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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Gualersi

L'arco e la freccia (novembre 1936 – settembre 1938)

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L'odore del mare gli entrava salato nel naso. Ma forse era solo un'impressione. Un'allucinazione dovuta alla fatica. Ormai Florindo ce l'aveva quasi fatta. Ancora pochi metri, forse dieci, forse ancora meno: era alla fine. Tra poco, dopo qualche poderosa pedalata, sarebbe riuscito a passare il traguardo: quel fragile nastro da distruggere col corpo, il panno bianco su cui erano scritti il nome della gara e una parola francese (che probabilmente significava "arrivo") legato tra due alti pali, sopra la testa della folla che era diventata sempre più numerosa man mano che si avvicinava alla fine della corsa. Pestava furioso sui pedali della bicicletta, come se ad ogni colpo che dava col piede avesse voluto spaccare una pietra. Soffiava dalle narici come un toro. Ad ogni respiro i polmoni si gonfiavano da scoppiare, ma l'aria sembrava avere sempre più difficoltà ad entrare; ad ogni respiro credeva di sentire l'odore del mare, della folla, del sudore; ad ogni respiro sentiva l'odore che lascia sul corpo una lunga corsa. Florindo masticava in bocca un sapore amaro, di fatica e succhi gastrici; gli occhi registravano le immagini del mondo che lo circondava in modo confuso, come un'illogica baraonda. La folla indistinta sfrecciava ai due lati come una lunga teoria di corpi confusi e sfocati. Florindo correva guidato unicamente da un pensiero: quello di correre e passare attraverso i due pali dell'arrivo. Gli altri ciclisti arrancavano lontani alle sue spalle. Alcuni, in cima alla lunga fila di biciclette, tentavano di ridurre il distacco, ma era ormai completamente inutile. Florindo avrebbe tagliato il traguardo tra una manciata di secondi. Ancora pochi metri. Ormai aveva vinto.

Vinceva con rabbia, calcava un piede dopo l'altro sui pedali, i muscoli delle gambe si contraevano come un doloroso fascio di cavi di metallo. La schiena in fiamme, non sentiva più il sedere sul sellino. Ogni centimetro del suo corpo era bagnato dal sudore, i vestiti appiccicati alla pelle. Ma Florindo si era scordato di essere fatto di carne, il dolore e la fatica della corsa erano come un'eco lontana. E un'eco erano anche gli odori, il sapore amaro che biascicava in bocca, le urla della gente. Per lui esistevano solo i due pali, con il nastro da tagliare: quel nastro, così fragile, era l'unica cosa che i suoi occhi riuscivano a distinguere nitidamente nel marasma della fine della corsa. La distanza si riduceva sempre di più, ormai stava per passare quell'arrivo, rabbioso e sbuffante, come una locomotiva.

Il sole stagnava nel cielo freddo di quel giorno di novembre del millenovecentotrentasei. La strada che stavano percorrendo i ciclisti era un lungo e largo nastro che portava direttamente al centro della città che era stata scelta come approdo di quella gara. I negozi, le porte degli edifici del centro erano coperti dalla folla berciante di persone che accoglievano gli atleti all'arrivo. Confusamente, imboccando il viale, Florindo aveva colto un campanile – o una torre, o qualcosa di simile – quella massa indistinguibile di facce, un vorticare denso di urla: questo era tutto ciò che era riuscito a percepire di quel luogo. La corsa era iniziata in Italia e finiva in Francia, appena fuori i suoi confini. Appena appena. Ma fuori. Fuori dal Paese di Benito.

Florindo pensava – i pensieri convulsi prima di tagliare il nastro – che la sua corsa era iniziata tanto tempo prima, al suo paese. Aveva cominciato a correre dentro di sé, solo, senza mai cercare gregari o compagni. Voleva pedalare via dalle braccia tese, dagli slogan ridicoli e da tutte le cose che doveva mandare giù per continuare a correre. Florindo pedalava via dal regime, via da Benito, via da tutto. A questo pensava quando montava in bicicletta; a questo pensava quando partecipava ad una gara; e questo pensò anche durante quella gara. Aveva corso campagne deserte e paesini, attraversato montagne e costeggiato il mare. E ora finalmente aveva davanti un traguardo. Florindo pensava, disordinatamente, che quell'arrivo era come la porta di un altro mondo.

Ancora un paio di pedalate, ancora due. Pestò il piede destro sul pedale con ancora più furore. Si sentiva lontano dal suo Paese, da tutto ciò che rappresentava e da tutta la sua vita. Lontano, come in un altro continente. Credeva sul serio di essere arrivato ad un traguardo di quella sua intima corsa. Intorno a lui si sentivano le urla dei francesi che lo maledivano e quelle degli italiani che erano affluiti dai dintorni per accogliere con il braccio teso i propri atleti. Florindo stava passando sotto le forbici di quelle braccia che salutavano romanamente la sua vittoria a testa china, incassata nelle spalle, gli occhi minacciosamente rivolti davanti a sé, con l'espressione truce del pugile che sta per sparare il colpo della vittoria. Le urla del pubblico, che crescevano d'intensità, penetravano distrattamente nel suo corpo come un liquido appiccicoso e denso, mescolandosi con i muscoli dolorosamente tesi; ma era come se non lo riguardasse.

Ancora una pedalata, solo una, avrebbe tagliato il nastro dell'arrivo. Nei polpacci, negli avambracci, sentiva il sangue come ribollire, un formicolio saliva su per le gambe e per le braccia. Il cuore era impazzito, batteva come se volesse esplodergli nel torace. Le dita strette sulla parte bassa del manubrio ricurvo avevano le nocche bianche; il sudore rendeva l'impugnatura scivolosa. Florindo piegò la schiena sulle corna d'ariete del manubrio e incassò sempre di più la testa tra le spalle, gli occhi guardarono la strada e non più il nastro davanti a sé: sembrava che si stesse rannicchiando sul sellino, raccogliendo tutte le sue forze per il colpo finale. Sentiva il vento investirgli la fronte, l'aria fredda che si scaldava a contatto con la pelle rovente. A Florindo, sin dal momento in cui lo aveva visto, sembrava che il traguardo si fosse messo in moto: erano quei due pali e il panno sospeso in aria che si stavano avvicinando, mentre lui, ormai insensibile e contratto nel massimo sforzo, credeva di essere fermo.

C'è un momento, dopo il dolore e la fatica, in cui il corpo umano diventa un'inutile appendice della forza di volontà. I muscoli sono tesi, come la corda di un arco. Il mondo intorno a Florindo non esisteva più. Vedeva solo la strada che scivolava sotto le ruote della bicicletta, così come le voci indistinte del pubblico scivolavano dalla sua fronte insieme al vento. Il nastro dell'arrivo era a meno di un metro, Florindo era l'unico in gara, l'unico al mondo in quel momento. Quell'istante si dilatava all'infinito, il tempo stesso non aveva più significato. La testa sprofondata tra le spalle, la schiena curva sul manubrio, il corpo ormai appiattito sulla bici; la gamba sinistra aveva scagliato il suo colpo ed era tesa in tutta la sua lunghezza, mentre il ginocchio della destra arrivava quasi a toccare il petto. Mancava solo una frazione di secondo all'arrivo, il traguardo lo stava per investire e le voci si fecero sempre più dense, come piene di gioiosa attesa per qualcosa d'inevitabile.

Florindo contrasse tutti i muscoli del corpo come se tirasse il grilletto di una pistola. Spostò il sedere indietro sul sellino. Raccolse tutta la sua forza nel piede destro e lo sparò sul pedale.

Le voci del pubblico divennero boato, il traguardo schizzò sopra la sua testa. Florindo strinse più forte il manubrio, la testa scattò in avanti, si alzò sul sellino della bici, scagliò un altro colpo sul pedale sinistro e continuò a correre, percorse tutto il viale, girò a sinistra, scomparve clandestino in Francia, morì in Spagna un giorno di settembre, due anni dopo, ad Albacete, durante la Guerra Civile; morì combattendo Franco.







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