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ATTUALITA'

Alfredo Ronci

L'anima tra vicariato e tornaconto

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Non sono un teologo, né ho fatto studi a riguardo e nemmeno sono un filosofo, ma tenterei di parlar di etica e religione a proposito di un articolo apparso sull'inserto La lettura de 'Il Corriere della Sera' in data 13 maggio 2012 e di un libro che ho appena finito di leggere: La macchina degli abbracci di Temple Grandin etologa di fama internazionale.

L'estensore dell'articolo apparso sul quotidiano, Francesco Cevasco, affronta il tema del 'corpo' del romanzo e si pone una domanda: perché non possiamo che scrivere da cattolici?

Specifica il Cevasco: prima di rispondere a questa domanda è necessario fare una premessa che ci liberi da una serie di pregiudizi che volentieri si accompagnano all'aggettivo "cattolico". Il romanzo "cattolico" non è un romanzo dei buoni sentimenti, non propugna una moralità o un certo tipo di moralità. Non ha niente a che fare con le vite dei santi, con l'agiografia. Per semplificare, il romanzo cattolico non è un romanzo in cui i protagonisti sono dei preti, ma è un testo che mette in risalto una discrasia tra ciò che è e ciò che si desidera.

Parte male, anzi malissimo: ma non si era già abbondantemente chiarito che non c'è una letteratura a compartimenti stagni, ma che esiste solo quella buona e quella cattiva (quella 'scritta' bene e quella da cani?)? Vogliamo tornare ancora sull'asserzione, tanto per fare un esempio, dell'esistenza di una letteratura omosessuale? (Raccapriccio!).

A tal proposito, visto lo stato di salute degli scrittori 'omosessuali' italiani, il concetto di Cevasco su cosa è il romanzo 'cattolico' s'adatta perfettamente alle loro opere, appunto un testo che mette in risalto una discrasia tra ciò che è e ciò che si desidera (ad essere maldicenti!).

L'estensore, per confutare la tesi, cita un gruppo di scrittori, Parazzoli, Mozzi, Dadati, Tonon, Valduga, Avoledo che secondo lui conferma l'assioma che il romanzo cattolico abbia una doppia e forte tensione, da una parte ad immaginare il mondo come sarà (la rivelazione finale) e dall'altra a fare i conti col mondo com'è, partendo dalla propria carne. E quest'ultima si ricompone al mistico perché il corpo è anche il corpo di Dio.

Personalmente non escludo che l'arte degli scrittori citati possa estrinsecarsi attraverso il rapporto col divino, ma davvero nell'opera di alcuni (Mozzi, per fare un esempio, che è quello che conosco meglio) non vedo siffatta tensione, che anzi, si manifesta con una materialità espressa ed anche ambigua.

Ma il problema non è l'autore (ne cito un altro: dov'è l'esperienza di Dio, e la sua scomparsa, in un romanzo come quello di Dadati - Piccolo testamento – Laurana editrice, dove l'elaborazione del lutto per la morte di una persona assai cara e vicina non si risolve in un'esperienza trascendentale, ma in un coacervo di sensazioni umanissime che sfiora anche la propensione omoerotica?), ma l'idea che lo scrittore sia uno strumento per la realizzazione di non umane sorti. Se no come prendere seriamente un'altra affermazione di Cevasco in cui dice che il romanzo cattolico è l'elaborazione di un trauma profondo, il trauma di una mancata promessa ovvero quella della seconda venuta di Cristo?

Non mi capacito di questa sorta di vicariato affannoso verso una realizzazione di piani e promesse appunto: forse perché il contraltare potrebbe significare, come per certi versi è, un narcisismo esasperante che lacera ogni legame con il mondo circostante e quindi prima con Dio e poi con la Storia?

Il libro La macchina degli abbracci di Temple Grandin (Adelphi) mi suggerisce un'altra conclusione, completamente diversa dall'aura 'dolorosa' e pastorale del romanzo 'cattolico.

Etologa di fama internazionale, come si diceva, ed autistica, lavora come consulente per le grandi industrie della carne. Avendo un rapporto privilegiato con gli animali, perché, dice, gli autistici e questi ultimi vedono cose che gli 'umani' non scorgono, t'aspetteresti un discorso più sensato sull'etica. Macché. Sulla sperimentazione sugli animali afferma: Non approvo l'uso di animali nella sperimentazione, a meno che non ci sia la prospettiva di ricavarne qualcosa di straordinariamente importante. Se si usano gli animali per scoprire una cura contro il cancro, allora è diverso, soprattutto perché in seguito anche loro potranno beneficiare dei frutti di quelle ricerche.

Una sorta di agghiacciante scarica-barile di responsabilità dell'etologa famosa, nonché discorso curiosamente contraddittorio. E mi chiedo ancora una volta: ma se non ci fossero stati gli animali cosa avrebbero fatto questi sedicenti esperti di malattie e sperimentatori?

Il punto però è un altro e lo si capisce alla perfezione quando la Grandin affronta il problema reale della sua condizione: quella di consulente. Dice: Oggi gran parte del mio lavoro consiste nel cercare di garantire agli animali d'allevamento una macellazione umana.

Straordinario ossimoro quello della scrittrice: perché verrebbe da chiedersi cosa c'è di umano, di etico, nella macellazione. Ma alla base del discorso di un tentativo più 'cristiano' di alleviare le sofferenze di quelle creature c'è che l'eventuale stress è un fattore terribilmente negativo ai fini del profitto.

Ecco dunque il quibus e la liaison tra vita e scrittura: da una parte abbiamo un 'romanzo' cattolico che relega le sue aspettative ad una dimensione non umana e dall'altra abbiamo una società che realizza i suoi profitti con comportamenti disumani. E dove in ambedue i casi l'arte sembrerebbe realizzarsi attraverso la sospensione di una coscienza che predilige la sostituzione ed il profitto.

Ripeto: non vorrei che un piano b di questa stagnante ed angosciante situazione fosse il ricorso ad un narcisismo e ad un autocompiacimento delle proprie capacità. Suggerirei ad eventuali detrattori che l'alternativa potrebbe essere quello di un laicismo austero, ma non vanitoso, che prediliga la responsabilità di ognuno nel rispetto di altri.

Che poi mi sembra un discorso 'pericolosamente' vicino all'anima (ma 'animali' non deriva da ciò?).







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