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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Massimo Grisafi

Nessuno escluso

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Ho dato a tutti appuntamento alla curva del canale, là dove si vede bene l'acqua e c'è un bel panorama. Li aspetto seduto a un tavolino piccolo, indosso un paio di occhiali scuri e vesto con eleganza... è un lavoro duro quello che sto per fare, e allora che diamine, che si goda almeno un po'!

Ho ordinato dell'acqua e menta, un po' per il colore, un po' perché avrò bisogno di bere ogni tanto per il gran parlare. Sapete, le domande dovranno essere precise, e poi un minimo di discorso in queste circostanze è d'obbligo. Ma a loro no, non offrirò niente; che stiano a patire un po' sotto questo pallido sole di gennaio.

Mentre aspetto il primo personaggio, e francamente mi domando perché l'abbia scelto per primo, mi capita di pensare che avrei dovuto farmi sostenere da un amico... per conforto, immagino, per un commento ogni tanto, o per farmi sostituire da lui nei momenti di difficoltà. Ma ormai è andata così, bisognerà procedere comunque con o senza compagnia. Un ultimo pensiero va al mio amico siciliano, Enzo: forse è proprio lui che avrei voluto a fianco...

Ecco il primo che avanza, lo vedo bene mentre arranca su per la salita...che gusto vederlo soffrire!

- Posso sedermi? - chiede quando mi arriva davanti.

- La divisa - gli dico. – Almeno il buon gusto di togliersi la divisa dopo tutto quello che è successo.

Freme fino nell'intimo della sua figura e reprime a stento il suo sdegno.

- Generale - dice , - mi chiami generale.

- Si sbrighi a darmi quello che deve: non credo che lei sia più in grado di accampare richieste. Anche se i suoi accusatori si sono tutti ritirati, c'è ancora qualcuno in piazza che la sta cercando.

Mi allunga una borsa di cuoio lisa dagli anni, ma non si siede perché mi sono scordato di dargli il permesso. Guardo dentro.

- Ci sono tutti? – domando.

- Tutti - risponde.

Mi distraggo da lui per esaminare il contenuto della cartella... ci sono davvero tutti: le loro foto, i loro nomi, le date, i luoghi dove quei cani li hanno sepolti... in formato tessera, senza commenti, solo i nominativi e le date.

- Posso andare? - sento che chiede. – E' tutto a posto adesso? - insiste.

- Cosa? - dico io. – Sì, sì, vada pure. Queste le tengo io, lei è pulito adesso...

Ma non si muove.

- Che cosa c'è ancora?

- E le madri?

- Ti porto via i cadaveri, generale. Dei vivi dovrai preoccupartene tu. E adesso vattene.

Lo seguo allontanarsi giù per il viale e trattengo a stento un conato di vomito... amo la solitudine e vorrei fermarmi qui, ma già un altro si avvicina.

Uno sgherro, mi dico. Questo è proprio uno sgherro.

- Quanti ne ha fatti fuori con quella là? – e indico l'attrezzo.

Non risponde, non ha voglia di parlare: evidentemente ha fretta di chiudere l'affare.

- Prendi questo – e mi allunga il suo materiale.

- Erano extra comunitari? – domando.

- Tutti clandestini – sottolinea lui; e stavolta sorride, di sghimbescio. Gli manca qualche dente e ha un alito che puzza di alcol e di fumo.

- E non c'era altro modo? – mi sorprendo a chiedere; ma so già che non avrò risposte a domande superflue. Del resto, non sono qui per questo. Lo congedo con un gesto, non so se sia peggiore lui del primo. Guardo in basso sotto il tavolo, dove metto il raccolto: poveri cristi, se soltanto avessero avuto un'altra scelta...

Acqua e menta giù di un fiato, a scacciare questo senso di vomito che mi si è piantato in fondo alla gola.

Il terzo non l'ho visto arrivare. Mi dà delle carte quasi con rammarico. Gliele devo strappare via di mano.

- E questa che roba è? – domando. Oh, mio Dio: materiale pedo pornografico. Questo no, di questo avrei fatto volentieri a meno; ma purtroppo non ho scelta, è necessario andare avanti. Metto via in fretta questa volta, senza controllare.

- E adesso? – mi dice il verme.

- E adesso fila – faccio io. – Purtroppo sei libero.

Non so se fa finta di non capire o se la cosa non lo riguarda; ma stenta ad andarsene. Lancio un urlo stavolta, e lui scappa.

Qualcuno mi guarda dal tavolo a fianco, con preoccupazione, ma ho ancora un bel sorriso e li rassicuro.

È poi la volta dell'africano della Sierra Leone che mi porta tutti i fucili di tutti i bambini arruolati; ne faccio un enorme fascio e metto via. Prima però scambio un breve colloquio in inglese con lui, più che altro per rendermi conto se ha mai avuto dei figli. Orribile a dirsi, ne ha dodici con quattro mogli diverse!

Il soldato israeliano è giovanissimo e avanza a fatica su per la stradina; trasporta un blocco di qualcosa che da lontano non riesco a capire bene che cosa sia. È grigio e fa uno strano rumore strisciando contro l'asfalto. Lui è ancora in divisa mimetica, ha il fucile a tracolla con la canna rivolta verso il basso e altri venti chili sulle spalle di attrezzatura varia. Dalla radio d'ordinanza sull'elmetto escono dei bzzz ogni tanto. Quando è a un passo da me, capisco che quello che trascina è un pezzo del muro che divide Gerusalemme dai territori palestinesi. Sorride quando me lo porge, e mi assicura che altri suoi colleghi stanno facendo altrettanto. Pochi giorni e di quel muro non rimarrà più niente in piedi...

Lo ringrazio e metto dentro.

E poi via via tutta una serie di soggetti, in ordine sparso, ciascuno col suo triste fardello: provo pietà per il terrorista che ha massacrato una famiglia intera, ma non mi commuovo neanche un po' di fronte al mafioso che ha ordinato la strage di C. Prendo tutto, tutto annoto, poi metto via, in fondo al contenitore, sempre più dentro, sempre più giù.

Il presidente della multinazionale prova a trattarmi come un suo subalterno, ma gli ricordo che sarà grazie a me se la sua discendenza non avrà più a che fare con le porcherie che fabbrica. Allora sta fermo al suo posto ad osservarmi mentre metto via i suoi tabulati.

Lo scafista è una persona brutta e volgare che parla una lingua incomprensibile: probabilmente comprende solo il linguaggio dei soldi, il passa mano della banconota frusciante.

- Quante ne hai intascate oggi? – gli domando, ma ovviamente non capisce e abbozza un sorriso di scuse.

Ecco una donna, Madame Gennet, un po' invecchiata dall'ultima volta che è apparsa in manette in una foto, e forse un po' più perfida.

- Niente più viaggi della morte – le raccomando in un perfetto francese.

Quelli del branco arrivano un'ultima volta tutti assieme, un'ultima volta strafottenti, e se ne vanno via un'ultima volta a testa bassa...

E poi basta, si è fatta sera, tira un bel vento gagliardo e il contenitore è pieno.

*

Lei arriva in silenzio, quasi senza preavviso, mi guarda e subito mi sento come se mi entrasse dentro. Una mano nel suo guanto.

- Dimmi qualcosa – mi dice. – Qualcosa che è successo oggi.

Chiudo gli occhi e recito a memoria... - Il ministro dell'economia Giulio Tremonti ribadisce che il tesoretto non esiste. Vertice a palazzo per rifare i conti. – E ancora: - Mr. Obama ha giurato fedeltà alla nazione dopo che Aretha Franklin ha cantato per lui...

- Bello – commenta lei. – E poi cos'altro?

- Poi c'è questo – e indico il contenitore.

Lo tocca con cautela, lo tasta; ma poi lei è dentro di me, quindi sono anch'io che lo tocco, con cautela, e lo tasto.

- Dobbiamo andare – ci diciamo.

Tolgo via gli occhiali scuri e li getto via, nell'acqua del canale. Galleggeranno, mi domando? E comunque, è davvero un bel giorno per partire.

- Che cosa lasceremo ai nostri figli? – le chiedo mentre prende il contenitore tra le braccia. - Intendo: oltre al conto in banca e all'azienda di famiglia. Non lo so che cosa lasceremo...

- Sì che lo sai – mi risponde lei con un bel sorriso. È già avanti a me, che cammina. Si volta indietro a guardarmi: - Un gran bel ricordo, vedrai. E poi c'è questo vaso. Da non aprire.

Concordo anch'io. E poi c'è il vaso da non aprire.

Assolutamente mai...





Aprile 2007,

poi aggiornato dopo l'elezione di Mr. Obama





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