RACCONTI
Marco Amerighi
Incidente
Quando tornai dal sottoscala Rachele aveva di nuovo cosparso il corridoio che porta alla cucina di Andrea di tutto quello che aveva trovato. Non le importava se le avrei fatto raccogliere le cartacce e i giochi dal pavimento, se avrebbe scontato i suoi capricci passando la sera a riordinare mutande, maglie o calzini, invece di guardarsi con noi un cartone animato sul divano. Lo faceva e se ne restava lì con quell'aria di sfida.
Prima di urlare il suo nome mi ero già accorta che qualcosa non andava. Quando le passai accanto un ghigno di pura malvagità mi fece tremare. Fu allora che l'odore acre mi scese allo stomaco. I giornali strappati ed appallottolati erano solo un diversivo. Stavolta l'aveva fatta grossa. A terra sembrava che qualcuno fosse scivolato su di un pannolino sporco e si fosse rialzato. Poi fosse scivolato ancora e ancora immaginando di aver trovato la pista di pattinaggio ideale. Tutto intorno lo spettacolo non era migliore. Quello che rimaneva delle mutande usa e getta di Michela penzolava dai faretti che illuminavano il piano cottura, anche se scie scure lasciavano intuire che quello era stato soltanto l'ultimo di una serie di tiri liberi imprecisi. Il corpicino di Michela era ancora sul marmo della cucina in attesa di essere cambiato e muoveva le estremità come una tartaruga rovesciata, ma senza nessuna possibilità di andarsene. Provai a pensare ad una punizione esemplare ma per un attimo non riuscii a concentrarmi. Un brusio mi riempì la testa e scivolò lungo la schiena prima che me ne accorgessi. Strizzai la zampetta della tartaruga come una di quelle penne di gommapiuma che hanno gli psichiatri sulla scrivania. Poi vidi di nuovo Michela e Rachele. A due altezze diverse i loro occhi mi chiedevano cosa avrei fatto adesso. Decisi di mandare Rachele a prendere i sacchi della spazzatura nella Stanza delle Scope mentre io mi dedicavo al bagnetto nell'acquaio e al cambio di pannolino. Ma l'acqua non cancellò il formicolio dalle mie mani e come se non bastasse Michela incominciò a piangere. Lasciai a metà la mia occupazione e mi diressi verso la Stanza delle Scope con il sentore che ci fosse di nuovo qualcosa che non andava.
Con la testa all'indietro Rachele faceva perno col piede sinistro sul contenitore dell'immondizia e tirava a più non posso con entrambe le braccia. Fece finta di non notarmi. Poi quando non potette più ignorare la mia ombra si girò con una riverenza da ballerina. La misi da parte con il dorso della mano e lei lasciò che estraessi io il sacco dal contenitore di plastica. Mentre lo chiudevo con il nastrino che avevo strappato dal fondo si mise le mani in tasca e disse:
- "Non sei adatta!"
Il pianto di Michela sul ripiano si sentiva anche da lì. La guardai pensando che avrebbe detto qualcos'altro, qualcosa in più, ma Rachele sembrava pienamente soddisfatta del messaggio che mi aveva recapitato. Da dentro i pantaloni del pigiama ebbi l'impressione che la bambina stringesse qualcosa. Pensai di dirle che aveva tutto il diritto di essere arrabbiata per quello che era successo alla sua mamma, ma sapevo che Rachele non stava parlando di quello.
- "La mamma era molto più adatta di te!"
Non avrebbe potuto essere più chiara. Le dissi che era un momento difficile e che suo padre aveva molto da fare con il lavoro. Cercai di convincerla che obbedirmi gli avrebbe reso le cose più semplici.
- "Passare un po' di tempo con me prima che arrivi papà non ti farà male di sicuro".
- "A te non t' importa un fico secco di Michela e di me." urlò irrigidendo le braccia.
Per quanto mi sforzassi di replicare, all'inizio rimasi zitta a fissare quel nanetto con i capelli divisi sul petto dove un lombrico e una mela ricamati facevano ciao con la mano. Le guance erano di un rosso innaturale rispetto al pallore del corpo e le labbra così sottili da far pensare che fossero disegnate con una matita. I capelli, le unghie, gli zigomi: tutto era il ritratto di Andrea. Persino quelle orecchie così piccole da sembrare noci sarebbero divenute splendide come le sue. Eppure in fondo agli occhi – non saprei dire se ci fosse sempre stato o se le vedessi solo io in quel momento – qualcosa la rendeva diversa, estranea, come se non fosse realmente presente. Come se quel soldatino in pigiama dovesse recapitare un messaggio per conto di qualchedun'altro senza nessun interesse per il significato, né per le sue conseguenze.
- "Papà non ti vorrà mai bene come a mamma" disse, facendo uscire in fretta la mano di tasca e incrociando le braccia sulla pancia.
La figlia di Andrea mi aveva guardato negli occhi ed aveva fatto fuoco. Pensai a come tutto era iniziato e mi sentii stupida. Gli incontri nei collegi docenti, gli appuntamenti strappati ostinatamente, e quella sua perdita che mi aveva resa necessaria. Ora davanti a me quel nanetto che si lisciava i capelli rifletteva la mia ottusità.
Come leggendomi nel pensiero Rachele corse in direzione della cucina ma io l'afferrai per la treccia due passi dopo la porta. Lei urlò e tornò indietro come un elastico. Poi mi diede un calcio e io le diedi uno schiaffo a mano aperta e le lasciai un'impronta che le coprì metà faccia.
Quando Andrea entrò, spingendo la porta con la schiena per non far cadere i libri e le pizze, ci voltammo tutti di scatto verso il ripiano di marmo. Il silenzio d'un tratto mi fece notare che non sentivo più nessun brusio e anche le mani avevano perso il formicolio, ma qualcosa continuava a non andare.
Prima di urlare il suo nome mi ero già accorta che qualcosa non andava. Quando le passai accanto un ghigno di pura malvagità mi fece tremare. Fu allora che l'odore acre mi scese allo stomaco. I giornali strappati ed appallottolati erano solo un diversivo. Stavolta l'aveva fatta grossa. A terra sembrava che qualcuno fosse scivolato su di un pannolino sporco e si fosse rialzato. Poi fosse scivolato ancora e ancora immaginando di aver trovato la pista di pattinaggio ideale. Tutto intorno lo spettacolo non era migliore. Quello che rimaneva delle mutande usa e getta di Michela penzolava dai faretti che illuminavano il piano cottura, anche se scie scure lasciavano intuire che quello era stato soltanto l'ultimo di una serie di tiri liberi imprecisi. Il corpicino di Michela era ancora sul marmo della cucina in attesa di essere cambiato e muoveva le estremità come una tartaruga rovesciata, ma senza nessuna possibilità di andarsene. Provai a pensare ad una punizione esemplare ma per un attimo non riuscii a concentrarmi. Un brusio mi riempì la testa e scivolò lungo la schiena prima che me ne accorgessi. Strizzai la zampetta della tartaruga come una di quelle penne di gommapiuma che hanno gli psichiatri sulla scrivania. Poi vidi di nuovo Michela e Rachele. A due altezze diverse i loro occhi mi chiedevano cosa avrei fatto adesso. Decisi di mandare Rachele a prendere i sacchi della spazzatura nella Stanza delle Scope mentre io mi dedicavo al bagnetto nell'acquaio e al cambio di pannolino. Ma l'acqua non cancellò il formicolio dalle mie mani e come se non bastasse Michela incominciò a piangere. Lasciai a metà la mia occupazione e mi diressi verso la Stanza delle Scope con il sentore che ci fosse di nuovo qualcosa che non andava.
Con la testa all'indietro Rachele faceva perno col piede sinistro sul contenitore dell'immondizia e tirava a più non posso con entrambe le braccia. Fece finta di non notarmi. Poi quando non potette più ignorare la mia ombra si girò con una riverenza da ballerina. La misi da parte con il dorso della mano e lei lasciò che estraessi io il sacco dal contenitore di plastica. Mentre lo chiudevo con il nastrino che avevo strappato dal fondo si mise le mani in tasca e disse:
- "Non sei adatta!"
Il pianto di Michela sul ripiano si sentiva anche da lì. La guardai pensando che avrebbe detto qualcos'altro, qualcosa in più, ma Rachele sembrava pienamente soddisfatta del messaggio che mi aveva recapitato. Da dentro i pantaloni del pigiama ebbi l'impressione che la bambina stringesse qualcosa. Pensai di dirle che aveva tutto il diritto di essere arrabbiata per quello che era successo alla sua mamma, ma sapevo che Rachele non stava parlando di quello.
- "La mamma era molto più adatta di te!"
Non avrebbe potuto essere più chiara. Le dissi che era un momento difficile e che suo padre aveva molto da fare con il lavoro. Cercai di convincerla che obbedirmi gli avrebbe reso le cose più semplici.
- "Passare un po' di tempo con me prima che arrivi papà non ti farà male di sicuro".
- "A te non t' importa un fico secco di Michela e di me." urlò irrigidendo le braccia.
Per quanto mi sforzassi di replicare, all'inizio rimasi zitta a fissare quel nanetto con i capelli divisi sul petto dove un lombrico e una mela ricamati facevano ciao con la mano. Le guance erano di un rosso innaturale rispetto al pallore del corpo e le labbra così sottili da far pensare che fossero disegnate con una matita. I capelli, le unghie, gli zigomi: tutto era il ritratto di Andrea. Persino quelle orecchie così piccole da sembrare noci sarebbero divenute splendide come le sue. Eppure in fondo agli occhi – non saprei dire se ci fosse sempre stato o se le vedessi solo io in quel momento – qualcosa la rendeva diversa, estranea, come se non fosse realmente presente. Come se quel soldatino in pigiama dovesse recapitare un messaggio per conto di qualchedun'altro senza nessun interesse per il significato, né per le sue conseguenze.
- "Papà non ti vorrà mai bene come a mamma" disse, facendo uscire in fretta la mano di tasca e incrociando le braccia sulla pancia.
La figlia di Andrea mi aveva guardato negli occhi ed aveva fatto fuoco. Pensai a come tutto era iniziato e mi sentii stupida. Gli incontri nei collegi docenti, gli appuntamenti strappati ostinatamente, e quella sua perdita che mi aveva resa necessaria. Ora davanti a me quel nanetto che si lisciava i capelli rifletteva la mia ottusità.
Come leggendomi nel pensiero Rachele corse in direzione della cucina ma io l'afferrai per la treccia due passi dopo la porta. Lei urlò e tornò indietro come un elastico. Poi mi diede un calcio e io le diedi uno schiaffo a mano aperta e le lasciai un'impronta che le coprì metà faccia.
Quando Andrea entrò, spingendo la porta con la schiena per non far cadere i libri e le pizze, ci voltammo tutti di scatto verso il ripiano di marmo. Il silenzio d'un tratto mi fece notare che non sentivo più nessun brusio e anche le mani avevano perso il formicolio, ma qualcosa continuava a non andare.
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