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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Michael Pergolani

Natale a Città del Capo

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S'era incazzato come una bestia.

Franco era sempre incazzato. A volte più del solito e quella volta s'era incazzato come una bestia. Aveva preso quel figlio di troia e l'aveva scaraventato contro la finestra che dava sul cortile. Un casino. Il vetro era esploso e le schegge avevano fatto un macello sul corpo del figlio che, coperto di sangue, s'era messo a strillare come un ossesso. S'era salvato perché la finestra stava a piano terra e perché Emma era uscita dalla camera da letto e, in mutande e reggipetto com'era, aveva preso Andrea ed era corsa al San Giovanni. Al figlio di troia gli avevano tolto qualcosa come trecento pezzetti di vetro dalla carne e l'avevano tutto ricucito.

La polizia era arrivata due ore dopo l'incidente. Prima che Emma tornasse dall'ospedale. Lui non aveva detto niente ma era riuscito a recuperare un grammo dei cinque che Andrea starnutendo aveva soffiato sulla moquette. Se l'era tirato prima che il campanello suonasse.

S'era fatto quattro anni. Poi era tornato. Emma l'aveva accolto in casa ma c'era un'atmosfera da schifo. Lo odiava. Anche il figlio di troia lo odiava. Ogni volta che lui entrava in casa il piccolo, ch'aveva ormai undici anni, si metteva a frignare e se ne scappava in camera sua. Non gli si era mai affezionato. A dir la verità, non s'erano mai affezionati l'un l'altro. Quando Emma era rimasta incinta aveva fatto di tutto per convincerla ad abortire, ma lei, niente... Un giorno l'aveva riempita di calci in pancia, ma non era successo niente. Quel bastardino era attaccato alla vita più, più di un... non gli veniva la parola. Aveva passato nove mesi d'inferno. Il periodo più merdoso in assoluto. S'era fatto e strafatto, s'era spappolato il cervello, girava peggio d'un barbone, non trovava pace finché non riusciva a perdere coscienza. A casa ci passava, sì e no, una o due volte a settimana e finiva sempre alla stessa maniera, a botte. La cosa che più di tutte gli faceva perdere la brocca era che lei non lo faceva neanche avvicinare, ch'aveva tirato giù la saracinesca... troia!

Non sarebbe rimasto a lungo in quella casa. Dopo Capodanno sarebbe partito per Genova. Una città di merda, ma l'una valeva l'altra. Erano tutte città di merda. Grigie, sporche, fradice, squallide. Buchi neri. Città mondezza per milioni di topi, per milioni di topi fetenti. Tutti figli di troia. Il più onesto tagliava la roba con la stricnina. Merda.

A Genova ci sarebbe rimasto solo il tempo a fare un po' di grana, forse fino a primavera... poi l'Africa. Su uno di quei pozzi petroliferi piantati in mezzo al mare. Due, massimo tre anni di culo e poi, coi soldi, si sarebbe comprato una fattoria vicino a Città del Capo. Avrebbe fatto la bella vita. Pensava ad una casa di legno col patio, in cima ad una collina con in testa un ciuffo di palme. Pensava alla luce forte, alle ombre nere, alla terra rossa ch'aveva visto a Quark. Pensava ad un cielo così blu, che non poteva esserci... Un amico gli aveva detto che c'erano un sacco di troie nere da scopare da quelle parti. Già ci si vedeva. Servito e riverito. Leccato e spompinato. Al caldo, con fuori il sole... Merda.

- «Franco...», s'era sentito chiamare.

S'era girato. Sulla porta della cucina c'era Emma. Era in mutande e reggipetto, ma coi capelli pettinati perbene, come fosse appena andata dal parrucchiere. Alla sua sinistra quel figlio di troia di Andrea.

- «Buon Natale, papà», aveva detto Andrea.

Emma aveva una strana luce negli occhi. Andrea teneva con entrambe le mani la calibro 22 che lui aveva comprato l'anno precedente per non farsi fottere dai pusher.

- «Figlio di troia...», era riuscito a dire. Solo quello.











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