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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Daniele Garbuglia

L'uso del coltello

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Rosse, verdi, gialle, qualcuna anche blu, ma soprattutto di plastica rosse e di legno.



Si erano conosciuti anni prima a una festa di capodanno a Macerata, in un ristorante dove lavorava il fratello di lui. Si erano conosciuti e si erano piaciuti subito. Lui ancora studiava a Bologna, all'Università. Lei invece aveva finito da poco le superiori e lavorava come ragioniera in una fabbrica di strumenti musicali a Castelfidardo. Si erano frequentati per qualche mese così, senza impegno, "per conoscersi", ma era chiaro che si erano piaciuti da subito e che la loro storia avrebbe avuto un futuro.

Lui, finita l'Università, aveva vinto un dottorato di ricerca in estetica a Torino. Guadagnava poco ma quel poco gli bastava per le poche spese che aveva e soprattutto restava nell'ambiente universitario, cosa a cui teneva molto. Lei era molto orgogliosa del suo fidanzato, che stava facendo una carriera e che era molto apprezzato. Ogni tanto pubblicava anche un saggio su riviste specializzate e a lei questa cosa piaceva un sacco. Vedere scritto su un libro il nome del suo fidanzato, quei capelli, quella faccia, quelle labbra che poteva baciare quando voleva, la riempiva di gioia. Vivevano tutti e due a R*, un paese di provincia in collina, a pochi chilometri dal mare e dalle montagne. Pensavano spesso al matrimonio, al futuro insieme. Con i soldi del dottorato e con i risparmi di lei comprarono un piccolo appartamento in periferia, una zona costruita di recente, con palazzine di tre o quattro piani, né belle né brutte, dove vivevano tante famiglie giovani.



La segretaria dello studio legale fa avanti e indietro da una stanza all'altra con i fogli degli elenchi in mano, aggiornando di volta in volta le modifiche.



Si sposarono un sabato di settembre, una giornata splendente e chiara. La notte prima c'era stato un temporale che aveva spazzato via l'ultimo caldo torrido dell'estate, il cielo era azzurro e l'aria fresca. Si erano sposati a San Firmano, all'Abbazia. Non c'era molta gente, qualche amico, pochi parenti, i genitori commossi, soprattutto la mamma di lei , ma nell'insieme fu una bella festa. Davanti all'Abbazia, in aperta campagna con poche case vicino, c'erano delle oche bianche che facevano una specie di balletto attraversando il prato verde. Andarono in viaggio di nozze sulla Costa Azzurra e passarono dei giorni da sogno.

Anche i primi anni furono da sogno, si amavano ed erano felici. Ogni volta che si lasciavano, anche per poche ore, erano ansiosi di rivedersi. Ora lui aveva vinto un posto come ricercatore a L'Aquila per cui era costretto a trascorrere a malincuore qualche notte lontano da sua moglie. E così per i primi quattro anni. Non avevano ancora figli, ma nei loro progetti, nei progetti di lei soprattutto, ce ne dovevano essere molti.

Poi un giorno a fine luglio, tornando in macchina dalle vacanze in Sardegna che avevano desiderato per tutto l'anno, qualcosa tra loro si incrinò in modo irrimediabile. Da lì a poco avviarono le pratiche di separazione.

Davanti agli avvocati, a quello scelto da lei e quello scelto da lui, ci furono scene tristi. Passarono molto tempo a stilare liste con gli oggetti che avevano in comune, partendo dai regali del matrimonio fino agli acquisti fatti insieme. Erano arrivati alla fine del quarto foglio quando si ricordarono che non avevano conteggiato le mollette per stendere i panni. «Senti, non essere ridicolo, queste le prendo io, che ci fai tu?» aveva detto lei sorridendo con un sorriso a mezza bocca, tirato. Era troppo intelligente per non capire la figura meschina che stavano facendo davanti all'avvocato. «Neanche per sogno» era stata la risposta, secca, irritata, «abbiamo diviso tutto e dividiamo anche queste. Non è il valore delle cose, è il principio che conta». E così erano andati avanti per ore elencando tutti gli oggetti che avevano in casa: il videoregistratore, la televisione, lo stereo, la segreteria telefonica... La segretaria batteva la lista al computer e ogni tanto la stampava per farla rileggere. Mancava sempre qualcosa, anche stupida, ma mancava. Avevano passato ore intere a compilare quell'elenco, davanti all'avvocato, perché da soli si sarebbero scannati. A quegli incontri arrivavano uno alla volta tesi, nervosi, salutavano appena la segretaria e si sedevano davanti all'avvocato. Stavano lì per ore, pomeriggi interi a rinfacciarsi, davanti a ogni oggetto che inserivano nell'elenco, le cose che non avevano funzionate tra loro.

«Fortuna che non hanno avuto figli» ripeteva sempre la madre di lei con suo marito, «fortuna». Era diventata la sua fissazione, l'unica cosa positiva che vedeva in quella che per lei aveva i caratteri di una vera e propria tragedia. «Erano così felici» ripeteva al marito, seduti in tinello davanti al televisore acceso, ma era chiaro che parlava a se stessa mentre ripensava a che cosa non avesse funzionato in quel matrimonio.

La segretaria dell'avvocato, una che di storie ne aveva viste tante, non riusciva a spiegarsi l'accanimento che vedeva in quei due giovani sposi. Anche lei ne parlava al marito, la sera, davanti al televisore acceso, ma lui preferiva vedere la partita o qualche balletto e lasciarla sfogare da sola. Girava ogni tanto con la testa, diceva «davvero?», o «ma dai» ma per il resto non levava gli occhi dallo schermo.



Erano rimaste appese al filo di nylon nel balcone della cucina, rosse, verdi, gialle, qualcuna anche blu, ma soprattutto di plastica rosse e il vento, quando soffiava forte, le faceva dondolare.





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