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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Giovanni Mauro

In volo

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Sono seduto da alcuni minuti vicino al finestrino pressurizzato del volo AZ-628 Roma-Chicago. Gli ultimi ritardatari si affannano a piazzare borse di pelle, notebook e ventiquattr'ore nelle cappelliere. Anche sotto i sedili si accumulano oggetti che il personale di volo cerca di sistemare in qualche modo. Si chiudono gli sportelli. Mi guardo attorno finché incrocio uno stewart. Faccio un cenno, si avvicina. Chiedo se posso cambiare di posto e sedermi dalla parte del corridoio. Offro il mio migliore sorriso. Come sempre funziona: il giovane consulta una cartellina e sorride a sua volta. - No problem, signore, ma ha avuto fortuna: vede? Il volo è quasi pieno.

Le procedure di routine si snodano con la usuale efficenza, una danza sincronizzata dove ognuno conosce i propri passi e li esegue in economia di movimenti e con il ritmo di un rituale ben collaudato. Il messaggio è: fidati di noi, sei in buone mani, non ti accadrà nulla, non oggi, non qui. Scruto gli sguardi tranquilli di stewart e hostess. In anni di viaggi ho realizzato che, contrariamente alle dicerie, fra i primi i gay non sono frequenti e non è così semplice avvicinare le seconde. Non che la cosa mi interessi se non da un punto di vista di social engineering, l'area di cui mi sono occupato sino ad oggi per la mia attività.

Il saluto del comandante, il pistolotto sull'ubicazione delle uscite di sicurezza, come usare gli scivoli e le mascherine che certamente cadranno dall'alto al momento giusto. I piú non ascoltano ma c'é sempre qualche pivello con lo sguardo ipnotizzato dalle mani della hostess che forza il sorriso, mentre impercettibili goccioline compaiono sul suo labbro. Posso immaginare gli scenari alla Titanic che gli passano davanti.

Certo, quel mio vicino, dall'altra parte del corridoio, oggi li supera tutti. Mediorientale, business suit, decisamente sovrappeso. Attorno a lui un'aura di stress e agitazione quasi palpabile. La cravatta scura a motivi geometrici dorati è allentata attorno al collo taurino, sui suoi baffi neri sembra caduta una fine pioggia autunnale. L'uomo, che chiamerò Ahmed, si asciuga viso e collo con qualcosa che sembra una tovaglietta da campeggio. Il servizio di bordo lo ha già preso d'occhio. Secondo procedura la hostess lo ha invitato a cambiare di posto, sistemandolo vicino alle uscite di sicurezza: più spazio vitale e, secondo le statistiche, diminuzione di un buon trenta per cento delle possibilità di crisi di panico in volo. Bravi. Allungo la mano sul cesto di vimini per prendere la salvietta profumata che mi viene offerta e incontro lo sguardo dell'altro mio compagno di viaggio che si è messo vicino al finestrino, al posto mio. Il suo sedile fra noi resterà libero, così vi abbiamo appoggiato alcune cose: la borsa di goretex (lui), un sacchetto di carta (io). Lo sguardo dell'uomo, un grigio travet del cielo che rilegge sul notebook la relazione per un corso di formazione, é a un tempo complice e di compatimento. Scuote i pochi capelli come dire: "Guarda un po' cosa ci tocca vedere, a noi veterani del cielo...Perché certa gente non se ne sta con i suoi montoni sugli altopiani dell'Anatolia o da dove diavolo viene?".

Il mio linguaggio del corpo non avalla né contesta la presa di posizione intollerante. Grey Travet rilancia, sfiorandosi il naso con il dorso della mano, come se non sentissi anch'io l'acre odore di adrenalina che il poveraccio spande tutt'intorno e la camicia in poliestere non lo aiuta certo. Infine, non trovando supporto, Grey Travet mi esclude dal suo sensorio infilandosi un paio di auricolari collegati ad un lettore mp3, quasi certamente spento.

Chiudo gli occhi per i miei venti minuti di meditazione, non prima d'aver settato l'iPad in modalità aereo. Stiamo giá cominciando a rollare sulla pista. L'odore dell'ozono si diffonde dalle prese d'aria. La musica si abbassa all'improvviso.

- A tutto l'equipaggio: prepararsi al decollo, ripeto prepararsi al decollo.

Le conversazioni si attenuano, il rombo crescente copre i pensieri.

Decollare è una evento fisico cui tutti i passeggeri sentono di dover collaborare, chi irrigidendosi, chi battendo i piedi o trattenendo il fiato. Durante questi minuti in molti si affacciano le superstizioni, le paure recondite, i notiziari fino a quel momento rimossi dalla memoria ("Interrompiamo le trasmissioni per comunicarvi una notizia gravissima: una tragedia si è consumata durante il decollo nei cieli di..."). Per alcuni l'esperienza è addirittura terrorizzante.

Non per me, perso nelle profondità dell'essere mentre recito il mantra.

Riemergo al presente e siamo già in volo sopra le nuvole. Mentre riprendo contatto col mondo registro, subliminale, un mormorio che proviene dalla mia sinistra. Apro gli occhi e scorgo Ahmed -palpebre socchiuse- in un bagno di sudore. Le sue labbra si muovono appena.



Bismillahi r-Rahmani r-Rahim

Qul hu Allahu Ahad

Allahu s-Samad

lam ialid wa lam iulad

wa lam iakun lahu kufuan Ahad



Riconosco i familiari versi del Corano, mandati a memoria durante gli anni di formazione. Penso che Ahmed ha veramente un problema col volo, chissà come ha fatto col suo lavoro, qualunque esso sia, sino ad oggi. Sono spiaciuto per lui. Allo stesso tempo noto che molti passeggeri cominciano a preoccuparsi per il suo comportamento. L'arabo non si rende conto di nulla e continua a biascicare la sua litania. Grey Travet è terreo, mentre l'inquietudine cresce anche fra le file vicine. Dopo il settembre 2001, un mediorientale in aereo, visibilmente agitato, che recita versetti del Corano pare generi apprensione. Osservo interessato il diffondersi del panico, una esalazione quasi palpabile. Affiorano domande mute. Mi pare di udirle. (Cos'ha il musulmano per trovarsi in quello stato, quale suprema prova dovrà affrontare di qui a poco? Un'azione disperata? Un gesto suicida? Vuoi vedere che proprio qui, proprio oggi, su questo volo...?)

Ogni suo gesto è un indizio che rafforza i crescenti timori: slacciati i polsini della camicia (-Oddio, è bianca, il colore dei martiri-), cravatta ormai tolta e arrotolata nella mano sudata, l'inquietante borsa nera di poco valore nel bagagliaio: tutto fa di Ahmed un possibile, probabile sospetto, agnello sacrificale per chissá quale causa terroristica. (-Perché a me, avessi preso il volo successivo...-)

I pensieri volano, la paranoia cresce, il brusio coagula in parole prima sommesse poi sempre più udibili (-Ha visto anche lei? Qualcuno dovrebbe avvertire...Ma proprio nessuno fa niente, qui?-)

Le mezze frasi diventano proteste nemmeno tanto velate e finalmente c'è chi passa all'azione. Tocca (ci avrei scommesso) a un tipo alto che somiglia a Clint Eastwood: slaccia la cintura di sicurezza e mostra disinvolto un tesserino al mio stewart. Tutti e due, protetti dal carrello del catering, guardano verso Ahmed che ora è precipitato in uno stato catatonico e dondola il capo ad occhi socchiusi, perso in qualche giaculatoria terminale. Sta sgranando un rosario islamico. Lo stewart fa un cenno di assenso a Clint e i due spariscono nella cabina di pilotaggio. Riemergono pochi minuti dopo accompagnati dal vicecomandante, segno che la potenziale minaccia è presa sul serio. Chiudono il drappello due hostess che immagino stringere febbrilmente nelle pochettes le uniche contromisure consentite in volo per le situazioni eccezionali: gas lacrimogeni e lacci in kevlar. Il vice scuote delicatamente l'uomo che si risveglia in un sussulto. In inglese, tradotto in arabo dal mio stewart, lo informa che è stata ricevuta una comunicazione dai servizi di sicurezza. Ci sono delle procedure aggiuntive da seguire: dovrebbe gentilmente acconsentire a un controllo del suo bagaglio a mano e a una sommaria perquisizione, magari nel vano cucina, per non dare nell'occhio. Il tono non ammette repliche ma è sufficentemente basso da poter essere colto solo dai piú vicini, in pratica solo da me e Grey Travet che ora esibisce un sorriso soddisfatto. Intorno nessuno si volta, ma intuisco che tutti tendono le orecchie temendo un drammatico colpo di scena: l'arabo impazzito che brandisce il kalashikov nascosto sotto la giacca, Clint Eastwood che ingaggia uno scontro a fuoco, le pallottole che volano, i sibili dell'aria che sfugge dai fori nella fusoliera. Lo sguardo serio del vice su di noi intima di non proferire parola né cercare di interferire con la delicata operazione.

Ahmed, disorientato alza le braccia e obbedisce docilmente. 'Sorry, what's happening? I am just a bit worried, this is my first trip'.

Le 'procedure aggiuntive' vengono espletate in un silenzio angoscioso, le hostess sembrano sul punto di mettersi a piangere. Solo Clint ha messo su una maschera di ghiaccio, é chiaro che questo è il suo momento, quello atteso da una vita. Da quando, poniamo, fa la guardia giurata nei Vigili dell'Ordine o davanti a qualche banca nella capitale.

Risulta in breve che il povero Ahmed è pulitissimo. Un muezzin, un prete islamico che stava prendendo coraggio dal suo sacro testo per il battesimo dell'aria. A disagio nei panni alla occidentale che aveva scelto per non dare nel'occhio, andava a trovare alcuni parenti americani. Proprio così, anche i muezzin di Damasco possono averne, no?

Seguono da parte del crew le dovute scuse (non credevamo, come potevamo immaginare, certo che comprendiamo, ma si figuri...)

Seguono da parte del pubblico pagante sorrisi, pacche sulla spalla, profferte di solidarietá multietnica (Io non ci avevo mai creduto sa? Le cose che il gigante imperialista ci costringe a sopportare...)

Grey Travet è addirittura fantastico: mi si rivolge con un bel sorriso: - Glielo avevo detto che non c'era da preoccuparsi, no?

Lo guardo e qualcosa nei miei occhi gli fa andare di traverso la fettina di lime che sta masticando.

Quanto a me, intravedo alle sue spalle la sottile teoria di nuvole indaco che si inseguono, dietro al finestrino. Il sole che rincorriamo verso ovest sta tramontando da ore e inonda il corridoio di una luce ambrata, morente, come fosse filtrata attraverso una tazza di té. Mi torna in mente una vecchia canzone: I'll follow the sun, Io seguirò il sole. Bellissima didascalia per questo momento.

Una bambina esce dalla toilette, richiude educatamente la porta scorrevole e scende di corsa lungo il corridoio, lasciandosi dietro il profumo di una saponetta da aereo.

Una nostalgia, ultima e inaspettata mi coglie e solleva sulla sua ala sino alle rovine che delimitano un cortile di periferia, nella mia città semidistrutta. Nonna Dina lava i panni in un catino di zinco. Sapone di Marsiglia, nuvolette di fiato nel terribile inverno delle mie parti. Sto seduto su un muretto e succhio liquirizia da un bastoncino di legno fra i denti quando cade la bomba. Vedo il catino volare in alto, poi una pioggia di detriti mi nasconde il cielo. L'ultima immagine -fissata in un'istantanea- è il bastoncino, strappatomi via dalla bocca che rotola nell'aria imazzita e va a cadere in mezzo al cortile, proprio vicino alla mano che è stata della nonna.

Risento in bocca quel gusto aspro proprio ora che tutta la mia esistenza implode e distilla i miei definitivi, semplici gesti.

Salvo queste righe. Con un po' di fortuna verranno ritrovate sul mio IPad.

Apro il sacchetto, estraggo il detonatore.

E premo il pulsante.







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