ATTUALITA'
Alfredo Ronci
Kaputt, un capolavoro 'censurato'
Trovo scandaloso il modo in cui Curzio Malaparte è sempre stato trattato dalla 'critica' letteraria nostrana. Sentite cosa scrive Giuseppe Petronio nel suo Racconto del novecento letterario: fascista e antifascista, versipelle congenito, esempio esemplare di malcostume, cinico ed intelligente.
Per non parlare di Giuseppe Gigliozzi che in 'Cultura e letteratura del ventennio fascista' scritto contenuto in Storia generale della letteratura italiana di Walter Pedullà a proposito di come si debba affrontare il 'problema' Malaparte dice: tentazione di rifugiarsi (...) nell'immagine dell'opportunista voltagabbana (...) le sue prigioni, i suoi esili, hanno più l'aspetto della colonia estiva che quella del lager (...) Malaparte continua ad essere l'infaticabile produttore di bolle di sapone.
E Kaputt, il suo capolavoro, non ha sorte migliore: viene trattato in due righe di sufficienza.
Ora ci si chiede: perché questo astio? Perché questa continua e ammorbante censura, perché questo ostracismo nei confronti di uno degli scrittori più talentosi che l'Italia abbia mai prodotto? E' all'indice perché nel nostro paese vige ancora la cappa del diktat gramsciano (ma sarà vero?) della superiorità della cultura della sinistra? Ma allora cosa dovremmo dire di chi è sempre saltato sul carro dei vincitori rispolverando una verginità ideologica che solo ai più distratti è sembrata coerente? In fondo nessuno ha mai messo in discussione l'arte di Rossellini dopo Roma città aperta, dimenticando però la filmografia precedente di regime. Perché dunque si continua a bersagliare di maldicenze Curzio Malaparte?
Forse perché come diceva Giuseppe Prezzolini in un sentito ricordo al caro amico subito dopo la morte: i suoi peccati m'ispirano simpatia, mentre le virtù di altri mi danno fastidio.
La polemica sullo scrittore pratese non è certamente nuova: pensiamo al bel libro di Giordano Bruno Guerri (L'arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte – Bompiani), quel che non convince però è la disistima assoluta per la sua arte, per la sua straordinaria capacità di raccontare un mondo in declino e gli orrori di una guerra che ha prodotto sofferenze indicibili.
Perché Kaputt questo è: un quadro sconvolgente ed amaro della crudeltà umana. E lo ricordiamo perché Adelphi, in una bella edizione, ripresenta il capolavoro nella speranza che anche i più riottosi ed imbecilli capiscano che siamo di fronte ad una delle opere più stimolanti e suggestive di tutta la letteratura italiana del dopoguerra.
Dice lo stesso Malaparte della sua opera: Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dello spettacolo dell'Europa in questi anni di guerra. Tuttavia, fra i protagonisti di questo libro, la guerra non è che un personaggio secondario. Si potrebbe dire che ha solo un valore di pretesto, se i pretesti inevitabili non appartenessero all'ordine della fatalità. In Kaputt la guerra conta dunque come fatalità. Non v'entra in altro modo. Direi che v'entra non da protagonista, ma da spettatrice, in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio. La guerra è il paesaggio oggettivo di questo libro.
Al di là delle maldicenze dei più invidiosi (l'invidia di chi sa di non poter competere con un'arte più sublime) Malaparte visse davvero in prima persona l'ultima guerra: in un primo tempo con il grado di capitano degli Alpini e in seguito, lavorando come corrispondente per il Corriere della Sera. Alla fine di marzo 1941 si spostò in Jugoslavia, dove fu l'unico corrispondente di guerra straniero al seguito delle truppe tedesche.
Kaputt proprio questo racconta: in un clima spesso mondano (Malaparte era ben 'visto' da molte personalità politiche dell'epoca ed aveva la possibilità di frequentare i bei 'salotti' del tempo e le residenze di alcuni eminenti capi), lo scrittore, di fronte allo sconquasso della guerra e delle tragedie umanitarie, si lascia andare a considerazioni politiche di tutto rispetto (ne enumereremo alcune) e ai racconti, quasi sempre di una partecipazione commovente ed emotivamente insopportabili (nel senso che è si fa fatica a contenere l'emozione), che tracciano un quadro indimenticabile (qualcuno, sempre a corto di argomenti pensiamo noi, ha parlato di autocompiacimento. Lo dice anche Giordano Bruno Guerri nel suo libro, ma non vorrei che questa sorta di 'appagante estetismo' di Malaparte non dipendesse dal fascino e dall'elan che lo scrittore stesso si portava dietro, per via di un'innata predisposizione all'eleganza) degli anni che vanno dal 1941 al 1944.
Sin dall'inizio si avverte un clima plumbeo e foriero di sventure: poco prima della guerra, in un incontro col principe di Piemonte a Capri, Malaparte scrive: Non v'era più nulla di puro, più nulla di veramente giovane, ormai in Italia. C'era come il segno di un destino comune, nelle rughe, nella calvizie precoce, nella pelle morta di quel giovane principe.
In quegli anni lo scrittore ha già saltato il fosso: nel senso che avverte già chiaramente il declino del sogno mussoliniano (ma non solo quello, ma credo la fine di tutto l'armamentario fascista), pur essendo stato da giovane entusiasta 'ideologo' del regime (partecipò alla marcia su Roma del '22) e sostenitore di un agghiacciante 'squadrismo intransigente' soprattutto dopo l'assassinio di Matteotti.
La sua prospettiva politica gli permette, in vari passi del libro, di affrontare tematiche che sono state per molti anni patrimonio anche della storiografia più clarata.
Pensiamo ai rapporti tra il Papa e Mussolini a proposito dello 'svezzamento' della gioventù e dello scontro tra regime ed Azione Cattolica: Quando nasce un italiano, Mussolini lo prende sotto la sua protezione: prima lo affida a un asilo d'infanzia, poi lo manda a scuola, più tardi gli insegna un mestiere, quindi lo iscrive al partito fascista e lo mette a lavorare, fino all'età di vent'anni. A vent'anni lo chiama sotto le armi, lo tiene due anni in caserma, poi lo congeda, lo rimette a lavorare, e non appena è maggiorenne gli dà moglie: se gli nascono dei bambini, ripete ai figli il trattamento che ha già fatto al padre. Quando poi il padre, divenuto vecchio, non può più lavorare e non serve più a nulla, lo manda a casa, gli da una pensione e aspetta che muoia. Finalmente, quando è morto, Mussolini lo consegna al Papa perché ne faccia quel che gli pare.
Pensiamo all'idea di Pio XII di preferire il nazismo al comunismo (sarebbe da approfondire quest'argomento visti i dibattiti che periodicamente s'intavolano sul discusso pontefice, e magari un'occhiata a quello che lo stesso Pio II pensava della bomba atomica... non guasterebbe mica).Durante una partita di cricket con un gerarca fascista (sta qui forse l'astio dei nemici di Malaparte? In questa sorta di appartenenza ad una confraternita del Male? Ma dài!), Franz Wachter afferma: Il clero polacco teme più i russi che i tedeschi, teme più i comunisti che i nazisti. Può darsi che abbia ragione. E in un dialogo rubato tra il ministro di Turchia Agah Aksel e il primo ministro rumeno Constantinide si legge: "Oggi a Vienna ci sono i nazisti" disse Constantinide. "Se si facessero cristiani ci rimarrebbero" disse Agah Aksel.
Pensiamo all'idea della crudeltà nazista: Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei.
Ma è sugli aspetti orrendi e mutilanti della guerra che Malaparte dà il meglio dal punto di vista letterario (e non capisco come si possa essere autocompiaciuti nel raccontare le tragedie di un mondo in disfacimento). Kaputt è diviso in capitoli ed ognuno di questi è titolato con nomi di animali: cavalli, topi, cani, uccelli, renne e mosche. Le parte migliori sono quelle dedicate ai cavalli: i cavalli delle terre finlandesi che, a causa di un inverno particolarmente freddo e del vento gelido che scende dal mare di Murmansk e per sfuggire gli eserciti nazisti, restano bloccati nel gelo con la testa fuori, come statuine da giardino: Nei giorni opachi dell'interminabile inverno, verso mezzogiorno, quando un po' di luce sbiadita piove dal cielo, i soldati del colonnello Merikallio scendevano dal lago, andavano a sedersi sulle teste dei cavalli. (...) La scena sembrava dipinta da Bosch.
I topi sono i bambini del ghetto di Varsavia che scavano buche nel terreno per poter fuggire dall'isolamento nella speranza di racimolare del cibo: "Dov'è il topo?" domandò Frau Brigitte Frank. "Achtung!" disse il soldato prendendo la mira. Dalla buca scavata ai piedi del muro fece capolino un nero ciuffo di capelli arruffati, poi due mani emersero dalla buca, si posarono sulla neve. Era un bambino.
Il colpo partì, ma anche questa volta fallì di poco il bersaglio. La testa del bambino scomparve.
"Dammi qua" disse Frank con voce impaziente "non sai neppure tenere un fucile in mano". Afferrò il fucile del soldato e prese la mira.
Nevicava nel silenzio.
Basterebbero queste poche frasi per rendere Kaputt una lettura indispensabile. E oltremodo suggestivo sarebbe affrontare la tematica animalista nell'opera di Malaparte: non soltanto, come abbiamo visto, i capitoli di quest'opera sono contraddistinti tutti dalla presenza di animali, ma c'è nel mondo dello scrittore pratese una sensibilità, al riguardo, fino ad allora sconosciuta ai più. Pensiamo a Febo, il cane tanto amato e pianto sul tavolo di un laboratorio di vivisezione ne La pelle che tornerà in un racconto di Sangue. Alla mamma nel racconto Madre che cerca il suo bambino (sempre Sangue) che scambia un cane per la propria prole, lo mette nella culla e nel tentativo di allattarlo si lascia mordere. O l'agghiacciante finale de Un giorno felice (sempre Sangue) dove viene ucciso un gatto. Il racconto vuole rappresentare una Italia littoria felice, ma proprio nell'apparente serenità del momento si nasconde la crudezza di una violenza che esplode improvvisa, macchiandosi di sangue innocente.
Kaputt, come dice lo stesso autore, sta tutto nel titolo: Lei conosce l'origine della parola kaputt? E' una parola che proviene dall'ebraico kopparoth, che vuol dire vittima. Il gatto è un kopparoth, è una vittima, è l'inverso di Sigfrido: è un Sigfrido immolato, sacrificato (il cerchio si chiude no?).
Vittima è il bambino russo che spara ai tedeschi durante la guerra di Russia. Alla domanda del gerarca nazista perché spara, risponde che lo sa già, non c'è bisogno di dirlo. Ascolta, non ti voglio far del male. Sei un bambino, io non fo la guerra ai bambini (...) Ascolta, io ho un occhio di vetro. E' difficile riconoscerlo da quello vero. Se mi sai dire, subito, senza pensarci su, quale dei due è l'occhio di vetro, ti lascio andar via, ti lascio libero.
"L'occhio sinistro" risponde pronto il ragazzo.
"Come hai fatto ad accorgertene?"
"Perché dei due è l'unico che abbia qualcosa di umano".
Vorremmo azzardare di più: con tutti i suoi errori e i suoi voltafaccia Malaparte è stato egli stesso vittima della sua straordinaria capacità di vedere e prevedere le cose. Forse nel titolo di questo libro 'obbligatorio' intravedeva la possibilità di essere frainteso: che le sue vicinanze alle stanze del potere, quelle sue 'liaisons dangereuses' potessero significare per i più condivisione se non addirittura complicità dei crimini raccontati.
Scriveva al suo amico Prezzolini in una lettera in cui confessava di stare male: Ma non si tratta di malattia soltanto: si tratta di schifo. Non sto a dirti quel che abbiamo passato. Una vera e propria caccia agli intellettuali, specie agli scrittori, organizzata da quei quattro cialtroni di intellettuali biliosi e di scrittorelli mancati, che anche sotto il fascismo, e per venti anni di seguito, non hanno fatto altro che romperci le scatole con denunzie, persecuzioni, calunnie sotterranee eccetera. E' gente che in vent'anni non ha mai arrischiato nulla, si è sempre guardata dal compromettersi in senso antifascista, nel migliore dei casi, non ha mai scritto due righe contro Mussolini eccetera ed oggi spera, o sperava, di toglierci di mezzo con la presunzione di poter prendere il nostro posto nelle lettere, presso il pubblico, nei giornali eccetera.
Malaparte, se fosse in vita, capirebbe subito che quegli anni non sono mai finiti e che questo è ancora il paese degli scrittorucoli e delle ideologie preconfezionate che hanno rovinato la cultura e l'idea di poter vedere semplicemente oltre.
Raccontava al gerarca fascista: Non sapete che i bambini ebrei non camminano? I bambini ebrei hanno le ali.
Dovrebbero averle anche i lettori per poter volare con Kaputt e lasciare ai più la mestizia di una letteratura resa esangue dal mercato e da un falso realismo di risulta (neo-neorealismo?).
Per non parlare di Giuseppe Gigliozzi che in 'Cultura e letteratura del ventennio fascista' scritto contenuto in Storia generale della letteratura italiana di Walter Pedullà a proposito di come si debba affrontare il 'problema' Malaparte dice: tentazione di rifugiarsi (...) nell'immagine dell'opportunista voltagabbana (...) le sue prigioni, i suoi esili, hanno più l'aspetto della colonia estiva che quella del lager (...) Malaparte continua ad essere l'infaticabile produttore di bolle di sapone.
E Kaputt, il suo capolavoro, non ha sorte migliore: viene trattato in due righe di sufficienza.
Ora ci si chiede: perché questo astio? Perché questa continua e ammorbante censura, perché questo ostracismo nei confronti di uno degli scrittori più talentosi che l'Italia abbia mai prodotto? E' all'indice perché nel nostro paese vige ancora la cappa del diktat gramsciano (ma sarà vero?) della superiorità della cultura della sinistra? Ma allora cosa dovremmo dire di chi è sempre saltato sul carro dei vincitori rispolverando una verginità ideologica che solo ai più distratti è sembrata coerente? In fondo nessuno ha mai messo in discussione l'arte di Rossellini dopo Roma città aperta, dimenticando però la filmografia precedente di regime. Perché dunque si continua a bersagliare di maldicenze Curzio Malaparte?
Forse perché come diceva Giuseppe Prezzolini in un sentito ricordo al caro amico subito dopo la morte: i suoi peccati m'ispirano simpatia, mentre le virtù di altri mi danno fastidio.
La polemica sullo scrittore pratese non è certamente nuova: pensiamo al bel libro di Giordano Bruno Guerri (L'arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte – Bompiani), quel che non convince però è la disistima assoluta per la sua arte, per la sua straordinaria capacità di raccontare un mondo in declino e gli orrori di una guerra che ha prodotto sofferenze indicibili.
Perché Kaputt questo è: un quadro sconvolgente ed amaro della crudeltà umana. E lo ricordiamo perché Adelphi, in una bella edizione, ripresenta il capolavoro nella speranza che anche i più riottosi ed imbecilli capiscano che siamo di fronte ad una delle opere più stimolanti e suggestive di tutta la letteratura italiana del dopoguerra.
Dice lo stesso Malaparte della sua opera: Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dello spettacolo dell'Europa in questi anni di guerra. Tuttavia, fra i protagonisti di questo libro, la guerra non è che un personaggio secondario. Si potrebbe dire che ha solo un valore di pretesto, se i pretesti inevitabili non appartenessero all'ordine della fatalità. In Kaputt la guerra conta dunque come fatalità. Non v'entra in altro modo. Direi che v'entra non da protagonista, ma da spettatrice, in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio. La guerra è il paesaggio oggettivo di questo libro.
Al di là delle maldicenze dei più invidiosi (l'invidia di chi sa di non poter competere con un'arte più sublime) Malaparte visse davvero in prima persona l'ultima guerra: in un primo tempo con il grado di capitano degli Alpini e in seguito, lavorando come corrispondente per il Corriere della Sera. Alla fine di marzo 1941 si spostò in Jugoslavia, dove fu l'unico corrispondente di guerra straniero al seguito delle truppe tedesche.
Kaputt proprio questo racconta: in un clima spesso mondano (Malaparte era ben 'visto' da molte personalità politiche dell'epoca ed aveva la possibilità di frequentare i bei 'salotti' del tempo e le residenze di alcuni eminenti capi), lo scrittore, di fronte allo sconquasso della guerra e delle tragedie umanitarie, si lascia andare a considerazioni politiche di tutto rispetto (ne enumereremo alcune) e ai racconti, quasi sempre di una partecipazione commovente ed emotivamente insopportabili (nel senso che è si fa fatica a contenere l'emozione), che tracciano un quadro indimenticabile (qualcuno, sempre a corto di argomenti pensiamo noi, ha parlato di autocompiacimento. Lo dice anche Giordano Bruno Guerri nel suo libro, ma non vorrei che questa sorta di 'appagante estetismo' di Malaparte non dipendesse dal fascino e dall'elan che lo scrittore stesso si portava dietro, per via di un'innata predisposizione all'eleganza) degli anni che vanno dal 1941 al 1944.
Sin dall'inizio si avverte un clima plumbeo e foriero di sventure: poco prima della guerra, in un incontro col principe di Piemonte a Capri, Malaparte scrive: Non v'era più nulla di puro, più nulla di veramente giovane, ormai in Italia. C'era come il segno di un destino comune, nelle rughe, nella calvizie precoce, nella pelle morta di quel giovane principe.
In quegli anni lo scrittore ha già saltato il fosso: nel senso che avverte già chiaramente il declino del sogno mussoliniano (ma non solo quello, ma credo la fine di tutto l'armamentario fascista), pur essendo stato da giovane entusiasta 'ideologo' del regime (partecipò alla marcia su Roma del '22) e sostenitore di un agghiacciante 'squadrismo intransigente' soprattutto dopo l'assassinio di Matteotti.
La sua prospettiva politica gli permette, in vari passi del libro, di affrontare tematiche che sono state per molti anni patrimonio anche della storiografia più clarata.
Pensiamo ai rapporti tra il Papa e Mussolini a proposito dello 'svezzamento' della gioventù e dello scontro tra regime ed Azione Cattolica: Quando nasce un italiano, Mussolini lo prende sotto la sua protezione: prima lo affida a un asilo d'infanzia, poi lo manda a scuola, più tardi gli insegna un mestiere, quindi lo iscrive al partito fascista e lo mette a lavorare, fino all'età di vent'anni. A vent'anni lo chiama sotto le armi, lo tiene due anni in caserma, poi lo congeda, lo rimette a lavorare, e non appena è maggiorenne gli dà moglie: se gli nascono dei bambini, ripete ai figli il trattamento che ha già fatto al padre. Quando poi il padre, divenuto vecchio, non può più lavorare e non serve più a nulla, lo manda a casa, gli da una pensione e aspetta che muoia. Finalmente, quando è morto, Mussolini lo consegna al Papa perché ne faccia quel che gli pare.
Pensiamo all'idea di Pio XII di preferire il nazismo al comunismo (sarebbe da approfondire quest'argomento visti i dibattiti che periodicamente s'intavolano sul discusso pontefice, e magari un'occhiata a quello che lo stesso Pio II pensava della bomba atomica... non guasterebbe mica).Durante una partita di cricket con un gerarca fascista (sta qui forse l'astio dei nemici di Malaparte? In questa sorta di appartenenza ad una confraternita del Male? Ma dài!), Franz Wachter afferma: Il clero polacco teme più i russi che i tedeschi, teme più i comunisti che i nazisti. Può darsi che abbia ragione. E in un dialogo rubato tra il ministro di Turchia Agah Aksel e il primo ministro rumeno Constantinide si legge: "Oggi a Vienna ci sono i nazisti" disse Constantinide. "Se si facessero cristiani ci rimarrebbero" disse Agah Aksel.
Pensiamo all'idea della crudeltà nazista: Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei.
Ma è sugli aspetti orrendi e mutilanti della guerra che Malaparte dà il meglio dal punto di vista letterario (e non capisco come si possa essere autocompiaciuti nel raccontare le tragedie di un mondo in disfacimento). Kaputt è diviso in capitoli ed ognuno di questi è titolato con nomi di animali: cavalli, topi, cani, uccelli, renne e mosche. Le parte migliori sono quelle dedicate ai cavalli: i cavalli delle terre finlandesi che, a causa di un inverno particolarmente freddo e del vento gelido che scende dal mare di Murmansk e per sfuggire gli eserciti nazisti, restano bloccati nel gelo con la testa fuori, come statuine da giardino: Nei giorni opachi dell'interminabile inverno, verso mezzogiorno, quando un po' di luce sbiadita piove dal cielo, i soldati del colonnello Merikallio scendevano dal lago, andavano a sedersi sulle teste dei cavalli. (...) La scena sembrava dipinta da Bosch.
I topi sono i bambini del ghetto di Varsavia che scavano buche nel terreno per poter fuggire dall'isolamento nella speranza di racimolare del cibo: "Dov'è il topo?" domandò Frau Brigitte Frank. "Achtung!" disse il soldato prendendo la mira. Dalla buca scavata ai piedi del muro fece capolino un nero ciuffo di capelli arruffati, poi due mani emersero dalla buca, si posarono sulla neve. Era un bambino.
Il colpo partì, ma anche questa volta fallì di poco il bersaglio. La testa del bambino scomparve.
"Dammi qua" disse Frank con voce impaziente "non sai neppure tenere un fucile in mano". Afferrò il fucile del soldato e prese la mira.
Nevicava nel silenzio.
Basterebbero queste poche frasi per rendere Kaputt una lettura indispensabile. E oltremodo suggestivo sarebbe affrontare la tematica animalista nell'opera di Malaparte: non soltanto, come abbiamo visto, i capitoli di quest'opera sono contraddistinti tutti dalla presenza di animali, ma c'è nel mondo dello scrittore pratese una sensibilità, al riguardo, fino ad allora sconosciuta ai più. Pensiamo a Febo, il cane tanto amato e pianto sul tavolo di un laboratorio di vivisezione ne La pelle che tornerà in un racconto di Sangue. Alla mamma nel racconto Madre che cerca il suo bambino (sempre Sangue) che scambia un cane per la propria prole, lo mette nella culla e nel tentativo di allattarlo si lascia mordere. O l'agghiacciante finale de Un giorno felice (sempre Sangue) dove viene ucciso un gatto. Il racconto vuole rappresentare una Italia littoria felice, ma proprio nell'apparente serenità del momento si nasconde la crudezza di una violenza che esplode improvvisa, macchiandosi di sangue innocente.
Kaputt, come dice lo stesso autore, sta tutto nel titolo: Lei conosce l'origine della parola kaputt? E' una parola che proviene dall'ebraico kopparoth, che vuol dire vittima. Il gatto è un kopparoth, è una vittima, è l'inverso di Sigfrido: è un Sigfrido immolato, sacrificato (il cerchio si chiude no?).
Vittima è il bambino russo che spara ai tedeschi durante la guerra di Russia. Alla domanda del gerarca nazista perché spara, risponde che lo sa già, non c'è bisogno di dirlo. Ascolta, non ti voglio far del male. Sei un bambino, io non fo la guerra ai bambini (...) Ascolta, io ho un occhio di vetro. E' difficile riconoscerlo da quello vero. Se mi sai dire, subito, senza pensarci su, quale dei due è l'occhio di vetro, ti lascio andar via, ti lascio libero.
"L'occhio sinistro" risponde pronto il ragazzo.
"Come hai fatto ad accorgertene?"
"Perché dei due è l'unico che abbia qualcosa di umano".
Vorremmo azzardare di più: con tutti i suoi errori e i suoi voltafaccia Malaparte è stato egli stesso vittima della sua straordinaria capacità di vedere e prevedere le cose. Forse nel titolo di questo libro 'obbligatorio' intravedeva la possibilità di essere frainteso: che le sue vicinanze alle stanze del potere, quelle sue 'liaisons dangereuses' potessero significare per i più condivisione se non addirittura complicità dei crimini raccontati.
Scriveva al suo amico Prezzolini in una lettera in cui confessava di stare male: Ma non si tratta di malattia soltanto: si tratta di schifo. Non sto a dirti quel che abbiamo passato. Una vera e propria caccia agli intellettuali, specie agli scrittori, organizzata da quei quattro cialtroni di intellettuali biliosi e di scrittorelli mancati, che anche sotto il fascismo, e per venti anni di seguito, non hanno fatto altro che romperci le scatole con denunzie, persecuzioni, calunnie sotterranee eccetera. E' gente che in vent'anni non ha mai arrischiato nulla, si è sempre guardata dal compromettersi in senso antifascista, nel migliore dei casi, non ha mai scritto due righe contro Mussolini eccetera ed oggi spera, o sperava, di toglierci di mezzo con la presunzione di poter prendere il nostro posto nelle lettere, presso il pubblico, nei giornali eccetera.
Malaparte, se fosse in vita, capirebbe subito che quegli anni non sono mai finiti e che questo è ancora il paese degli scrittorucoli e delle ideologie preconfezionate che hanno rovinato la cultura e l'idea di poter vedere semplicemente oltre.
Raccontava al gerarca fascista: Non sapete che i bambini ebrei non camminano? I bambini ebrei hanno le ali.
Dovrebbero averle anche i lettori per poter volare con Kaputt e lasciare ai più la mestizia di una letteratura resa esangue dal mercato e da un falso realismo di risulta (neo-neorealismo?).
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