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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Giuseppe Di Berardi

Oggi pranzo con Sharon al Vanilla's.

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Oggi pranzo con Sharon al Vanilla's, il nuovo bistrò su corso Casale1, ma nonostante abbia completato con successo tredici esercizi di scrittura, presi direttamente dal Manuale del Perfetto Scrittore, sono ancora estremamente nervoso. E' difficile individuare la ragione di questo mio stato d'animo, ma sono giunto alla conclusione che, molto probabilmente, piacendomi molto Sharon, ho paura di essere rifiutato da lei ed essere rifiutato veramente mi porterebbe vicino al suicidio sull'orlo di un precipizio.

Anche se c'è da dire che è stata lei a chiamarmi al telefono di casa. Lei mi vuole vedere, lei vuole pranzare insieme a me, e forse vorrà poi anche fare quel qualcosa che viene chiamato – sesso.

Per fare in modo che non si esauriscano gli argomenti di conversazione durante il pranzo, ho cercato di leggere un nuovo libro di racconti molto trendy, intitolato I cani là fuori, di Gianni Tetti, che ho comprato l'altro ieri da una libreria specializzata in uscite di piccole case editrici.





Ci incontriamo davanti al Vanilla's, io e Sharon. Apriamo la porta d'ingresso del bistrò.

Un cameriere – dopo averci adocchiato, dopo esserci venuto incontro, dopo averci dato il benvenuto – ci accompagna a un tavolino prenotato il giorno prima da Sharon.

Ci sediamo. Il cameriere si accomiata.

Mi protendo verso Sharon e la guardo negli occhi, per qualcosa come – tre minuti? La guardo intensamente, a bocca aperta, come se stessi ammirando la Gioconda. Sharon, per tutti i tre minuti, mi guarda con aria interrogativa.

Terminati i tre minuti, conto fino a dieci con le dita della mano destra, dopo di che – le chiedo: «Mi trovi brutto? Ho qualcosa che non va? Perché mi guardi così?».

«Così come?».

«Come se fossi brutto».

«Ma tu non sei brutto, Vanny. Hai anche una bella camicia, dove l'hai presa?».

«Da Zara2, scontata del venti per cento».

«Da Starbuck's ho visto la tua stessa camicia, e costava dodici euro e novantanove».

«Cosa hai detto, scusami?» le chiedo io, sinceramente preoccupato. «Dodici euro e novantanove? Da Starbuck's? Sei sicura che fosse la stessa camicia che vedi adesso davanti ai tuoi occhi?».

«Sì, sono sicura» risponde lei, e poi: «Tu quanto l'hai pagata?» mi chiede.

«Cosa?» replico.

«La camicia che indossi» ribatte lei.

«Uh... be'. Trentun... trentun... trentun» dico, esitante.

Sharon abbassa timidamente lo sguardo a ogni mio "trentun". Poi dice, venendomi in aiuto: «Trentun'euro e novantanove».

«Trentun'euro e novantanove» replico tutto d'un fiato. «Devo bere qualcosa. Adesso» proseguo, inspirando ed espirando affannosamente. Devo pure fare uno sforzo smisurato per dispiegare il tovagliolo, sistemarlo in grembo e ricompormi, per poi tenermi occupato con la caraffa d'acqua. Dio come mi tremano le mani per un po' d'acqua in un bicchiere.

«Stai bene, Vanny? Ti tremano... ti tremano le mani» dice Sharon. Intanto la coppia seduta al tavolo accanto al nostro si volta a guardarci. Ci fissano finchè io non riprendo a parlare, di nuovo esitante: «Sì... certo... sto benissimo, e tu?».

Sharon solleva interrogativamente le sopracciglia, facendo giustamente passare la mia domanda per inopportuna. «Perché me lo chiedi?» mi domanda.

«Non lo so... forse perché...» dico a voce bassissima, quasi bisbigliando.

Il cameriere si avvicina e Sharon dice, osservando attentamente il menù: «Io prendo un risotto al tartufo bianco d'Alba».

«Anch'io. Un risotto al tartufo bianco d'Alba» aggiungo, mentre una gamba (la mia – quella destra) si mette a ballare sotto il tavolo senza che riesca a controllarla.

«D'accordo. Due risotti al tartufo bianco d'Alba» dice lui, sorridendo verso Sharon, facendomi notare che ha notato la mia gamba ballare sotto il tavolo, e trasmettendo l'ordine elettronicamente.

«Aspetta un attimo» dico, alzando una mano come se chiedessi la parola e guardandolo, al cameriere, forse torvo forse no forse non lo so. «Aspetta un attimo» ripeto.

«Sì, signore?» ribatte il cameriere, confuso.

«Quali – e quante – camicie – vendete – dentro questo – ristorante?» chiedo, enfatizzando ogni singolo spezzone.

«Come, scusi?» dice il cameriere, guardandomi. Poi, esterrefatto passa a guardare Sharon, che gestisce al meglio la situazione, chiedendogli: «Come servite il risotto al tartufo bianco d'Alba?».

«Fumante» risponde il cameriere, che molto probabilmente avverte di avere a che fare con qualcuno sull'orlo di un esaurimento nervoso. «Viene servito fumante» riattacca. «Prende altro, lei, signorina?» chiede. E subito dopo – aggiunge: «E lei... signore?».

«Io prendo quello che prende Sharon» e lancio uno dei miei due mignoli verso Sharon. E rimango immobile per qualcosa come – un'eternità.

«Sformatino di ricotta» dice Sharon, lanciando un'occhiata veloce al cameriere, che annuisce e se ne va.

«Senti» prosegue Sharon. «Sei stato a qualche concerto, di recente?».

«No» rispondo.

«Non mi avevi detto che ami la musica, follemente?» mi chiede.

«Follemente?» replico.

«Sì. Parole tue. Amo la musica follemente».

«Sì. La amo. Ma non saprei dirti altro».

«Non mi avevi detto che eri andato a vederti i Green Day, al Palaisozaki?».

«Sì. Due settimane fa».

«E com'erano?» mi chiede.

«Grandiosi. Assolutamente grandiosi. Assolutamente... » esito, incerto su come continuare.

«Assolutamente punk» dice lei.

«Sì, assolutamente punk» confermo io.

«Altri gruppi musicali che ti garbano?» chiede lei.

«I Police» rispondo io.

«Poi?» chiede.

«I Depeche Mode» rispondo.

«Poi?» chiede.

«I Nine Inch Nails» rispondo.

«Molto... aggressivi» dice lei.

Sorrido con il naso al posto della bocca e un dente che mi fa da pupilla nell'occhio destro. L'occhio sinistro penzola. «Molto bravi!» dico entusiasta.

«Bravi?» mi chiede.

«Sì, bravissimi» dico.

«E a me, invece?» dice.

«E a te, invece, che musica ti piace?» dico.

«Shakira» dice.

«Brava» dico.

«Lady Gaga» dice.

«Brava» dico.

Annuisce, esita. Poi, fa per dire qualcosa – esita di nuovo, poi mi chiede: «Come va il tuo lavoro di scrittore?».

«Non intendo affrontare l'argomento» rispondo, tagliando corto.

«Come vuoi tu» dice.

Mi chiede: «Cosa c'è che non va?».

Rispondo: «C'è solo che non mi va di parlare di...».

Mi chiede: «Del tuo lavoro?».

Rispondo: «Sì». Poi aggiungo: «Del mio lavoro». Poi ripeto: «Del mio lavoro».

«Perché no?» mi chiede.

«Perché lo odio» rispondo.

«E perché lo odi?» mi chiede.

«Perché sì» rispondo.

«Se il tuo lavoro non ti piace» dice lei. «Perché non lasci perdere?».

«Perché non voglio lasciar perdere».

«E allora non lasciar perdere».

«Mai» dico, dopo di che, incapace di non dar voce alle mie parole, umiliandomi più di quanto non mi sia mai capitato in vita mia, confesso: «Senti, Sharon. Una volta ho provato a farmi un pompino da solo sul water di casa mia».

Il cameriere ci porta i due risotti al tartufo bianco d'Alba. Sharon, dopo averlo ringraziato con un cenno della testa, mi dice disgustata: «Oh, mio dio. Vanny, ma che cosa mi confessi?».

«Senti, Sharon» dico, toccandole una mano – lei si ritrae inorridita. «Volevo sapere se tu... se tu li fai. Li fai? Perché io avrei bisogno di te».

«Hai preso coraggio, vedo».

«Sì, molto. Che ne pensi? Potrebbe accadere? Io me lo lavo ogni due ore, ogni giorno, da tanti anni».

Sharon si stringe nelle spalle per poi cambiare argomento: «Senti» mi dice,

sorridente. «Quali sono i tuoi film preferiti?».

Nell'istante in cui dice – film preferiti – le sue guance si rigano di lacrime di sperma. Poi la osservo mentre si stordisce da sola dando uno, due, tre colpi con la testa contro la parte alta del tavolino.

Mentre lei fa questo, io penso ad altro: all'acqua, all'aria, al fuoco, al cielo, alle galassie, agli ultimi sviluppi della mia vita, alle ragnatele nelle aule delle scuole, ai Kellog's, ai Rolex, alle felpe Ralph Lauren, ai miei polpastrelli, alle gocce di pioggia che, cadendo su tutte le superfici del mondo, provocano, a seconda della superficie su cui cadono, suoni diversi. Come le persone, con le loro voci, ognuna il proprio suono.













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