RACCONTI
Dario de Giacomo
Lo spessore del silenzio
– Rammenti il silenzio?
– Sì.
Mio padre fumava sul balcone. All'una del sole di luglio, scintillante tra i ferri anneriti della ringhiera. Di pomeriggio.
Gli amanti all'ombra dei portoni erano ancora ignari.
Dagli organetti a mano suonavano malinconiche le melodie ferrose degli zingari.
Zio Bernardo prese tra le grosse dita il quaderno, fitto della mia scrittura.
Le pagine giallastre sotto la copertina lucida erano spesse e io dovevo calcare le parole sulle righe con la matita dalla punta doppia.
Allora dall'orizzonte sul mare salirono scure masse nuvolose, roboanti veloci verso terra.
Si riversarono in schegge nell'aria d'estate, dilatandosi fino alle finestre spalancate. Prima un tintinnare lieve di cristalli, poi scuotendo le mura di casa che deflagrarono calcinacci sull'impiantito.
Nella caligine polverosa tutte le bombe piovvero tra le onde, risparmiando la città.
Dall'inizio del conflitto era il primo bombardamento a raggiungere quell'angolo di costa.
Gli allievi ufficiali della caserma erano strisciati per strada allo sbando, nella tenuta mimetica delle esercitazioni.
I proiettili della mitraglia aerea si infilarono nei vicoli, raggiunsero le colonne di soldati e li fissarono al suolo o contro gli alti muraglioni del centro storico.
Un'ondata di polvere marcia si sollevò verso il cielo. Ricadde ovunque sulla città, coprendo il chiasso.
Noi rimanemmo prigionieri sotto il tavolo di cucina, sospesi senza aspettare niente.
Là sotto rimanemmo così fino al segnale del pianto. Il pianto caldo di una bambina tra le parole smozzicate:
– Ė morta mamma. Ė morta mamma.
La cantilena colpiva chiunque si muovesse, come prima i proiettili sparati in strada.
Al centro della devastazione sua madre sedeva immobile e sorridente, solo un po' intontita dai crolli, intorno agli occhi.
Una granata esplodendo si era sfrangiata in un turbine di frammenti. Il più piccolo e solitario si era appuntato nel cuore della donna.
Quando le sirene suonarono, le mani robuste di mio zio ci trassero fuori da quel nascondiglio improvvisato.
Mio padre radunava in mucchi l'oro e gli oggetti sottratti alla guerra, da portare con noi.
– Dobbiamo muoverci subito – diceva. – Raggiungere la campagna prima di notte.
Temeva una nuova incursione che avrebbe devastato la città.
Quella notte dal mare veramente ritornarono gli aerei nemici, ma noi eravamo già lontani.
Camminammo per tutto il pomeriggio e buona parte della notte, lungo i sentieri di montagna che conducevano all'interno; a piedi per quasi tutto il tempo, oppure sulle stanghe dei carretti trainati dai muli.
Ora nel buio della masseria di zio Bernardo guardavamo il cielo lontano di città, rosso di esplosioni, illuminato come a mezzogiorno.
Gli scoppi delle granate attutiti dalla distanza sembravano soffici come quelli nel grande camino al centro della casa.
Faceva freddo di notte in montagna, ma non si poteva accendere il fuoco, per la paura che il chiarore attirasse gli altri lampi nel cielo.
Avevo nelle orecchie il fragore del giorno e non riuscivo a prendere sonno, nonostante la stanchezza.
Allora mio zio Bernardo uscì dal buio e si avvicinò a me.
Tirò fuori dalla tasca il mio quaderno, lo aprì e me lo mostrò.
Se l'era messo in tasca quando eravamo scappati.
Stringeva ancora in mano una gomma-pane e rideva.
Quando sollevò la copertina nera del quaderno, notai che lo zio aveva cancellato tutte le frasi scritte a matita.
– Ecco il tuo quaderno – mi disse – ora è nuovo.
Poi mi guardò fisso con i suoi occhi nerissimi sotto le sopracciglia folte.
Stette così per un po'.
– Rammenti il silenzio?
– Sì, zio.
Dario de Giacomo vive a Salerno dal 1968 e talvolta scrive.
– Sì.
Mio padre fumava sul balcone. All'una del sole di luglio, scintillante tra i ferri anneriti della ringhiera. Di pomeriggio.
Gli amanti all'ombra dei portoni erano ancora ignari.
Dagli organetti a mano suonavano malinconiche le melodie ferrose degli zingari.
Zio Bernardo prese tra le grosse dita il quaderno, fitto della mia scrittura.
Le pagine giallastre sotto la copertina lucida erano spesse e io dovevo calcare le parole sulle righe con la matita dalla punta doppia.
Allora dall'orizzonte sul mare salirono scure masse nuvolose, roboanti veloci verso terra.
Si riversarono in schegge nell'aria d'estate, dilatandosi fino alle finestre spalancate. Prima un tintinnare lieve di cristalli, poi scuotendo le mura di casa che deflagrarono calcinacci sull'impiantito.
Nella caligine polverosa tutte le bombe piovvero tra le onde, risparmiando la città.
Dall'inizio del conflitto era il primo bombardamento a raggiungere quell'angolo di costa.
Gli allievi ufficiali della caserma erano strisciati per strada allo sbando, nella tenuta mimetica delle esercitazioni.
I proiettili della mitraglia aerea si infilarono nei vicoli, raggiunsero le colonne di soldati e li fissarono al suolo o contro gli alti muraglioni del centro storico.
Un'ondata di polvere marcia si sollevò verso il cielo. Ricadde ovunque sulla città, coprendo il chiasso.
Noi rimanemmo prigionieri sotto il tavolo di cucina, sospesi senza aspettare niente.
Là sotto rimanemmo così fino al segnale del pianto. Il pianto caldo di una bambina tra le parole smozzicate:
– Ė morta mamma. Ė morta mamma.
La cantilena colpiva chiunque si muovesse, come prima i proiettili sparati in strada.
Al centro della devastazione sua madre sedeva immobile e sorridente, solo un po' intontita dai crolli, intorno agli occhi.
Una granata esplodendo si era sfrangiata in un turbine di frammenti. Il più piccolo e solitario si era appuntato nel cuore della donna.
Quando le sirene suonarono, le mani robuste di mio zio ci trassero fuori da quel nascondiglio improvvisato.
Mio padre radunava in mucchi l'oro e gli oggetti sottratti alla guerra, da portare con noi.
– Dobbiamo muoverci subito – diceva. – Raggiungere la campagna prima di notte.
Temeva una nuova incursione che avrebbe devastato la città.
Quella notte dal mare veramente ritornarono gli aerei nemici, ma noi eravamo già lontani.
Camminammo per tutto il pomeriggio e buona parte della notte, lungo i sentieri di montagna che conducevano all'interno; a piedi per quasi tutto il tempo, oppure sulle stanghe dei carretti trainati dai muli.
Ora nel buio della masseria di zio Bernardo guardavamo il cielo lontano di città, rosso di esplosioni, illuminato come a mezzogiorno.
Gli scoppi delle granate attutiti dalla distanza sembravano soffici come quelli nel grande camino al centro della casa.
Faceva freddo di notte in montagna, ma non si poteva accendere il fuoco, per la paura che il chiarore attirasse gli altri lampi nel cielo.
Avevo nelle orecchie il fragore del giorno e non riuscivo a prendere sonno, nonostante la stanchezza.
Allora mio zio Bernardo uscì dal buio e si avvicinò a me.
Tirò fuori dalla tasca il mio quaderno, lo aprì e me lo mostrò.
Se l'era messo in tasca quando eravamo scappati.
Stringeva ancora in mano una gomma-pane e rideva.
Quando sollevò la copertina nera del quaderno, notai che lo zio aveva cancellato tutte le frasi scritte a matita.
– Ecco il tuo quaderno – mi disse – ora è nuovo.
Poi mi guardò fisso con i suoi occhi nerissimi sotto le sopracciglia folte.
Stette così per un po'.
– Rammenti il silenzio?
– Sì, zio.
Dario de Giacomo vive a Salerno dal 1968 e talvolta scrive.
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