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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Giovanni De Feo

Lo sguardo di pietra

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L'illusione dell'infanzia è che tutto sia per sempre. Gli alberi, il profumo del mare, una canzone sentita alla radio, il sorriso di tua madre. Ti guardi intorno e la cerchi nell'angolo dove stende i panni.

- Posso uscire adesso?

- Dopo i compiti ho detto

- Ma mancano solo due! E poi se cala il sole non posso giocare più. Ti prego...

- E va bene... però se non sei qui per cena, le prendi.

- Grazie, grazie, grazie.

Afferri lo skate e stampi un bacio sulla sua guancia fresca, poi apri la porta e scendi le scale a due a due. Appena sei fuori per strada getti per terra la tavola con le ruote sedendoci in un lampo. Il tuo skateboard schizza sotto i tuoi piedi come fosse vivo.

Tua madre da sopra al balcone si sbraccia e grida:

- Luca stai attento!

Non ti giri e invece raddoppi gli sforzi, volando sull'asfalto come fosse ghiaccio nero. Tua madre sorride, tra le bandiere monocrome deilenzuoli che il vento le agita intorno. La saluti. Lei ti fa un cenno lontano, quasi solenne,ma tu hai già gli occhi pieni di cielo e corri via
.



I miei occhi hanno fame.

Striscio attraverso i vicoli della periferia verso il centro della città, dal fetore dei cassonetti aperti ai sagrati delle chiese vuote. Nessuno mi vede mentre scivolo da un corpo all'altro, in questa città antica come la notte.

Stanotte mi sazierò.

Non ho una forma, un peso, o una sostanza. Non sono nemmeno un'ombra. Sono fatta di sguardi, a volte leggeri come soffi di vento, altri grevi come rombe.

Di essi mi vesto e mi nutro, attraverso essi io vivo.

Sono più antica di queste rovine, vecchia come la terra su cui riposano queste colonne. Ho molti nomi, ma tra tutti ne preferisco uno.

Nei miei occhi c'è l'inferno della memoria che non si cancella.

Chiamatemi Medusa.



Due ore durano meno del rintocco di una campana quando si gioca.

Le tue ginocchia scorticate arrancano sotto il sole che cala. La salita verso casa è ripida, ma non ci badi. Pensi a tua madre. Pensi al fatto che nonostante tutto lei è là ad aspettarti. Anche se sono mesi che sta male; sono mesi che i dottori dicono che deve ricoverarsi. Ma lei sta meglio, ormai è quasi guarita, dice.

Poi arrivi in vista della casa.

E sei assolutamente certo che lei sarà lì, affacciata sul balcone, come sempre.

C'è un gioco da fare ogni volta che torni a casa. Un doppio fischio e una pausa, a cui lei risponde con un altro identico. E' come un messaggio in codice, un richiamo antico di quando non avevi nemmeno sei anni.

Ti fermi, metti le dita in bocca e lanci il tuo fischio. Aspetti in silenzio la risposta. Silenzio. Altro silenzio.

Forse non sente, forse è in cucina a cucinare, forse...

Ma poi un corpo passa tra i pini e ghiaccia l'aria col suo grido.

Il silenzio esplode.

Un brivido ti scivola dentro e tu ti fermi ad ascoltare il rumore del tuo cuore. E senza un perché, senza una ragione precisa, scatti verso casa.

I tuoi piedi scartano sull'asfalto abbrustolito, lo skateboard che sbatte sulle costole magre. Così inizi a correre, follemente, cercando di seminare l'ombra della tua paura
.



Un uomo biondo, alto, passeggia nel parco, sopra le luci delle vecchie chiese. Accanto a lui la sua compagna, quella giusta, quella che non lo ha lasciato mai.

Egli crede che questo momento sia per sempre. La sua presunzione è una ruga sull'orlo delle sue labbra, un taglio sottile nel suo sorriso.

Poi lei si volta coi capelli sulla faccia, con quel gesto solito e glielo dice.

Basta. Parto E' finita.

Divento i suoi occhi nel momento in cui lui si rende conto che non la vedrà mai più. Assaporo quell'istante, lo faccio mio. Il tepore del volto di lei, un pexxo di tramonto catturato dalle sue guance, l'ombra di una foglia che gioca coi suoi capelli. Pietrifico il suo sguardo sapendo che se lo porterà dietro per tutta la vita.

Lui chiude le palpebre, ma io sono già lontana.



Il silenzio dei pini droga l'aria.

Ti sembra di nuotare in questo silenzio come fosse una cosa viva, una sostanza di terrore che traspira da te in ondate di brividi. Provi a correre ma ti accorgi di essere immobile, congelato nei tuoi respiri violenti.

Non c'è ragione di correre. E' solo un gioco. Lei sarà lì.

E se non lo fosse?

E' la prima volta nei tuoi otto anni di vita che ti fai questa domanda. E ti rendi conto solo adesso che qualsiasi sia la risposta niente sarà mai lo stesso. Perché se anche questo fosse solo un gioco, se anche lei ci sarà davvero, la paura resterà, sempre.

Ascolti il tuo respiro e riprendi a correre.




Sento le urla come fuochi improvvisi nella notte. Le loro grida mi traggono a sé, annullando spazio e distanze.

Scivolo dentro agli occhi di una bambina che guarda il suo vecchio cane morire. Sono nelle iridi di un ragazzo che abbandona la casa dove ha vissuto da quando è nato. Divento lo sguardo di un vecchio che in un letto d'ospedale saluta suo figlio per l'ultima volta.

Gli occhi dei miei ospiti cambiano nel momento della possessione. Se qualcuno dovesse guardarli in quell'istante vedrebbe un'ombra scura spiccare su iridi rosso sangue. Ma nessuno fa in tempo a vedermi che io sono già via.

Dall'altra parte della città il volto di un bambino mi chiama, attirandomi col dolce odore della sua paura. Divento il respiro di un'ombra e svanisco.



Le ombre dei tuoi piedi sulla strada sfumano in velocità. La salita diventa un serpente, una curva coperta dai fusti dei pini. Ancora duecento metri e vedrai il balcone. E la sagoma di lei alla finestra. Ne sei certo.

Invece no... senti in fondo al petto come un vuoto. E sai che quando girerai la curva lei non ci sarà più. E che quello stupido ultimo saluto di quel pomeriggio sarà stato l'ultimo. I pini si spalancano e finalmente scorgi il balcone: vuoto.

Aumenti l'andatura, posi a terra lo skateboard e ti metti a pedalare con l'inferno nel sangue, senza badare più a nulla.

Schizzi sul brecciolino, volando alla cieca tra i bidoni dell'immondizia, i motorini arrugginiti e le piante di rampicanti. Ad un certo punto lo skate slitta. Perdi l'equilibrio, cadi. L'asfalto morde le tue mani e tu te le ficchi in bocca, assaggiando il sapore aspro e salato del tuo sangue. Ti rimetti in piedi, salti il muretto e ti spingi a tutta forza sulla strada asfaltata, prendendo velocità.

Voli nel grigio del crepuscolo, ma ti sembra di essere una statua viva.




Un tempo pietrificavo carne e corpi. Adesso congelo immagini, frammenti di vita che diventano sogni o ossessioni.

Perché io stessa non sono più carne da tempi immemorabili.

Nel tempo più antico, quello del Mito, una dea crudele mi condannò a bere la vita dagli occhi, dandomi sembianza orrende per un peccato d'amore voluto da un altro dio. Un eroe giovane e presuntuoso spiccò la testa dalle mie spalle, usando uno scudo che io stessa gli avevo fatto trovare. Credevo che liberandomi della mia carne potessi sbarazzarmi del mio Fato. Ma la maledizione della dea era più forte dello stesso ade. Ed io sono ancora viva, nell'impalpabile velo che si cela dietro tutte le cose. Così mi nutro della morte. Non quella della carne, bensì la morte del tempo.

Io sono l'ultimo sguardo.

Sono gli occhi che avrai ogni volta che vedrai qualcosa che ami per l'ultima volta. Perché vedete, è questo che io faccio.

Vi ricordo ciò che non dovreste dimenticare mai.

Vi torturo la notte con quelle immagini di pietra, fotografie che non svaniranno.

Io sono i volti degli uomini che avete ucciso, le carezze degli amanti che avete lasciato, le pareti della vostra camera d'infanzia, il sorriso del vostro compagno di giochi morto a vent'anni.

Sono l'ultima volta che hai visto tua madre.



Sei a quasi trenta metri da casa quando tua madre si affaccia. Fuma una sigaretta e ti fa un cenno di saluto. Il tramonto scende dietro le sue spalle accendendo i suoi capelli.

Di colpo rallenti e la tua paura si crepa lentamente in un sorriso.

Lei si aggiusta una ciocca di capelli e ricambia, con quell'aria di rimprovero e di dolcezza tanto familiare.

Hai otto anni e li daresti tutti via per tua madre.

Allora lei fa una cosa strana: si mette ad urlare. E il tempo diventa un ricordo.

Lento. E' tutto tanto lento.

C'è come un rumore di qualcosa di grosso che si avvicina, ma non ci fai più caso.

Non ci fai caso perché qualcosa di misterioso sta succedendo a tua madre. Nei giochi di luce del crepuscolo la sua figura sembra diversa, sembra un'altra.

Una donna forte, con la faccia marcata come quella di una statua, ti sta fissando. I suoi capelli sono spessi come corde e si agitano nell'aria come fossero vivi.La su alingua, biforcuta come quella di una lucertola, guizza nell'aria.

Ma la cosa più strana sono gli occhi. Sono occhi delcolore della pietra, occhi di buio e paura, occhi di fiera. Eppure quegli occhi stanno piangendo. Piangono per te.

E tu vorresti consolarla, vorresti che non lo facesse, che non c'è motivo, non c'è ragione.

Allora alzi la mano verso di lei e saluti.

Non ti accorgi nemmeno del camion che ti colpisce in pieno, spezzandoti in due.




Sono nello sguardo della madre quando suo figlio viene ucciso davanti a lei. Sento il suo dolore come fosse il mio. Entro in quella sofferenza e me ne nutro, congelandone gli attimi.

Rosso grigiastro di polvere sul marciapiede. Il riflesso del camion che sbanda colpendo il muro. Le ruote dello skateboard che girano a vuoto. Un piccione sul davanzale che spicca il volo, frastornato.

Non appena ho finito mi allontano. E la lascio sola, nel enro delle sue urla.

Per un attimo mi libro sulla città.

Quanti altri pezzi di tempo dovrò uccidere? Possibile che questa notte duri per sempre e che si debba perdere tutto, ancora e ancora e ancora, senza fine?

Che non ci sia mai presente che io, prima o poi, non debba rendere passato?

Ma non c'è risposta.

E so che dovrò continuare, fin quando ci sarete voi, a dimenticare. Allora mi muovo e stenebro nella folla sotto di me.



Sono le cose che non dimenticherete mai, la coscienza nera di tutti i vostri rimpianti. Il mio nome è Medusa. E prima o poi ci incontreremo.





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