RACCONTI
Marco Lanzòl
La guerra (innocente) di Mario
C'era una volta la Libreria Rizzoli, a Roma. Nella Galleria Colonna, a due passi da Montecitorio. Adesso, al posto suo c'è una rivendita di stracci firmati - tanti negozi romani han fatto quella fine. A riscattare la Caporetto, s'è insediata, in quella che ora è la Galleria Alberto Sordi - chiusa da porte a vetri per impedire ai barboni di dormirci, ricordando che in Italia i poveri sono matti, e preferiscono accucciarsi per terra piuttosto che scendere allo Sheraton -, l'ennesima Feltrinelli. Megastore, ovviamente: fornita cioè di cd, dvd, e tutta l'annessa e connessa panòplia multimediale che rinfìca l'umanità zebedea. Non mi pare di aver notato libri in edizione originale: ma a ciò supplisce la Feltrinelli Internèscional a via Vittorio Emanule Orlando, rivendita che può vantare il singolare primato di avere il commesso più stronzo d'Italia - inutile dire chi sia, basta una frequentazione e s'individua subito. Da solo, vale il viaggio: e però bisogna dire che è tradizione delle Feltrinelli di avere dirigenti o addetti - da questo punto di vista, notevolissimi. Qualche anno fa, dei gèni del marketing feltrinello ebbero l'idea di vendere i libri a peso: se ne compravi un chilo, sconto del dieci per cento. Chiesi a un pancottone dirigenziale se questo valeva per più chili, ricevendo come sarcastica risposta: "Essì, così a un certo punto io dovrei paga' a lei!" Inutile, da parte mia, fargli presente che, uno, stavo chiedendo se avevo diritto allo sconto del dieci per cento anche se acquistavo due o tre chili di roba (cioè: non solo sul primo chilo, ma il dieci per cento sull'intera spesa oltre); e, due, che se compravo una chilata di libri con lo sconto, uscivo, li mettevo nel bagagliaio della macchina, rientravo, ne compravo un altro chilo, e così via, mi avrebbero fatto sempre lo sconto del dieci per cento. Macché. Ogniqualvolta tentavo di spiegargli che tagliare il dieci per cento su tre chili di libri acquistati in tre occasioni diverse, e togliere il dieci per cento su tre chili di libri acquistati in una sola occasione era la medesima cosa, lui ripeteva, ridacchiando, la sua frase-mandala: "essì, così a un certo punto io dovrei paga' a lei!" E non ci fu verso.
Forte d'éste pregresse esperienze (delle quali referto, convinto siano preziose per il Lettore - così come sulle guide turistiche appaiono luoghi censurati dalla sigla AT YOUR OWN RISK (*)) , mi disbrigo a contar su la cerimonia tenutasi nell'ipogeo del sunnominato spaccio librario. Premessa: Mario Fortunato è uno scrittore serio. Può piacere o non piacere, può financo annoiare: ma non è lecito negargli un talento e uno stile rari in Italia, severi senza essere rinsecchiti. La sua è arte del togliere, aristocratica - ma priva di quello snobismo che alla lunga infastidisce, come certifica quello che a me pare il suo scritto meglio imbastito (assieme al primo) e più scoperto, Amori, romanzi e altre scoperte (Einaudi).
Ebbene: fortificato da tali premesse, mi reco in Feltrinelli sotterranea, ove si dà l'incontro. La sala neoclassica, a pianta a cerchio, espone di quelle colonne che dai capomastri sono dette "a cazzo infasciàto": ornamentali, non già utili. Anzi, qui dannose, giacché copriranno la vista del minuscolo palcoscenico. Arrivo una ventina di minuti prima dell'orario, e la saletta e le sue adiacenze sono già colme: il pubblico è in prevalenza femminile - notevole la fauna di squinziette e frocìlli (uno, nemmeno ventenne, alle spiritosaggini d'una sua coetanea ride mostrando la sola arcata superiore, e, per colmo di "cool", talvolta spinge fuori la punta della lingua rosa-girello di vitella). Sono le richiamate dal roscio Colin, presumo: sebbene talune brandiscano e squadernino una copia del romanzo - immagino chiedendosi da dove s'introduca la ricarica. Infatti, alla comparsa fugace dello svettante attore, e della coppia di letterati in minore, entrano in azione i videofonini, le videocamere, le macchinette digitali. Ma è una falsa partenza: i due assi a briscola della serata svicolano lungo le bianche pareti guarnite di quadri che dondolano alla minima pulsione (ma non potevano toglierli?), e raggiungono l'adiacente settore librario del sottopiano, munito di cospicue scaffalature e però di spazio sufficiente ai fotografi accreditati, ai giornalisti, e a un cameramen, per eternare i Nostri. Dopodiché, nuova transumanza: la terna secca che avrebbe tenuto banco per la serata s'infiltra nella folla, raggiungendo il tavolo sul rialzo che fa da sede all'happening. E anche qui, proseguono i convenevoli - tant'è che risolvo di tornarmene a pianterreno, in attesa che gli ospiti si decidano a fare attenzione al pubblico.
Quando torno, impagabilmente mi sono perso la lettura in duetto delle pagine del romanzo ove l'italico protagonista dibatte con Alistair, un aviere RAF - ragione, si crede, della presenza in sito del decorativo attore. E sono a mezzo della sommaria spiega che la Rasy - che dal mio posto arretrato audio, ma non video (maledette colonne!) - va facendo della trama. Esaurita la quale, la Nostra Buona si determina in commenti originali - accompagnati da rumori di fondo, trilli di telefonini, piccole chiacchiere: "La prima, è un'osservazione veramente molto personale (...) mi aveva molto colpito (...) la velocità di crociera nella lettura che mi aveva impresso il suo libro. Questo non è un libro giallo, fortunatamente, non è uno dei tanti noir che ci piovono addosso da tutte le parti, ma c'è un grande pathos, una grande suspence psicologica... è come se noi avessimo in mano una matassa che si avvolge, si aggroviglia, si sgroviglia, e non potessimo staccarcene, perché man mano che leggiamo, nel tempo magico della lettura che ci fa dono di uscire da noi stessi, come tante volte è stato detto dai lettori, anche più importanti di me, abbiamo l'impressione che quel nodo, che quelle vite siano più importanti delle nostre, quindi questo è un romanzo che si prende e non si lascia, ci si cade dentro. L'altra cosa che voglio dire, ecco, che tipo di romanzo è?... Mah, diciamo che i protagonisti (...) noi li cogliamo nella giovinezza, comunque (...) in quell'età di incertezza che separa il passaggio dalla giovinezza all'età adulta. Dunque è un romanzo di formazione (...) che è tanto più incisiva poiché (...) i tumulti di questo rito di passaggio (...) coincidono con i tumulti della guerra... e questo monte Soratte (**) (...) diventa un po' io credo una montagna magica (...). Dunque c'è questa formazione, ma è una formazione di tipo particolare... intanto perché, non dovete pensare che, sebbene ci siano dei fatti storici, delle date storiche, ci sia soltanto una geografia una cronologia di guerra. C'è invece una geografia e una cronologia delle passioni che non risulta affatto sminuìta (da quelle della guerra, N.d.R), ma anzi ne risulta accentuata, e quasi ancora più segnata, più incisa. Io ho pensato, leggendo questo libro, (...) subito a un libro a me molto caro, e che è Una questione privata di Fenoglio (...). Perché siamo sempre in questa guerra (...) e anche lì c'è l'intrecciarsi delle emozioni profonde della guerra con una profonda emozione personale. In questo caso ci sono tante "questioni private" che si intrecciano, mentre tutti sono travolti dalla grande questione della guerra, e però questa formazione che si delinea è una formazione un po' particolare, perché non è semplicemente la costruzione di un'identità secondo un ideale, secondo un dovere, oppure secondo una responsabilità che gli eventi compongono... è anche questo (...) ... ma è soprattutto la formazione attraverso la scoperta di una verità interiore profonda, che la guerra, e i suoi eventi tumultuosi, come un reagente chimico esibisce davanti agli occhi di questi personaggi... ognuno di loro, in questo torno di tempo che va dal Trentotto al Quarantaquattro si formerà, si formerà o si deformerà per la vita futura, ma soprattutto entrerà in contatto... e questa è, nel bene e nel male, la formazione vera... con una verità interna, profonda, che non sapeva di avere, che forse non avrebbe voluto conoscere, ma che a quel punto deve riconoscere... questa è la storia che Fortunato racconta... (...) (non ricostruendo la storia, ma interrogandola. N.d.R.)... perché nella storia vi sono tanti segreti, tanti cunicoli, come nel Soratte, che chiedono di essere illuminati. Io ho pensato un po', leggendo questo romanzo, a quelle luci fosforescenti che si vedono nei telefilm (polizieschi), e che (...) rivelano delle presenze, dei movimenti che con la luce normale non avremmo visto. Quello che (si) scopre (...) è la grande talpa al lavoro, (...) la grande talpa della vita, che, in qualche modo, perfora (la storia, N.d.R.) mentre la costruisce e la incarna".
Stimolato dalle riflessioni e dalle domande della Rasy sulla fonte della sua ispirazione, sulla pluralità degli agonisti nel romanzo, e sul suo rapporto con la storia, Fortunato (in volto sempre più simile a Veltroni, per gli istanti che mi è dato vederlo al di là delle colonne) a questo punto con la sua voce curiale considera: "In effetti quando uno scrive un libro non sa perché lo scrive... e è una cosa sempre molto eccitante scoprire attraverso le letture di altri (...) quei nessi o quelle sfumature o quegli elementi che sono passati nel testo, senza che tu potessi progettarlo. Il tema della storia, e del rapporto con la memoria, è arrivato per successive sedimentazioni... sono partito dal tema della guerra, ecco... quando ho cominciato a pensare a questo libro, abitavo a Londra, e si parlava molto di quella che sarebbe stata la guerra in Iraq... e mi colpì molto, molto semplicemente, il fatto che gli inglesi, notoriamente inclini alla guerra... storicamente inclini alla guerra... e specularmente poco inclini a fare manifestazioni di piazza, invece improvvisamente facevano delle manifestazioni (...) enormi, che protestavano contro il proprio governo il quale annunciava che avrebbe appoggiato l'intervento americano in Iraq. Era come se improvvisamente la guerra si fosse riavvicinata... un tema che, per fortuna, era stato fuori dalla mia vita (...) improvvisamente in quelle settimane lì era come toccarla per mano (...) c'era tutto un clima... (...) così, nello stesso tempo, sono come riaffiorate memorie famigliari, racconti, vecchie storie di cose sentite (...) che riguardavano la seconda guerra mondiale. Tempo dopo sono ritornato in Italia, e caso vuole, diciamo così, che sia andato a vivere (...) in Sabina, nella zona dove questo romanzo comincia e dove si chiude. Lì la storia, il rapporto con la memoria è tornato vicino: (...) attorno al monte Soratte vi sono molte leggende che riguardano il tempo di guerra... c'è la leggenda di un tesoro nascosto nel Soratte, in uno dei cunicoli... chiacchiere, leggende, immagino che non ci sia nulla di vero (...) però ecco è ritornata dalla finestra diciamo la memoria, il rapporto col passato di questa guerra, e nel frattempo la guerra in Iraq era esplosa, era già diventata disastrosa, e anche in Italia c'era questo clima strano di partenze, (...) di dibattito, pacifismo (...). Questa è stata un po' la genesi, l'avvicinarmi a questo tema... per quel che riguarda invece il tema della coralità, dei tanti personaggi... beh, lì (...) ho scoperto una cosa semplice, - l'ombrello, l'acqua calda - (ma) assolutamente straordinaria: che quando non scrivi di te, scrivi moltissimo di te. Cioè, quando (...) la scrittura non è evidentemente autobiografica, anzi, la materia è lontana da te, è proiettata nella storia... stai parlando di un tempo, e di persone, che sicuramente non sono te, ecco curiosamente poi dentro a quel tempo, dentro a quelle persone, dentro a quei caratteri, trovi tantissimo di te stesso, e ti rendi conto che puoi molto più liberamente e felicemente fare dell'autobiografia, diciamo così, un po' paradossale, ma anche più lieta, più felice. Il problema dei tanti protagonisti (...) è stato anche lì un processo di filiazione (...).All'inizio pensavo francamente che questo Stefano (...) sarebbe stato (il principale) protagonista (...). E' successo immediatamente qualcosa che non mi aspettavo, e cioè la moglie, questa Eleonora, è morta (risate femminili - e squinzie, N.d.R.). Anche con dispiacere, perché mi era anche cara... questo ha creato subito un piccolo problema, che qualcos'altro emergesse, come dire che fosse accanto a quest'uomo, che gli désse spessore e profondità... è emersa Nina, un po' alla volta... e però Nina ha un carattere riottoso, infatti è innamorata in realtà di un ragazzo della sua stessa età (...)... ecco, un po' alla volta i personaggi si sono fatti anche un po' da sé, e hanno come reclamato (...) una loro autonomia (...) e rivelano con due o tre parole dette una cosa che tu autore non ti aspettavi, e che però diventa un'indicazione, dietro cui è curioso anche andare. In questo senso (...) i personaggi evidentemente erano rivendicativi, pretendevano una certa attenzione e una loro libertà (...). Alla fine, io mi sono trovato a fare i conti, con piacere del resto, con una storia che era sempre di più coscientemente corale".
A questo punto, Elisabetta Rasy nota la passionalità che percorre carsicamente il romanzo - ma c'è un trapestìo, conseguente al movimento di talune che fuoriescono dalla sala -, e emerge come scoperta del desiderio. Fortunato replica che ciò allude al tema della trasformazione che somiglia tutti gli attori del romanzo - "con elementi anche di pazzia", sottolinea l'Autore a proposito d'una figura femminile, staffetta partigiana. Metamorfosi che è interna alla grande trasformazione della guerra, con cui, varcando le proprie "linee d'ombra", ognuno deve fare i conti. Questo è il lato forte, drammatico, di tirare le somme col proprio desiderio: quello che porta al rispecchiamento dei due piani, privato e storia.
Proprio sulla storia - nel senso della narrazione, però -, va a parare la presentatrice, ponendo all'Autore il problema della necessità dell'intreccio. Con giudizio, Fortunato si rallegra di esser stato lontano dalla lagna italica, dove un intreccio salutare è consentito solo ai "noiristi": e aggiunge (testuale) che "lungi dall'essere morto o moribondo o in agonia, il romanzo è ancora un meraviglioso strumento di conoscenza e comunicazione, ed è una delle cose più piacevoli della vita, insieme forse a fare sesso... leggere, appunto...", cosa che nei paesi anglosassoni è data per scontata, generando un ambiente non depressogeno, più gioioso, che restituisce "una voglia e una fiducia nei confronti dell'intreccio, del racconto, e una voglia di farlo".
Di più, non so, siccome l'intervistato annuncia la lettura-traduzione di Firth, e quindi uscìi a riveder le stelle - inciampando, cado, e quasi mi spacco un menisco.
(*) it's (patient) english, you know;
(**) rilievo calcareo (m. 691, quindi un'alta collina) isolato a nord di Roma, sulla destra del Tevere.
Forte d'éste pregresse esperienze (delle quali referto, convinto siano preziose per il Lettore - così come sulle guide turistiche appaiono luoghi censurati dalla sigla AT YOUR OWN RISK (*)) , mi disbrigo a contar su la cerimonia tenutasi nell'ipogeo del sunnominato spaccio librario. Premessa: Mario Fortunato è uno scrittore serio. Può piacere o non piacere, può financo annoiare: ma non è lecito negargli un talento e uno stile rari in Italia, severi senza essere rinsecchiti. La sua è arte del togliere, aristocratica - ma priva di quello snobismo che alla lunga infastidisce, come certifica quello che a me pare il suo scritto meglio imbastito (assieme al primo) e più scoperto, Amori, romanzi e altre scoperte (Einaudi).
Ebbene: fortificato da tali premesse, mi reco in Feltrinelli sotterranea, ove si dà l'incontro. La sala neoclassica, a pianta a cerchio, espone di quelle colonne che dai capomastri sono dette "a cazzo infasciàto": ornamentali, non già utili. Anzi, qui dannose, giacché copriranno la vista del minuscolo palcoscenico. Arrivo una ventina di minuti prima dell'orario, e la saletta e le sue adiacenze sono già colme: il pubblico è in prevalenza femminile - notevole la fauna di squinziette e frocìlli (uno, nemmeno ventenne, alle spiritosaggini d'una sua coetanea ride mostrando la sola arcata superiore, e, per colmo di "cool", talvolta spinge fuori la punta della lingua rosa-girello di vitella). Sono le richiamate dal roscio Colin, presumo: sebbene talune brandiscano e squadernino una copia del romanzo - immagino chiedendosi da dove s'introduca la ricarica. Infatti, alla comparsa fugace dello svettante attore, e della coppia di letterati in minore, entrano in azione i videofonini, le videocamere, le macchinette digitali. Ma è una falsa partenza: i due assi a briscola della serata svicolano lungo le bianche pareti guarnite di quadri che dondolano alla minima pulsione (ma non potevano toglierli?), e raggiungono l'adiacente settore librario del sottopiano, munito di cospicue scaffalature e però di spazio sufficiente ai fotografi accreditati, ai giornalisti, e a un cameramen, per eternare i Nostri. Dopodiché, nuova transumanza: la terna secca che avrebbe tenuto banco per la serata s'infiltra nella folla, raggiungendo il tavolo sul rialzo che fa da sede all'happening. E anche qui, proseguono i convenevoli - tant'è che risolvo di tornarmene a pianterreno, in attesa che gli ospiti si decidano a fare attenzione al pubblico.
Quando torno, impagabilmente mi sono perso la lettura in duetto delle pagine del romanzo ove l'italico protagonista dibatte con Alistair, un aviere RAF - ragione, si crede, della presenza in sito del decorativo attore. E sono a mezzo della sommaria spiega che la Rasy - che dal mio posto arretrato audio, ma non video (maledette colonne!) - va facendo della trama. Esaurita la quale, la Nostra Buona si determina in commenti originali - accompagnati da rumori di fondo, trilli di telefonini, piccole chiacchiere: "La prima, è un'osservazione veramente molto personale (...) mi aveva molto colpito (...) la velocità di crociera nella lettura che mi aveva impresso il suo libro. Questo non è un libro giallo, fortunatamente, non è uno dei tanti noir che ci piovono addosso da tutte le parti, ma c'è un grande pathos, una grande suspence psicologica... è come se noi avessimo in mano una matassa che si avvolge, si aggroviglia, si sgroviglia, e non potessimo staccarcene, perché man mano che leggiamo, nel tempo magico della lettura che ci fa dono di uscire da noi stessi, come tante volte è stato detto dai lettori, anche più importanti di me, abbiamo l'impressione che quel nodo, che quelle vite siano più importanti delle nostre, quindi questo è un romanzo che si prende e non si lascia, ci si cade dentro. L'altra cosa che voglio dire, ecco, che tipo di romanzo è?... Mah, diciamo che i protagonisti (...) noi li cogliamo nella giovinezza, comunque (...) in quell'età di incertezza che separa il passaggio dalla giovinezza all'età adulta. Dunque è un romanzo di formazione (...) che è tanto più incisiva poiché (...) i tumulti di questo rito di passaggio (...) coincidono con i tumulti della guerra... e questo monte Soratte (**) (...) diventa un po' io credo una montagna magica (...). Dunque c'è questa formazione, ma è una formazione di tipo particolare... intanto perché, non dovete pensare che, sebbene ci siano dei fatti storici, delle date storiche, ci sia soltanto una geografia una cronologia di guerra. C'è invece una geografia e una cronologia delle passioni che non risulta affatto sminuìta (da quelle della guerra, N.d.R), ma anzi ne risulta accentuata, e quasi ancora più segnata, più incisa. Io ho pensato, leggendo questo libro, (...) subito a un libro a me molto caro, e che è Una questione privata di Fenoglio (...). Perché siamo sempre in questa guerra (...) e anche lì c'è l'intrecciarsi delle emozioni profonde della guerra con una profonda emozione personale. In questo caso ci sono tante "questioni private" che si intrecciano, mentre tutti sono travolti dalla grande questione della guerra, e però questa formazione che si delinea è una formazione un po' particolare, perché non è semplicemente la costruzione di un'identità secondo un ideale, secondo un dovere, oppure secondo una responsabilità che gli eventi compongono... è anche questo (...) ... ma è soprattutto la formazione attraverso la scoperta di una verità interiore profonda, che la guerra, e i suoi eventi tumultuosi, come un reagente chimico esibisce davanti agli occhi di questi personaggi... ognuno di loro, in questo torno di tempo che va dal Trentotto al Quarantaquattro si formerà, si formerà o si deformerà per la vita futura, ma soprattutto entrerà in contatto... e questa è, nel bene e nel male, la formazione vera... con una verità interna, profonda, che non sapeva di avere, che forse non avrebbe voluto conoscere, ma che a quel punto deve riconoscere... questa è la storia che Fortunato racconta... (...) (non ricostruendo la storia, ma interrogandola. N.d.R.)... perché nella storia vi sono tanti segreti, tanti cunicoli, come nel Soratte, che chiedono di essere illuminati. Io ho pensato un po', leggendo questo romanzo, a quelle luci fosforescenti che si vedono nei telefilm (polizieschi), e che (...) rivelano delle presenze, dei movimenti che con la luce normale non avremmo visto. Quello che (si) scopre (...) è la grande talpa al lavoro, (...) la grande talpa della vita, che, in qualche modo, perfora (la storia, N.d.R.) mentre la costruisce e la incarna".
Stimolato dalle riflessioni e dalle domande della Rasy sulla fonte della sua ispirazione, sulla pluralità degli agonisti nel romanzo, e sul suo rapporto con la storia, Fortunato (in volto sempre più simile a Veltroni, per gli istanti che mi è dato vederlo al di là delle colonne) a questo punto con la sua voce curiale considera: "In effetti quando uno scrive un libro non sa perché lo scrive... e è una cosa sempre molto eccitante scoprire attraverso le letture di altri (...) quei nessi o quelle sfumature o quegli elementi che sono passati nel testo, senza che tu potessi progettarlo. Il tema della storia, e del rapporto con la memoria, è arrivato per successive sedimentazioni... sono partito dal tema della guerra, ecco... quando ho cominciato a pensare a questo libro, abitavo a Londra, e si parlava molto di quella che sarebbe stata la guerra in Iraq... e mi colpì molto, molto semplicemente, il fatto che gli inglesi, notoriamente inclini alla guerra... storicamente inclini alla guerra... e specularmente poco inclini a fare manifestazioni di piazza, invece improvvisamente facevano delle manifestazioni (...) enormi, che protestavano contro il proprio governo il quale annunciava che avrebbe appoggiato l'intervento americano in Iraq. Era come se improvvisamente la guerra si fosse riavvicinata... un tema che, per fortuna, era stato fuori dalla mia vita (...) improvvisamente in quelle settimane lì era come toccarla per mano (...) c'era tutto un clima... (...) così, nello stesso tempo, sono come riaffiorate memorie famigliari, racconti, vecchie storie di cose sentite (...) che riguardavano la seconda guerra mondiale. Tempo dopo sono ritornato in Italia, e caso vuole, diciamo così, che sia andato a vivere (...) in Sabina, nella zona dove questo romanzo comincia e dove si chiude. Lì la storia, il rapporto con la memoria è tornato vicino: (...) attorno al monte Soratte vi sono molte leggende che riguardano il tempo di guerra... c'è la leggenda di un tesoro nascosto nel Soratte, in uno dei cunicoli... chiacchiere, leggende, immagino che non ci sia nulla di vero (...) però ecco è ritornata dalla finestra diciamo la memoria, il rapporto col passato di questa guerra, e nel frattempo la guerra in Iraq era esplosa, era già diventata disastrosa, e anche in Italia c'era questo clima strano di partenze, (...) di dibattito, pacifismo (...). Questa è stata un po' la genesi, l'avvicinarmi a questo tema... per quel che riguarda invece il tema della coralità, dei tanti personaggi... beh, lì (...) ho scoperto una cosa semplice, - l'ombrello, l'acqua calda - (ma) assolutamente straordinaria: che quando non scrivi di te, scrivi moltissimo di te. Cioè, quando (...) la scrittura non è evidentemente autobiografica, anzi, la materia è lontana da te, è proiettata nella storia... stai parlando di un tempo, e di persone, che sicuramente non sono te, ecco curiosamente poi dentro a quel tempo, dentro a quelle persone, dentro a quei caratteri, trovi tantissimo di te stesso, e ti rendi conto che puoi molto più liberamente e felicemente fare dell'autobiografia, diciamo così, un po' paradossale, ma anche più lieta, più felice. Il problema dei tanti protagonisti (...) è stato anche lì un processo di filiazione (...).All'inizio pensavo francamente che questo Stefano (...) sarebbe stato (il principale) protagonista (...). E' successo immediatamente qualcosa che non mi aspettavo, e cioè la moglie, questa Eleonora, è morta (risate femminili - e squinzie, N.d.R.). Anche con dispiacere, perché mi era anche cara... questo ha creato subito un piccolo problema, che qualcos'altro emergesse, come dire che fosse accanto a quest'uomo, che gli désse spessore e profondità... è emersa Nina, un po' alla volta... e però Nina ha un carattere riottoso, infatti è innamorata in realtà di un ragazzo della sua stessa età (...)... ecco, un po' alla volta i personaggi si sono fatti anche un po' da sé, e hanno come reclamato (...) una loro autonomia (...) e rivelano con due o tre parole dette una cosa che tu autore non ti aspettavi, e che però diventa un'indicazione, dietro cui è curioso anche andare. In questo senso (...) i personaggi evidentemente erano rivendicativi, pretendevano una certa attenzione e una loro libertà (...). Alla fine, io mi sono trovato a fare i conti, con piacere del resto, con una storia che era sempre di più coscientemente corale".
A questo punto, Elisabetta Rasy nota la passionalità che percorre carsicamente il romanzo - ma c'è un trapestìo, conseguente al movimento di talune che fuoriescono dalla sala -, e emerge come scoperta del desiderio. Fortunato replica che ciò allude al tema della trasformazione che somiglia tutti gli attori del romanzo - "con elementi anche di pazzia", sottolinea l'Autore a proposito d'una figura femminile, staffetta partigiana. Metamorfosi che è interna alla grande trasformazione della guerra, con cui, varcando le proprie "linee d'ombra", ognuno deve fare i conti. Questo è il lato forte, drammatico, di tirare le somme col proprio desiderio: quello che porta al rispecchiamento dei due piani, privato e storia.
Proprio sulla storia - nel senso della narrazione, però -, va a parare la presentatrice, ponendo all'Autore il problema della necessità dell'intreccio. Con giudizio, Fortunato si rallegra di esser stato lontano dalla lagna italica, dove un intreccio salutare è consentito solo ai "noiristi": e aggiunge (testuale) che "lungi dall'essere morto o moribondo o in agonia, il romanzo è ancora un meraviglioso strumento di conoscenza e comunicazione, ed è una delle cose più piacevoli della vita, insieme forse a fare sesso... leggere, appunto...", cosa che nei paesi anglosassoni è data per scontata, generando un ambiente non depressogeno, più gioioso, che restituisce "una voglia e una fiducia nei confronti dell'intreccio, del racconto, e una voglia di farlo".
Di più, non so, siccome l'intervistato annuncia la lettura-traduzione di Firth, e quindi uscìi a riveder le stelle - inciampando, cado, e quasi mi spacco un menisco.
(*) it's (patient) english, you know;
(**) rilievo calcareo (m. 691, quindi un'alta collina) isolato a nord di Roma, sulla destra del Tevere.
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