cos'era il nostro matrimonio. Avrebbe chiesto almeno un'altra settimana. Cosa sarebbe cambiato in un'altra settimana, non lo immaginava, ma intanto avrebbe potuto continuare a starsene a letto. Nel divano letto anzi, perché nel letto che aveva diviso per 20 anni con sua moglie proprio non riusciva a stendersi. Riusciva solamente a fissarlo, in piedi e con le mani in tasca, quel letto vuoto.

Una mattina sentì che aveva voglia di guidare. Indossò dei vestiti a caso e uscì. Prese la sua macchina dal garage e cominciò a vagare per la città. Non aveva nessuna meta, guidava e basta. Gli edifici, le piazze o i giardini che superava neanche li vedeva. Non vedeva nulla, solo il pezzetto di strada davanti al muso della sua auto. L'asfalto nero, la mezzeria, i semafori... cose che si inseguivano in silenzio. Un film muto ecco, gli sembrava di essere in un film muto.

La città piano piano si diradava e oltre il finestrino adesso sfilavano pezzi di campagna, case coloniche, ruscelletti, e poi la montagna. La strada divenne stretta e piena di curve. A destra la roccia, a sinistra il vuoto. Valerio uscì dal film muto. Ora era nella realtà.

Fermò l'auto sul ciglio della strada. Scese. Era un posto pericoloso in cui fermarsi. Ma Valerio restò immobile a guardare il vuoto e a chiedersi cosa si prova a rotolarci dentro. Non sentiva nulla. La disperazione, l'angoscia, la rabbia, il dolore di quei giorni, tutto era improvvisamente sparito. Ora c'era solo il vuoto.

Valerio rientrò in macchina e ci si tuffò dentro.



Oggi è il suo compleanno. Diciotto anni. Guarda nel frigo e pensa che è l'ultimo giorno che passerà in quella casa. Cerca il latte ma non lo trova. Chiude il frigo e si mette a sedere davanti al tavolo, così ingombro di cose che non si vede il fondo. Prende una fetta di pane dalla busta aperta e la mangia. È stantìa. Chissà da quanti giorni è aperta quella busta. Qualcuno oggi arriverà, non sa chi, per portarli via.

Sua sorella compare in cucina come un fantasma, con la camicia da notte bianca e i capelli scarmigliati, lunghi sulle spalle piccole da tredicenne.

"Cosa fai?"

"Non vedi, faccio colazione."

Si mette a sedere di fronte al fratello, in silenzio.

"Non voglio andare a stare con la zia."

"Dobbiamo per forza."

"Ma io non voglio, e neanche tu, lo so."

"Ti ho detto che dobbiamo per forza."

Restano in silenzio finché la ragazzina comincia a singhiozzare.

"Non ci lasceranno stare qui, noi tre da soli", dice il fratello.

La ragazzina si alza e corre in camera sua.

Lui resta immobile seduto sulla sedia, con le mani incrociate sul tavolo. Sembra pietrificato. Diciotto anni. Peccato, avrebbe voluto fare la festa con tutti gli amici, quelli di scuola e quelli della squadra. E poi subito la patente. E invece l'incidente... e poi...

Si alza, va in bagno. Si fa la doccia e va in camera sua a vestirsi. Suo fratello dorme ancora. Indossa un paio di jeans e una camicia pulita. Torna in bagno, si pettina e si profuma.

Va nel soggiorno. Il divano letto è chiuso. Da due giorni. Si mette a sedere in poltrona. Accende la TV e cambia i canali senza guardare niente.

Sente la voce di suo fratello che lo chiama. Va in camera.

"Che c'è?"

"Mi sono svegliato."

"Va in bagno a lavarti."

"Non ne ho voglia."

"Non piagnucolare e va in bagno a lavarti, e poi vestiti."

Torna in soggiorno. Sente la lagna del fratello andare verso il bagno. Sente l'acqua scorrere. Continua a cambiare i canali. Chissà se anche lui a dieci anni era così lagnoso, si chiede. Sicuramente no.

L'acqua continua a scorrere nel bagno. I suoi gli dicevano sempre di dover essere responsabile per suo fratello e sua sorella fin da quando andava alle scuole medie. Già allora lo lasciavano solo in casa con i due piccoli e uscivano la sera. Andavano a teatro, a cena da amici. Quando lui aveva 14 anni partirono per la prima volta da soli per un fine settimana. Andarono sulla neve. Sentì la madre che diceva al telefono ad un'amica: Abbiamo bisogno di ritrovare la nostra intimità di coppia, sono 14 anni che non siamo più soli. Intimità di coppia, lui si chiese cosa significasse. E se lo chiede anche ora. Ma poi l'avranno trovata, no? Sono andati mille altre volte in vacanza da soli. E poi quando era più piccolo ed era ancora figlio unico, tante volte lo avevano lasciato dai nonni anche a dormire. Quindi non era vero che per 14 non erano mai stati soli. Bugiarda.

Si alza e va a controllare che in bagno vada tutto bene. Suo fratello ha smesso di piagnucolare e si sta asciugando le orecchie.

"Asciugale bene."

Lui non risponde.

"E dopo va in camera a vestirti."

Va nella camera di sua sorella. Lei è a letto, a pancia sotto, sopra le coperte.

"Dai, vestiti. Fra poco dobbiamo uscire."

Lei non risponde e non si muove.

Lui chiude la porta e torna in soggiorno. Spegne la TV e guarda fuori dalla finestra. A quest'ora l'autobus per andare a scuola è già passato alla sua fermata. I suoi amici lo sapevano che lui stamattina non sarebbe salito. Non lo hanno aspettato. D'ora in poi tutto proseguirà come sempre a scuola, solo senza di lui. Chissà se per loro farà differenza, e chissà Martina. Cosa penserà, cosa sentirà ora che lui non c'è più al suo posto. Ma forse neanche noterà quella sedia vuota. Non si può prevedere la reazione di chi resta, quando si va via. Suo padre certamente non ci aveva pensato al momento di saltare giù.

Va in cucina. Prende il coltello, quello grande del pane. È seghettato e senza punta, non va bene. Rovista un po' e ne trova uno più grande, senza dentellatura. Va bene. Va nella camera di sua sorella. Lei è ancora sul letto, a pancia sotto. La stanza è al buio. Entra e chiude la porta senza accendere la luce. Si avvicina, si siede sul letto. Fa un respiro profondo. Afferra sua sorella per i capelli e le solleva la testa, lei geme con gli occhi spalancati e increduli, lui le taglia la gola. Lascia la presa e la testa ricade sul cuscino, mentre il sangue sprizza come acqua da un tubo rotto.

Va in bagno. Il sangue gocciola dal coltello sul pavimento bianco del corridoio. Il bagno è vuoto. Va nella sua camera. Il fratellino si sta infilando i jeans. Si guardano. Il bambino vede il coltello insanguinato.

"Cosa fai?" chiede con un filo di voce.

"Niente" risponde il fratello avvicinandosi.

Il bambino lascia i jeans e indietreggia. Indossa solo le mutandine. Trema per il freddo e la paura. Sale sul letto, il fratello è a un passo. Salta sull'altro letto. Il fratello fa un passo di corsa e gli è di fronte. Il bambino urla. Il fratello sferra un colpo e gli taglia il ventre. Si guardano negli occhi. Le interiora del bambino scivolano fuori. Il bambino si accascia.

Senza lasciare il coltello va di nuovo nel soggiorno. Si siede sul divano letto. Libero, pensa. Si sente freddo, vuoto. Poi improvvisamente una vertigine. Appoggia la testa sullo schienale. È talmente solo al mondo...

Si guarda intorno, guarda il coltello insanguinato e poi si taglia le vene al polso sinistro. Si distende sul divano e attende. Aspetta, aspetta... le forze si affievoliscono, la stanza è sempre più sfuocata... Mamma.





Stefania Rega



E' nata a Sarno (SA) nel 1970 ed è cresciuta a Striano (NA).

Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne subito dopo, ha iniziato a lavorare come traduttrice dall'inglese, specializzandosi in informatica. Inoltre, è stata tester di software per l'IBM in vari laboratori negli Stati Uniti e a Taiwan.

Negli ultimi anni ha frequentato corsi di traduzioni letteraria e di editoria. La sua traduzione di un racconto dello scrittore statunitense Matt Bell sarà pubblicata sul N. 4 della rivista online Buràn.

Attualmente vive a Roma.















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