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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Lanzòl

La sintassi

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Dall'angolo, la prospettiva dell' incrocio delle strade è un poco distorta, come se risultasse vista con lenti imperfette. Fanno da sfondo al quadrivio gli intonaci - beige o champagne, non sabbia: e ripuliti - dei palazzi umbertini. I platani del viale, che dirige verso il centro storico, si riflettono appena nelle poco splendenti rotaie della metropolitana leggera. Il grigio dei binari s'accompagna con i grigi, i bianchi, i verdi opachi delle auto in parcheggio. E con il grigio scuro delle saracinesche dei negozi chiusi. Più in alto, come la brutta luce d'una fotografia d'un volto lo spersonalizza, le ombre rade sulle ipertrofiche costruzioni Novecento ne irrigidiscono le facciate, più che far risaltare con la loro distribuzione gli ornamenti e le cariatidi.

E' davanti ad uno di questi palazzacci che stridono le frenate delle Centosessantaquattro. Da quella blu ministero, che ingombra la piazzola d'accesso al portone, scende il giudice, incuneato tra il personale di scorta. Nessuno, dall'esterno, se non uno sguardo pratico, avrebbe potuto intercettare il magistrato nel fugace passaggio dalla calura del giorno estivo al fresco non gradevole dell'androne dello stabile.

Un aroma di muffa e ganga immersa nell'olio segnala l'arrivo dell'ascensore, confermato da uno scatto del meccanismo d'arresto. Una guardia si precipita ad aprire la porta dello scatolone di legno le cui ampie vetrature consentono di sorvegliarne l'interno dalle scale. L' abitacolo si muove con sobbalzi e perplessità, e tra le scosse arriva all'ultimo piano. La poliziotta di servizio, una giovane tarchiata, i capelli biondi corti, la camicia della divisa nascosta dall'antiproiettile, si allontana con vigile diffidenza dalla sua posizione quando escono dalla cabina, e libera lo scorcio di corridoio che occupava, perché il giudice possa raggiungere la porta dell'attico dove vive e lavora il professore. Che si mostra, inquieto e sorridente, non appena l'uscio blindato si schiude.

"Giudice...".

"Ciao, professore...", replica quello, lasciandosi la scorta alle spalle ed entrando: "T'ho portato qualche compito da correggere".

"Me l'immaginavo. Ho sentito il giornale radio". Sospira, e gli viene da dire: "Pure d'agosto, adesso...".

"Quelli in vacanza non ci vanno, caro mio", ribatte il magistrato, con temperata amarezza.

Dall'ingresso si trasferiscono, per una fuga di stanze disposte a cannocchiale, nell'interno dell'abitazione, fermandosi in una sala dalle pareti coperte da librerie affollate da testi ponderosi e mistilingui. Delle veneziane fermano la radiosa calura del pomeriggio: il professore tira le fila degli schermi di plastica verde chiaro, così da permettere alla luce ingiallita di dileguare la semioscurità.

Quando si volta, trova sulla scrivania un plico non spesso, ordinato in una cartella azzurra; il giudice lo indica, ed esorta il docente: "Tutto tuo!", con un tono sornione e non malevolo.

L'apertura delle tapparelle ha provocato un effetto collaterale, l'apparire del panorama circostante: mansarde, attici, e una terrazza, bianca di panni stesi, vele tra le onde pietrificate dei coppi, il canneto di antenne e le macchie candide delle parabole satellitari, che paiono flottare come ninfee. Se qualcuno, per dire, naufragasse in questo mare, celandosi dietro una ringhiera o una sponda, con l'ausilio di un binocolo potrebbe vedere, ma non bene, un cinquantenne canuto d'altezza anormale, dal volto lungo e scarno, in una stanza colma di libri, intento a leggere - si presume a voce alta - da pagine legate con una grappetta: "Risoluzione della Direzione Strategica delle Brigate Rosse numero...".

S'interrompe e chiede: "Dove stavano?"

"Quello, vicino al corpo del povero D'Andreo...", la frase perde vigore e smalto man mano che viene proferita nell'aria umidiccia per l'afa: "Ma il reperto numero due l' hanno rinvenuto dei ragazzi, fuori la guardiola d' un istituto tecnico sulla Tiburtina...".

Un riflesso colpisce la finestra, proiettandosi sul velluto spelacchiato d'un divano, che lo assorbe: il giudice picchietta senza energia, con la biro, i fogli che ha con sé. Prosegue: "L'azione è stata rivendicata per telefono, al Messaggero... la Digos ha l'intercettazione...".

"E come facevano a sapere che...".

"Quelle linee sono controllate sempre, senza interruzione. A ogni modo, la trascrizione è nella cartella, se ti interessa, ma è sempre la solita zuppa della giustizia proletaria".

Più ci si allontana, più mosse e gesti perdono senso, per divenire meccanici, deumanizzandosi: per esempio, il toccarsi incessante sul naso che il professore agisce, e che accompagna il suo modo di parlare conciso: "Va bene, inizio a lavorarci subito. Devo lasciar perdere il resto, però".

"Sì. Questa è roba urgente".

Si vedono, dietro la finestra, nitide sul fondale indifferenziato delle scansie, due figure parlarsi a lungo. Non hanno fretta, o devono spiegarsi bene. Poi si congedano, e la stanza resta vuota, come le strade d'agosto, e il tram, e l'ombra, sprecata perché nessuno transita nell' arco che disegna sui marciapiedi.

Le lastre sconnesse della piazzola invece sopportano l' auto blindata. Finché se ne va, e il corso è deserto.



Nell'armadio di ferro dissimulato da un trompe-l'-oeil, una falsa libreria, il professore conserva il suo archivio. Da più di dieci anni legge, studia, analizza i documenti ideologici prodotti dal terrorismo rosso e nero. Le schede, alcune migliaia, riportano parole, frasi, e pure indicazioni bibliografiche, storie, nemmeno fossero pagine di romanzo. A volte, le schede più frequentate, dove la scrittura è fitta al punto da rendere impraticabile il supporto, vengono espanse in cartelle di spessore variabile dal quaderno al volume di enciclopedia, e faldoni di vari colori le riuniscono e categorizzano.

Blu, cenere, verde opaco: tutte le sfumature dello spettro impiegatizio sono presenti, e custodiscono frasi trite o minacciose, oscure per voler essere fin troppo razionali, o tanto limpide da confinare col visionario. Idee, idee, idee, solitamente di seconda o terza mano, talvolta personalissime, di rado piene di fascino.

Il materiale è stato tradotto su dischi magnetici: ricerca, modifica e aggiornamento vengono svolti mediante l'elaborazione elettronica. Ma l'ordine e la corporeità immediata degli scritti, oltre al loro valore come prove, respingono la tentazione di seppellirle, obsolete, in qualche penetrale di ministero. E c'è nel professore il gusto per l'indagine sulla materia cartacea, guidata dall'intuito, o persino dal caso.

Non è affatto casuale invece il metodo: la parola del volantino, della risoluzione, del testimone, del collaboratore di giustizia, viene scissa dal contesto, e la macchina analitica e metaforica si mette in moto, per risalire al dove, al come, al quando, al chi.

La seconda fase consiste nel disporre le informazioni ottenuto in un quadro significativo, dar loro un senso: è il momento del perché. Tutto può essere d'aiuto per capire se due pagine sono della stessa mano. Se chi sta dietro quella pagina pensa o spara, finge o crede. E se quelle parole possano venir utilizzate in tribunale, per sostenere un' accusa, per confutare una circostanza.

Alla fine, la perizia si è stesa da sé, nei fatti dell'analisi e della linguistica, ed è sufficiente tradurla nel burocratese d'obbligo. Al professore non resta che trascriverla dai suoi appunti, ascoltando con gli auricolari The dark side of the moon, o Tommy.

Beve da un thermos pieno di acqua gelida, agra per qualche goccia di limone: ma non rabbrividisce per il frigòre e l'acido improvviso, bensì per aver còlto, in cauda oculis, un paragrafo sulla "ristrutturazione del carcerario". Non del carcere - l'oggetto, la cosa in sé. Ma della sua benthamiana, panòttica stilizzazione: quasi s'elevasse il penitenziario a categoria dell'esistenza. Esplosa la galera, i suoi lacerti, andati a ricadere sul mondo esterno, vi crescevano modificandolo, omologandolo a sé, dàndogli la propria struttura, come i baccelloni di certi filmacci di fantascienza invadevano corpi e menti, ricreandoli a loro immagine. O era il contrario? Erano gli uomini a farsi invadere, per propri attitudine e tornaconto? Non lo ricorda.

Per divagarsi, pensa all' artefice modello dei saggi sovversivi, come crede sia - Hannibal Lector. Algido e impulsivo, grintoso e paziente. Se lo figura progettare la scansione degli aggettivi, o incerto nella scelta dei sinonimi. Lo vede leggere e rileggere, attento alle rime e alle allitterazioni, alle idee e alle immagini suscitate, alle citazioni, finché all'orecchio l'identità del testo non risuoni definita, priva di barocchismi, o di costrutti quotidiani, banali. Lo pensa disporre con gioia le linee dell'argomentazione, dopo aver risolto ogni problema estetico. Lo sa felice per il giro di frase scevro di sbavature. Se lo figura via via pago del sarcasmo:

"La fiducia inestinguibile nelle magnifiche sorti e progressive della rivoluzione italiana...".

Divertito e beffardo:

"... se cade, una mosca non fa polvere. Ma loro non erano mosche (seppure cocchiere), e lo scivolone fu invero clamoroso".

Dotto senza pedanteria:

"... più che di terrorismo si dovrebbe parlare di sovversivismo di sinistra. La pratica terrorista doveva costituire l'innesco della rivoluzione di massa".

Mordace nel sussiego:

"...ciò che è vivo e ciò che è morto nella lotta armata in Italia...".

Aperto alle influenze pop:

"...ricordiamo le discese ardite e le risalite di quel movimento...".

E allora ricorda che qualche tempo fa, un suo conoscente ora giudice gli aveva raccontato la storia di due terroristi: militavano nello stesso gruppo, e andavano molto d'accordo, fino a creare, in un ambito sia pure dominato dall'ideologia della collettività, una coppia a sé - Eurialo e Niso, li avrebbe forse sovranominati qualcheduno con reminescescenze liceali. Un giorno, uno dei due per la prima volta invitò - ospite per qualche giorno - l'altro a casa sua. E questi, proletario e borgataro, s'accorse che l'amico era di famiglia altoborghese: splendida casa in Prati, elegante quartiere romano. Padre docente d'epigrafia greca all'università, erede d'una consistente fortuna, già membro influente del partito d'azione. Madre facoltosa, anglosassone, liberale, d'ottima famiglia - uno zio fu ministro nel governo Attlee. Dopodiché, il loro collettivo ordinò loro di compiere un'azione: si trattava di gambizzare un giornalista d'un quotidiano "illuminato", che ne occupava una poltrona per garantirne l'apertura a destra di fronte alla peggiore borghesia. Quel giorno, i due aspettarono il cronista per eseguire la sentenza del cosiddetto Tribunale del popolo. Videro l'uomo giovanile, incappottato in un soprabito di gran marca, uscire dal portone dell'antico palazzo dove abitava, fare qualche passo sul marciapiede, e recarsi alla sua berlina, parcheggiata accanto a un platano dai rami esfoliati. Mentre armeggiava con la portiera, il terrorista figlio di ricchi lo raggiunse, e gli sparò diversi colpi alle gambe. Invece uno solo, alla testa, fu sufficiente al suo collega per uccidere il compagno. Quindi, il sopravvissuto gettò l'arma a qualche metro, sedette sul bordo della pedana stradale, e attese la polizia. Catturato, si lasciò arrestare non opponendo resistenza. Al giudice non volle spiegarsi. Aveva un libro di poesie con sé - sottolinato, un verso: "quando i soldati marciano verso il nemico, spesso ignorano che il nemico marcia alla loro testa".

La lampada da tavolo è bollente, il professore l' allontana ruotandola sul suo perno. Dalla finestra, si può scorgere con precisione un alone luminoso, e in esso un uomo in una stanza dalle pareti nere nella penombra.



Stesa su un gran cuscino dalla fodera khaki che giace sul tappeto del soggiorno, la figlia di sua sorella, una bambina mora in una veste azzurra, estiva, sta guardando una videocassetta Disney, la storia non semplice di una principessa cinese. La bimba ha i piedi nudi, dalle piante rosee, e di tanto in tanto piega le gambe, nude e un poco scure di abbronzatura, così che formino un angolo meno che retto col proprio corpo, sdraiato. Indossa degli auricolari, quindi le chiacchiere di Giovanna, sua madre, col professore non risentono della colonna sonora.

La donna, per nulla simile al fratello, ha capelli più neri della figlia, occhi come lei grigi - ma d'un grigio denso, marino -, e un naso importante. Sulla fronte, lungo la linea della chioma, s'intravedono due piccole macchie di melanina. Parla con voce asciutta e serena, come se non avesse dovuto, per la situazione del giudice, correre dei rischi e subìre una trafila burocratica per venirlo a trovare: "... e insomma quest'amichetto di Emilia le dice "io con i negri non ci voglio stare", e si volta verso sai quelle cose che mettono anche in certi giardini pubblici, con la sabbia dentro...".

Il professore annuisce: "Ho capito cosa dici. Che poi intorno ha dette tavole di legno messe per lungo, per contenere la rena...", è il turno di lei a far cenno di sì: "Non so come si chiama. Non so neanche se ha un nome. Comunque!", riprende: "Questo ragazzino dice questa cosa, e ovviamente l'amichetta di Emilia, Sònali, che tra l'altro è di Asmara, quindi... insomma c'è rimasta male. E direi, poverina. Allora Emilia è andata da Pierluigi, il bambino che l'aveva offesa, e gli fa, indignata "non si dice negri, si dice di colore". E se ne torna da Sònali. Ma ti dico! Non so se ridere o preoccuparmi, guarda".

"Papà avrebbe detto "tutta la nonnìna"!", ricorda, sorridendo tirato, il professore: "Lo diceva sempre di noi due, che eravamo della mamma, e non del papà"

"Che poi, diversi come siamo, che non sembriamo nemmeno fratelli"

Il professore muove una mano, con un gesto netto, come per scacciare una mosca: "Quando si metteva in mente una cosa... era convinto che noi due non avessimo preso niente da lui, e basta. In facoltà lo chiamavano Kerabàn il testardo".

"Il romanzo di Giulio Verne! Quanto gli piaceva, Verne! E quanto ha tentato di farcelo leggere".

"Altra cosa che non abbiamo preso da lui".

"Solo i piedoni, sosteneva che erano i suoi, sputati!", afferma Giovanna, lieve e allegra: "Quanto ci si dannava! Diceva che doveva essere parente di Edipo. E comunque, non mi pare che... io ho il trentasette, e tu....".

"Il quarantatre"

"Appunto! Non sono poi smisurati... ah, sai chi ho incontrato? Giulio Franchetti!"

"Ma non era lettore d'italiano a Utrecht?"

"Boh... sarà in vacanza. Dimagrito, madonna! Stava poi con queste tute da giovane, sgargiante, piena di logo, e un'abbronzatura lampadòs che è tutt'un programma".

Emilia recupera il telecomando, finito sotto il mobile della televisione, e la spegne. Quindi si mette in piedi, preme lo stop del videoregistratore, e va a sedersi sulle ginocchia dello zio, che prende a carezzarla sui capelli. Quando Giovanna ha finito di raccontare, il professore le si rivolge: "Non ti va più di vedere i cartoni animati?"

Indiretta, la bambina chiede, tra lagna e desiderio: "Mi racconti tu una storia, invece?"

Dopo una fugace occhiata d'intesa con la sorella, lui s'informa: "Una storia antica, o una moderna?"

"Antica!", esclama la ragazzina: "Antica e vera!", e si dispone ad ascoltarla, rilassandosi in braccio allo zio, certa che sarà soddisfatta.

"Allora", esordisce il professore: "Tanto tempo fa, il Gran Re della Persia decise di invadere la Grecia...".

"Perché?", lo interrompe la ragazzina, stuzzicandosi subito dopo il labbro inferiore con il pollice.

"Perché i greci l'avevano offeso, secondo lui".

Si toglie il dito di bocca, e ancora interviene:"E che gli avevano fatto?"

"Emilia, che strazio!", sbotta sua madre: "Fàllo raccontare, e basta!"

"E' lui che non è chiaro!", protesta lei. Il professore, con tono di benigna pazienza, s'interpone tra le due litiganti: "E va bene. Sarò meno reticente. Allora...".

"Non gliele dare tutte vinte, però", lo biasima Giovanna. E la figlia, lesta: "Non mi dà le vinte!"

"Allora...", riprende il professore, ostinato, per far tacere figlia e madre: "Il Gran Re ce l'aveva con i greci perché dicevano che era un barbaro, un re crudele e ingiusto. E siccome la più potente città greca era Atene, decise di assediarla. Ma non poteva farlo, se prima non distruggeva la flotta ateniese. Così, radunò tantissime navi, e le mandò verso Atene. Quando veleggiavano al largo di Salamina...".

"L'isola!", commenta Emilia: "L'hanno detta a "La macchina del tempo"!"

"L'isola, brava... insomma, quando furono a Salamina, le due flotte si scontrarono, e vinsero Atene e i suoi alleati. L'invasione, quindi, fallì prima di cominciare, perché il Gran Re ci rinunciò. I greci fecero grandi feste, e si congratularono con loro stessi. Certo, si dissero, abbiamo vinto perché la nostra civiltà è superiore. Noi siamo occidentali e democratici, mentre loro, i persiani, sono orientali e schiavi".

"E era vero?"

"Mah... forse lo dice il resto della storia. Dopo qualche anno, Atene diventò così potente, che le altre città s'impaurirono. Allora formarono una lega con a capo Sparta, e fecero guerra a Atene e ai suoi alleati. Capitava però che c'era un'isoletta...".

"Un'altra!", fece Emilia, allungando il braccio per grattarsi un piede, per tornare nella posizione più comoda mentre lo zio le spiega: "Attorno alla Grecia ci sono un sacco di isole, isolone, isolette. Questa era piccola, e i suoi abitanti avevano deciso che la guerra non li riguardava. Mandarono perciò degli ambasciatori a Sparta e a Atene, per dire che li lasciassero perdere. Ma gli ateniesi invasero l'isola, distrussero le cittadine che c'erano, portarono via o uccisero tutti gli abitanti, e ci lasciarono invece i loro contadini e i loro soldati".

La bambina riassume: "Erano cattivi, allora!", grattandosi di nuovo il piede scalzo, e ancora accomodandosi. Sua madre, che nel frattempo s'è accesa una sigaretta, considera: "Forse, erano diventati barbari come i Persiani", e seguita, dopo una boccata: "E' così, no?"

"E' così".

"Ma allora, se noi siamo come il nemico, il nemico è come noi!", deduce Emilia."Ma allora, non è più il nemico".

Il professore le fa cenno di sì con la testa: "T'è piaciuta, la storia?" Lei sorride, soddisfatta:"Bella! Sì!"

"A me non tanto", mormora Giovanna, e dà l'ultima tirata alla sigaretta.



"La mano è la stessa, ne sono sicuro. Qui, per esempio, c'è un richiamo a uno scritto del Croce... quello segnato in rosso invece è un verso della Ginestra. E poi...".

Vorrebbe prendere un opuscolo abbandonato su una schiera di contenitori da ufficio, ma il giudice lo previene, e glielo porge, attento a non disordinare i numerosi foglietti segnapagina che lo inzeppano.

"Ah, grazie...", sfoglia il libretto sdrucito, esplorandolo metodico: "Ecco. Un titolo da Carducci, Mosche cocchiere... e perfino un Mogol-Battisti".

"E che è, la Treccani, 'sto coso? O le formiche che s'incazzano?"

La pendola segna le ore, il tocco smorzato sottolinea la spiritosaggine e si mischia con la risposta: "Magari no, però... non era Marx che per scherzo chiamava il capitalista "cavaliere dalla triste figura"?"

"Ficcante esempio di umorismo-leninismo".

Ridacchiano, quindi il giudice beve un sorso di coca tiepida da un bicchiere panciuto, e specifica: "E poi, certo maoismo... quello della geometrica potenza, per capirci... e certo operaismo alla orfani di Tronti si vede, si vede proprio, che sono stati messi a bagno nella cultura... nella cosiddetta cultura borghese".

"Cosiddetta. E perché 'sta full immerscion?"

"Mah. Potrebbe essere...", tira dalla sigaretta un'ultima boccata, espirando il fumo dal vago odore di catrame: "... sai quegli studenti che all' esame vogliono far colpo e citano, citano per dar vedere quanto sono bravi, "for the sake of showing off"?"

Traduce: "Per fare il saputo", spicciativo.

"Appunto".

Butta il mozzicone nel posacenere ingolfato: la polvere grigia da questo trabocca sul Codice e sul Dizionario dei sinonimi, spargendosi sul velo di pulviscolo preesistente.

"Insomma, è come se dicessero "sappiamo che tu ci leggi"", conclude il giudice, stanco e dubbioso: "Ma che vengano peritàti, lo sanno cani e porci. Perché sprecarsi a...".

Con l'indice, il professore percorre il dorso dei libri spolverati di cenere, tracciando incomprensibili ideogrammi. Smette, e suppone: "Forse è una forma di minaccia. O forse è il contrario. Vogliono giustificarsi. Sembrare rispettabili. I pornografi fanno così. Descrivono una fellazione...".

"Un bocchino".

"Un bocchino, allora... di seguito copiano una glossa a Kant, e pretendono d'aver fatto arte...".

Lo riattrae la possibilità di scrivere ancora sullo strato che sporca il piano di vetro della scrivania, e vi si dedica di nuovo con l' indice, avanti di provocare: "Oppure, come dicevamo prima, sono diventati ironici...".

Il disaccordo risuona completo: "Su, professo', sìmm'e serie. Che c'azzecca l'ironia con gli agguati?"

"L'ironia è proprio questo, no?", insiste, mentre guarda il giudice fissarlo, sorpreso e disturbato e anche un po' stranito dal paragone: "L'ironia è mordi e fuggi".

Riprende l'opuscolo: "C'è una bella... dov'è?... ah, ecco. Senti questi: sono i soprannomi che vengono affibbiati ad alcuni parlamentari. Ce n'è per tutti: "l'untuoso", "il nostro garibaldino" o "strong man", "il neoreazionario riformatore"".

Si schiarisce la voce, incatarrìta dal fumo: "E i giornalisti? "Catone in pectore", "Gamba di legno", "il Commosso viaggiatore", "l'Aquila a due tette" . Geniali!".

Ancora a disagio, l'inquirente sussurra: "Chiamare "gamba di legno" uno che è stato appena gambizzato, più che geniale mi sembra feroce".

Medita quindi, non convinto: "Non ti ci starai divertendo troppo, no?"

"Può darsi. E' che ho scoperto...".

"Che?"

"No, niente" il professore si leva gli occhiali, e friziona il naso solcato dalla montatura: "Che i loro scritti appartengono ad un genere letterario - sai, robe come il giallo, il rosa, e così andare".

"E sarebbe?"

"La parodia".

Sulla fronte del giudice, una traccia di fastidio s'approfondisce, diviene ruga: "E a che porterebbe, 'sta scoperta?"

"Saperlo".

"Gesù Giuseppe e Maria!"

Scampa all'ilare irritazione dell'amico, venata di poliziottesca serietà, facendosi erudito: "Non ti è mai capitato di vedere un film, e di accorgerti che ti ricordava qualcosa, ma non riuscivi a ricordarti che?"

"Centomila volte".

Nel corridoio squilla un telefono, e dei passi annunciano che uno dei questurini sente e provvede, difatti gli acuti della suoneria cessano, non più assillando il teorizzare dello studioso: "Dicevo. Tu ti siedi sulla poltrona, bello pacioso, e mano mano che la storia va avanti, sempre più ti pare di saperla già. E assieme che non era proprio così che la sapevi".

"Insomma, tu mi stai a dire che questo modo di procedere che hanno loro quando scrivono...".

"... e i loro argomenti, il loro modo di essere autentici o falsi, le loro scuse e giustificazioni...".

"... vabbe', tutt'o rièst'appriesso... ti pare di averlo già incontrato. Solo che non capisci dove".

"Sì. Io vedo le loro parole come una copia. Ma non da un originale: da un'altra copia. E le citazioni sono anche un sistema utilizzato per farmelo capire".

Il giudice, come se si aspettasse un seguito, tace. Avvertita la propria mancanza di chiarezza nell' esitazione, e un'idea di biasimo per quella che all'altro deve apparire come umanistica sofisticheria, il docente si ritrae per pochi secondi dalla discussione, affacciandosi alla finestra. Mormora: "Finché la violenza dello stato...".

"Che dici?"

Si volta: "No, è uno slogan. Te lo ricordi, no? "Finché la violenza dello stato si chiamerà giustizia, la giustizia dei proletari sarà violenza". In retorica il suo nome è chiasmo. Un incrocio di parole corrispondenti. Basta cambiare l'ordine dei fattori, e il senso cambia". Esponendo le sue ragioni, gli sembra che si facciano più limpide in lui, e divengano ragione: "Pensa: basta così poco. Nemmeno le parole devi cambiare. Solo il modo in cui sono messe. E t'accorgi all'improvviso che...".

Si blocca. Eppure il giudice lo osserva, lo osserva bene. E' attento. Non vede l'ora che finisca. Ancora la finestra per il professore è un'occasione per distogliere lo sguardo. Vi si affaccia di nuovo, e, così come sta, sarebbe un bersaglio difficile da mancare, dal cortile e dai tetti immersi nella vampa del sole in controluce che li sbianca. E' forte quella luce, tanto che non si può dire. Si può solo vederla.

"Hai saputo del rettore? Certi del Sisde gli sono andati a casa. E hanno cominciato a cercare nelle dispense dell'università, nelle schede. Nei libri".

Il giudice si alza in piedi, e gli va vicino: "Che cercavano?"

"Quelle che tecnicamente si chiamano concordanze. Frasi, parole, che potessero ricordare quelle dei comunicati brigatisti".

"E lui, che ha fatto...".

"E che doveva fare. S'è preso la perquisizione, e zitto".



Al processo, i terroristi vengono condannati. L'esame dei loro scritti mostra le incongruenze della difesa. Pochi giorni dopo, l'attentato. La reazione della scorta salva la vita al professore. Restano uccisi un brigatista e un carabiniere. Lo speaker del telegiornale commenta la notizia dicendo che si tratta di una ennesima dimostrazione che il terrorismo non è stato sradicato. Non ancora.





I testi citati, tranne due che sono di Flaiano, provengono dall'articolo di Sandro Acciari, Traditi dalla lingua, pubblicato ne l'Espresso del venti novembre 1988, alle pagine 25 - 26. Il riferimento al rettore e al controllo dei suoi scritti da parte dei Servizi si trova ne l'Espresso del ventiquattro marzo 1995, a pagina 16. Si è citato anche da P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 523-529. E v'è pure una suggestione dallo Sciascia dell'Affaire Moro. Meglio di così, Lettore, non mi pare potessi trattarti.







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