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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Paolo Pedote

Il ragnetto

immagine
Monologo per voce calda da recitare fuori scena.



Una stanza male illuminata, una sedia, un video.

Le immagini proiettate possono essere dei dettagli del monologo, lo sguardo panico di un uomo o un filo tagliato da una luce accecante. Si potrebbero aggiungere dei suoni legati all'acqua e all'umidità.

Tutto però come fosse un'istallazione artistica.



Il luogo ideale per questa rappresentazione è un sotterraneo puzzolente.




Sono legato su una sedia.

Più precisamente sono legato con le mani dietro la schiena, alle caviglie e ho la bocca imbavagliata. L'ambiente è una stanza ampia, praticamente vuota. Vedo due finestre con i vetri sporchi. Però entra molta luce, anche se dove sono io, al centro della stanza, di luce ce n'è molto poca.

La sensazione constante è di umidità. La stanza, il cui pavimento è scuro e il soffitto pieno di macchie, si potrebbero definire infiltrazioni, è saturo di umidità e di vapori.

Io sono sudato e colo sudore dalla fronte, e sono bagnato dappertutto.

La stanza, dicevo... è vuota, praticamente vuota, ma davanti a me c'è un piccolo banco di scuola. Un vecchio banco di scuola pieno di scritte e figure oscene.

C'è silenzio.



Sono io legato su quella sedia.

Certo, sono proprio io. Mi riconosco bene. Mi vedo legato, ma è come se fossi anche fuori da quella stanza dove mi hanno legato e costretto a stare seduto e immobile. Sono in mezzo alla stanza e fuori. E soffro di questo sapermi legato e imbavagliato, ma soprattutto di questo caldo insopportabile.

Io mi osservo su quella sedia e mi vedo mentre con i miei occhi sbarrati guardo verso l'alto. Come una cinepresa allora il mio sguardo, non di me seduto e legato, ma di me che mi vedo seduto e legato, da fuori, va verso ciò che io seduto sto guardando, cioè verso l'alto. L'immagine si avvicina costringendomi a osservare un dettaglio che io osservatore da fuori, mio malgrado, non voglio vedere.



È attaccato al soffitto. E parte dal centro, da una delle macchie di umidità.

E più saldo che mai, è un sottilissimo filo non più lungo di dieci centimetri, un filo che ho la certezza che non si spezzerà mai. Anche questa è una sensazione molto chiara: la certezza che quel filo non si potrà mai spezzare, che quel filo è molto resistente. Ma non so come spiegarla.

C'è in quel filo qualcosa di misterioso, ma non è il filo che propriamente crea il mistero, ma ciò che si muove alla sua estremità. È qualcosa di piccolo e in movimento.

Pur sapendo cos'è, non riesco ancora a metterlo a fuoco. Poi, ecco l'immagine che si schiarisce: è un piccolo ragnetto che muove velocemente le sue zampette.



Io lo so che quel ragnetto è innocuo.

Infatti, mentre io che sono seduto e che sudo e che non posso muovermi perché immobilizzato su quella sedia, lo guardo con ansia, mi rendo perfettamente conto che è inoffensivo, che non c'è nulla di cui temere. Non è velenoso e neppure mortale. Ma io che guardo da seduto e legato questo non lo so e quindi sono angosciato, pieno di terrore e cerco disperatamente di liberarmi, cerco qualcuno che mi liberi e che mi rassicuri sul fatto che quel piccolo ragnetto, quell'insetto schifoso non possa fare nulla.



Il ragnetto continua a muovere nevrastenicamente le sue zampette.

Ossessivo tesse un filo di una tela che però non si intreccia con nessun altro. Quel filo si allunga semplicemente.

Piano piano così il ragnetto scende. E quel sottile filo che il ragnetto produce e che si allunga è una linea perfettamente retta, una perfezione geometrica, una retta perpendicolare al soffitto.

Io che guardo me seduto e legato e che fisso il ragnetto pieno d'angoscia e di terrore, traccio l'ipotetica continuazione di quel filo, di quella linea. E mi è tutto improvvisamente chiaro: ciò che mi angoscia è che il punto di arrivo della linea, del filo sottile del ragnetto coincide con la punta del mio naso.

L'angoscia adesso di me che guardo me coincide con quella di me seduto, legato e imbavagliato. Anch'io inizio a sudare.



Il ragnetto continua a scendere, si fa sempre più vicino al mio naso, mancano pochi centimetri. Io seduto legato e imbavagliato deglutisco, sento solo l'impossibilità di liberarmi, di scappare. Sembra quasi banale dirlo, ma vorrei scappare, uscire da quella stanza, ma non posso!

Adesso però la prospettiva si capovolge: quel me che fino a questo momento si era limitato a fare da specchio alle mie emozioni, viene messo sotto accusa dal me legato: sono io il responsabile del mio imbavagliamento, sì! Sono stato proprio io a legarmi. Sì, è colpa mia. È solo colpa mia e non ho giustificazioni.



Il ragnetto quasi tocca il mio naso, manca meno di un centimetro. Mi dico: sposta la testa! Lo puoi fare, spostala! Non sei impedito col collo, ma solo nelle mani e nelle caviglie, sei immobilizzato negli arti, non nel collo!

La testa sarebbe sufficiente che la tirassi indietro, anche di poco. Così il ragnetto sarebbe costretto a proseguire e si adagerebbe sulla tua camicia. Ma niente, rimango rigido, non riesco a muovermi.



Ecco, il ragnetto si potrebbe già adagiare sul mio naso, diventare parte di me penetrando le mie narici, ma s'immobilizza anche lui per qualche secondo e poi, nel suo movimento così frenetico ricomincia a risalire il suo filo sottile, la sua faticosa china, veloce più che mai. Sale, sale, sale... sembra non volermi tormentare più, ha deciso di liberarmi dalla sua insidia, di abbandonare il mio naso come sua meta. Sale verso il soffitto per trovarsi un rifugio tranquillo nell'umida macchia da cui parte il suo filo.

Quasi giunto al termine del filo si ferma per un altro istante e come per mancanza di forze torna a scendere e quindi a tormentarmi, a tormentare il mio naso, di me che sono seduto, legato e imbavagliato e che non posso neppure avere delle conferme sulla mia sicurezza.



Il ragnetto è ormai nuovamente vicino al mio naso, sempre più vicino.

Tornano tutte le sensazioni di prima, tutto come prima, esattamente come prima.

Il ragnetto è praticamente adagiato sul mio naso, ma ancora una volta, in prossimità della punta, torna a risalire il filo che lo collega come un cordone ombelicale a quella macchia che trasuda umidità fertile di piccolissime forme viventi. Infatti non lo avevo notato, ma adesso sì: quella macchia brulica di vita, si muove. Non è statica.

E nel momento stesso che è arrivato al soffitto, nella sua tana, eccolo nuovamente a scendere, poi nuovamente a salire, e poi a scendere.

Quando scende e si avvicina al mio naso, mi vedo legato, imbavagliato e sudato e ho il terrore che toccherà il mio naso. Ma appena sale, io che mi guardo legato so bene che quel ragnetto non mi toccherà mai.

Quando scende, mi tormenta l'idea della fine; quando sale, mi sembra che nulla potrà mai finire. Ma il ragnetto continua a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire, a scendere e a salire...





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