RACCONTI
Alex Pietrogiacomi
La raccolta
Dedicato a Carla
Aveva iniziato da poco a raccogliere tutti i frammenti sparsi sul pavimento increspato dei colori del giorno.
Ogni piccolo coccio, pezzo, sapeva di un attimo durante il quale il respiro resta sospeso a metà tra gli occhi sgranati e il corpo proteso in avanti.
Ogni piccolo coccio, pezzo era di un'importanza necessaria per ricostruire.
Cercava sotto ogni angolo possibile e trovava schegge che si infilavano dispettose sotto le unghie, quasi a voler far sanguinare quelle dita che avevano commesso il peccato di sfiorare. La mano si ritraeva e poi la lingua asciugava il bagno di pizzichi che lasciava il corpuscolo tolto e subito conservato nel palmo. Cauto palmo. Attento palmo.
I pezzi più grandi erano quelli più semplici da vedere, da sollevare, ma anche quelli che creavano più danno, che destabilizzavano di più. Sembravano sempre sul punto di spaccarsi a metà, nel centro, per ricadere e lasciare che la scelta di un soffio decidesse quale salvare. E si rompevano a metà. Cadevano sui piedi. Sciocchi piedi che non si erano mossi quando necessario, che avevano lasciato che le catene dell'esistenza quotidiana gli impedissero di conoscere con la pianta nuda la terra umida di attesa
Era al centro della stanza e lei guardava con la bocca chiusa. Le labbra tumefatte di silenzio. Attorno a lui le parti frantumate sembravano guardarsi, ridere, fare l'amore e moltiplicarsi.
I palmi delle sue mani, cauti palmi, attenti palmi, faticavano e si graffiavano. Fiumiciattoli rossi si riformavano in letti che erano aridi da tempo. E lui guardava le rive di nuovo bagnate.
Raccogliere. Conservare. Ricostruire. Amare. Ogni piccola molecola doveva essere riavvicinata a quella compagna che aveva perso nell'attimo in cui aveva chiuso gli occhi e riaprendoli aveva visto tutto vacillare dal suo palmo. Distratto palmo. Debole di promesse capovolte.
Sul tavolo massiccio si ricomponeva a fatica, con il caldo dell'estate che entrava sotto i vestiti a languire la pelle con la promessa di giorni di sabbia, il manufatto. Il vaso. Quel vaso al cui interno erano scritte le parole. I fatti. I sogni. Gli incubi. "Perché?". "Scema". "Idiota". "Balbuziente". "Risate". "TI amo". "Io sono ...". "Questo è il mio segreto ...", "Solo", "Anni senza nessuno".
L'interno di ogni pezzo era un tassello firmato da milioni di ore passate da soli o tenuti per mano. Ma solo per un po' forse. Ogni tassello era carne che urlava e carne che ascoltava, copriva, riscaldava, calmava. Carne che diventava finalmente carne. E, amara realtà, carne che non riusciva più a ricordare a chi apparteneva dal principio.
Lei osservava ferma. Il caldo della notte e dei pomeriggi si mescolava con l'attento volto di lui fisso sul vaso che riprendeva forma. Che lentamente cominciava a stare di nuovo in piedi.
Aveva appena preso il pennello. Per coprire i segni del rumore che aveva stordito le orecchie e il cuore. Lento. Passare il pennello lentamente significava entrare in profondità, riempire le crepe e dare una nuova consistenza.
Passò il tempo. L'Estate piangeva la mancanza di attenzione di lui e la stoica fermezza di lei e amareggiata sbuffava sulla pelle calda.
Lui aveva finito. Appena possibile aveva guardato il vaso tra i palmi delle sue mani, segnati palmi, incrostati di lavoro e sangue e sporco e sudore e attenzione. Cauti palmi. Amorevoli palmi.
Si era appena girato per mettere a posto il figlio ritrovato, nello spazio del suo mobile. E lo spazio era troppo piccolo. Provò con più attenzione. Magari aveva sbagliato a mettere insieme i pezzi. No. Non entrava.
Allora si buttò in ginocchio con il vaso in grembo e pianse. E sorrise. Ma sorridendo piangeva ancora più forte.
Aveva avuto la forza di avvicinarsi ai suoi piedi. Di starle davanti al grembo.
Sollevò i palmi e il loro tesoro. Lei lo prese e sparì tra le forme giuste del suo corpo, incastonandosi perfettamente. Il suo posto. Si avvicinavano le labbra bagnate di lui a lei : "Ecco. Ti prego, frantuma l'Addio".
Lei schiuse i gusci fermi della bocca e ...
Aveva iniziato da poco a raccogliere tutti i frammenti sparsi sul pavimento increspato dei colori del giorno.
Ogni piccolo coccio, pezzo, sapeva di un attimo durante il quale il respiro resta sospeso a metà tra gli occhi sgranati e il corpo proteso in avanti.
Ogni piccolo coccio, pezzo era di un'importanza necessaria per ricostruire.
Cercava sotto ogni angolo possibile e trovava schegge che si infilavano dispettose sotto le unghie, quasi a voler far sanguinare quelle dita che avevano commesso il peccato di sfiorare. La mano si ritraeva e poi la lingua asciugava il bagno di pizzichi che lasciava il corpuscolo tolto e subito conservato nel palmo. Cauto palmo. Attento palmo.
I pezzi più grandi erano quelli più semplici da vedere, da sollevare, ma anche quelli che creavano più danno, che destabilizzavano di più. Sembravano sempre sul punto di spaccarsi a metà, nel centro, per ricadere e lasciare che la scelta di un soffio decidesse quale salvare. E si rompevano a metà. Cadevano sui piedi. Sciocchi piedi che non si erano mossi quando necessario, che avevano lasciato che le catene dell'esistenza quotidiana gli impedissero di conoscere con la pianta nuda la terra umida di attesa
Era al centro della stanza e lei guardava con la bocca chiusa. Le labbra tumefatte di silenzio. Attorno a lui le parti frantumate sembravano guardarsi, ridere, fare l'amore e moltiplicarsi.
I palmi delle sue mani, cauti palmi, attenti palmi, faticavano e si graffiavano. Fiumiciattoli rossi si riformavano in letti che erano aridi da tempo. E lui guardava le rive di nuovo bagnate.
Raccogliere. Conservare. Ricostruire. Amare. Ogni piccola molecola doveva essere riavvicinata a quella compagna che aveva perso nell'attimo in cui aveva chiuso gli occhi e riaprendoli aveva visto tutto vacillare dal suo palmo. Distratto palmo. Debole di promesse capovolte.
Sul tavolo massiccio si ricomponeva a fatica, con il caldo dell'estate che entrava sotto i vestiti a languire la pelle con la promessa di giorni di sabbia, il manufatto. Il vaso. Quel vaso al cui interno erano scritte le parole. I fatti. I sogni. Gli incubi. "Perché?". "Scema". "Idiota". "Balbuziente". "Risate". "TI amo". "Io sono ...". "Questo è il mio segreto ...", "Solo", "Anni senza nessuno".
L'interno di ogni pezzo era un tassello firmato da milioni di ore passate da soli o tenuti per mano. Ma solo per un po' forse. Ogni tassello era carne che urlava e carne che ascoltava, copriva, riscaldava, calmava. Carne che diventava finalmente carne. E, amara realtà, carne che non riusciva più a ricordare a chi apparteneva dal principio.
Lei osservava ferma. Il caldo della notte e dei pomeriggi si mescolava con l'attento volto di lui fisso sul vaso che riprendeva forma. Che lentamente cominciava a stare di nuovo in piedi.
Aveva appena preso il pennello. Per coprire i segni del rumore che aveva stordito le orecchie e il cuore. Lento. Passare il pennello lentamente significava entrare in profondità, riempire le crepe e dare una nuova consistenza.
Passò il tempo. L'Estate piangeva la mancanza di attenzione di lui e la stoica fermezza di lei e amareggiata sbuffava sulla pelle calda.
Lui aveva finito. Appena possibile aveva guardato il vaso tra i palmi delle sue mani, segnati palmi, incrostati di lavoro e sangue e sporco e sudore e attenzione. Cauti palmi. Amorevoli palmi.
Si era appena girato per mettere a posto il figlio ritrovato, nello spazio del suo mobile. E lo spazio era troppo piccolo. Provò con più attenzione. Magari aveva sbagliato a mettere insieme i pezzi. No. Non entrava.
Allora si buttò in ginocchio con il vaso in grembo e pianse. E sorrise. Ma sorridendo piangeva ancora più forte.
Aveva avuto la forza di avvicinarsi ai suoi piedi. Di starle davanti al grembo.
Sollevò i palmi e il loro tesoro. Lei lo prese e sparì tra le forme giuste del suo corpo, incastonandosi perfettamente. Il suo posto. Si avvicinavano le labbra bagnate di lui a lei : "Ecco. Ti prego, frantuma l'Addio".
Lei schiuse i gusci fermi della bocca e ...
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