ATTUALITA'
Alfredo Ronci
Lo sventrapapere di Benigni e l'acciaio poco cazzuto della Avallone.
L'elenco che Benigni fece durante uno show serale sabatino di fronte ad un'attonita ed impaurita Carrà non comprendeva il 'pipo'. La lista dei sinonimi del 'pisello' abbracciava: pisellino, pistolino, pipino, randello, banana, asta, verga, mazza, cetriolo, pesce, uccello e l'inimmaginabile sventrapapere. Riferimento 'alcuno sul 'pipo', anche se 'pipino' è un suo diminutivo.
Tutto questo perché? Perché in tempi di riprovazioni, l'ascia della censura che non calò sull'allora comico toscano (e per fortuna!) mi ha fatto vittima di una ricerca tutto sommato ingenua, dettata però dalla curiosità e perché no dalla misura: sul 'membro' (termine anch'esso assente nel catalogo benignano) dell'étoile della danza italiana, Roberto Bolle, che si è esibito come genitrice lo fece, in occasione di una Giselle al Teatro San Carlo di Napoli.
Perché dico vittima? Perché nella stanza dei bottoni dell'Amministrazione lungimirante che mi da uno stipendio mensile (non si vive di sola letteratura) alcuni sagaci sodali del poterucolo burocratico hanno vietato la visione del 'pipo' oscurando i relativi video su you-tube.
Si dirà: poca cosa, uno va a casa e risolve l'arcano. Giusto, ma l'impressione ricevuta è quella di una subitanea attenzione alle piccole (piccole? Chissà!) cose della vita, e non alle disfunzioni impiegatizie e della stessa Autorità.
Si lasci il caso, non conviene insistere troppo: ci taccerebbero di voyerismo, e i più informati citerebbero Deleuze del perché le idee...si incarnano nelle immagini sonore. Ma è insano dire che il quotidiano vive (sopravvive?) di piccoli eventi? Che anche nel frammento vi è il segno di una parziale verità? (in fondo abbiamo amato Saffo ed Archiloco perché incompiuti). E che quindi il 'pipo' di Bolle equivale ad un buon caffè (al di là della misura dello stesso), ad un piatto di lasagne e ad un buon libro?
Sulla terza sostanza qualcuno potrebbe obiettare: la lettura di un buon libro non è esperienza fugace, tanto meno frammento del vivere. Nemmeno un'esperienza limitatamente sensoriale. Piuttosto la quadratura del cerchio: dove la componente del proprio vissuto si riversa sulla lettura e la stessa agisce di rimando, nonostante molte persone, per mancanza di tempo, 'divorino' i propri libri sui tram, sugli autobus, sui treni o nei momenti, brevi, di attesa. Che però, altroché, sono il nostro vissuto!
Rimane che il mangiare o altre esperienze di gusto e il leggere sono comunque esperienze, diverse forse, ma entrambe essenziali (non di solo pane si vive! O come direbbero i napoletani... chi fraveca e sfraveca nun perde maje tiempo) nella diversa concezione della divisione del tempo.
E quando un libro fa schifo come può esserlo un piatto? Quando si ha l'idea precisa e quasi tangibile di una perdita di tempo per il quale, lo abbiamo detto, anche il frammento e l'esperienza parziale può essere esclusiva?
Risposta: dovremmo chiedere i danni.
Si prenda Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli). In un batter d'occhio è diventata (lei poco più che venticinquenne) la nuova promessa della letteratura italiana. Qualcuno, in vena di scherzi in verità, l'ha agganciata, come fosse una palla di Natale, all'albero genealogico del Salinger, per quanto riguarda le storie di formazione, al Bianciardi, per quanto riguarda certe ambientazioni, e addirittura al Cassola più proletario.
Si sa, i proletari non esistono, sono solo un'invenzione della sinistra comunista (secondo Berlusconi) e se anche sono esistiti, la frammentazione (questa sì!) dell'informazione pubblica ce li suggerisce in via d'estinzione. Dunque cosa blaterare sulla proletarietà della Avallone solo perché racconta di un'acciaieria in quel di Piombino (per questo il titolo) dove si consuma anche una morte bianca?
No: la fabbrica è un mezzo per realizzare un fine, e quest'ultimo è tutt'altro che la rappresentazione del sangue e sudore degli operai (ma sì, sono un 'vecchio' comunista). E' il raggiungimento ultimo dello schematismo contemporaneo che vede l'editore salivare dietro le storie di giovani alle prese col nulla cosmico e con le sue componenti: alcool, droga, viaggi di qualsiasi tipo, frammentazione (ancora!) del sentimento, fallimenti generazionali, de-ideologizzazione, assenza di futuro, mercificazione dell'immagine.
La storia: Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d'uscita. Poi un giorno arriva l'amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l'amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. (Descrizione presa di sana pianta da: libreria universitaria.it, perché è più che sufficiente).
In verità Acciaio è il moccismo (inavvertitamente, pensando di far bene, La Nazione di Livorno ha titolato: 'Tre metri sopra le acciaierie') scambiato per pascolismo (sulle diverse identità del 'buon sentimento' magari ne riparliamo), la banale elementarietà del vissuto per il coriandolismo dei sentimenti, il fancazzismo dell'indigena letteratura per un neorealismo cassoliano, la scrittura a perdere, come direbbe il professor Ferroni, per la perdita dell'innocenza (nella vomitevole prassi consolidata del romanzo di formazione, ma che coglioni!).
Acciaio, come la stragrande maggioranza della narrativa giovane-già vecchia è un enorme bluff, (candidato al premio Strega: ma è uno scherzooooo?) è il risultato politico del berlusconismo imperante (non è un ricondurre al 'solito' il mio insulto, è invece l'espressione più vergine del problema, perché come ha detto giustamente Vendola in Tv, Berlusconi non è un problema politico, ma culturale). Ed in più è inutile aggiungere che la giovane scrittrice è figlia dei tempi: quelli dove, come diceva Altan, infuria la polemica ma non succede mai un cazzo (o forse sarebbe il caso di dire 'non succede mai un 'pipo').
Mi piace concludere citando un anonimo (che io conosco). Nessuno come lei (la Avallone, ovvio) rende essenza l'inessenza e l'inessenza essenza. Senza comunque.
E noi che la leggiamo e perdiamo il nostro tempo, stiamo pure peggio.
Tutto questo perché? Perché in tempi di riprovazioni, l'ascia della censura che non calò sull'allora comico toscano (e per fortuna!) mi ha fatto vittima di una ricerca tutto sommato ingenua, dettata però dalla curiosità e perché no dalla misura: sul 'membro' (termine anch'esso assente nel catalogo benignano) dell'étoile della danza italiana, Roberto Bolle, che si è esibito come genitrice lo fece, in occasione di una Giselle al Teatro San Carlo di Napoli.
Perché dico vittima? Perché nella stanza dei bottoni dell'Amministrazione lungimirante che mi da uno stipendio mensile (non si vive di sola letteratura) alcuni sagaci sodali del poterucolo burocratico hanno vietato la visione del 'pipo' oscurando i relativi video su you-tube.
Si dirà: poca cosa, uno va a casa e risolve l'arcano. Giusto, ma l'impressione ricevuta è quella di una subitanea attenzione alle piccole (piccole? Chissà!) cose della vita, e non alle disfunzioni impiegatizie e della stessa Autorità.
Si lasci il caso, non conviene insistere troppo: ci taccerebbero di voyerismo, e i più informati citerebbero Deleuze del perché le idee...si incarnano nelle immagini sonore. Ma è insano dire che il quotidiano vive (sopravvive?) di piccoli eventi? Che anche nel frammento vi è il segno di una parziale verità? (in fondo abbiamo amato Saffo ed Archiloco perché incompiuti). E che quindi il 'pipo' di Bolle equivale ad un buon caffè (al di là della misura dello stesso), ad un piatto di lasagne e ad un buon libro?
Sulla terza sostanza qualcuno potrebbe obiettare: la lettura di un buon libro non è esperienza fugace, tanto meno frammento del vivere. Nemmeno un'esperienza limitatamente sensoriale. Piuttosto la quadratura del cerchio: dove la componente del proprio vissuto si riversa sulla lettura e la stessa agisce di rimando, nonostante molte persone, per mancanza di tempo, 'divorino' i propri libri sui tram, sugli autobus, sui treni o nei momenti, brevi, di attesa. Che però, altroché, sono il nostro vissuto!
Rimane che il mangiare o altre esperienze di gusto e il leggere sono comunque esperienze, diverse forse, ma entrambe essenziali (non di solo pane si vive! O come direbbero i napoletani... chi fraveca e sfraveca nun perde maje tiempo) nella diversa concezione della divisione del tempo.
E quando un libro fa schifo come può esserlo un piatto? Quando si ha l'idea precisa e quasi tangibile di una perdita di tempo per il quale, lo abbiamo detto, anche il frammento e l'esperienza parziale può essere esclusiva?
Risposta: dovremmo chiedere i danni.
Si prenda Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli). In un batter d'occhio è diventata (lei poco più che venticinquenne) la nuova promessa della letteratura italiana. Qualcuno, in vena di scherzi in verità, l'ha agganciata, come fosse una palla di Natale, all'albero genealogico del Salinger, per quanto riguarda le storie di formazione, al Bianciardi, per quanto riguarda certe ambientazioni, e addirittura al Cassola più proletario.
Si sa, i proletari non esistono, sono solo un'invenzione della sinistra comunista (secondo Berlusconi) e se anche sono esistiti, la frammentazione (questa sì!) dell'informazione pubblica ce li suggerisce in via d'estinzione. Dunque cosa blaterare sulla proletarietà della Avallone solo perché racconta di un'acciaieria in quel di Piombino (per questo il titolo) dove si consuma anche una morte bianca?
No: la fabbrica è un mezzo per realizzare un fine, e quest'ultimo è tutt'altro che la rappresentazione del sangue e sudore degli operai (ma sì, sono un 'vecchio' comunista). E' il raggiungimento ultimo dello schematismo contemporaneo che vede l'editore salivare dietro le storie di giovani alle prese col nulla cosmico e con le sue componenti: alcool, droga, viaggi di qualsiasi tipo, frammentazione (ancora!) del sentimento, fallimenti generazionali, de-ideologizzazione, assenza di futuro, mercificazione dell'immagine.
La storia: Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d'uscita. Poi un giorno arriva l'amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l'amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. (Descrizione presa di sana pianta da: libreria universitaria.it, perché è più che sufficiente).
In verità Acciaio è il moccismo (inavvertitamente, pensando di far bene, La Nazione di Livorno ha titolato: 'Tre metri sopra le acciaierie') scambiato per pascolismo (sulle diverse identità del 'buon sentimento' magari ne riparliamo), la banale elementarietà del vissuto per il coriandolismo dei sentimenti, il fancazzismo dell'indigena letteratura per un neorealismo cassoliano, la scrittura a perdere, come direbbe il professor Ferroni, per la perdita dell'innocenza (nella vomitevole prassi consolidata del romanzo di formazione, ma che coglioni!).
Acciaio, come la stragrande maggioranza della narrativa giovane-già vecchia è un enorme bluff, (candidato al premio Strega: ma è uno scherzooooo?) è il risultato politico del berlusconismo imperante (non è un ricondurre al 'solito' il mio insulto, è invece l'espressione più vergine del problema, perché come ha detto giustamente Vendola in Tv, Berlusconi non è un problema politico, ma culturale). Ed in più è inutile aggiungere che la giovane scrittrice è figlia dei tempi: quelli dove, come diceva Altan, infuria la polemica ma non succede mai un cazzo (o forse sarebbe il caso di dire 'non succede mai un 'pipo').
Mi piace concludere citando un anonimo (che io conosco). Nessuno come lei (la Avallone, ovvio) rende essenza l'inessenza e l'inessenza essenza. Senza comunque.
E noi che la leggiamo e perdiamo il nostro tempo, stiamo pure peggio.
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