RACCONTI
Dafne Amari
Partire
All'età di quarantotto anni Anselma D. si ritrovò con una vita già in parte spesa e un po' di soldi ancora da spendere. Oltre a ciò disponeva di poche cose: un nome che le era sempre sembrato orribile, una faccia che a voler essere ottimisti era semplicemente banale, un lavoro scelto per caso, poche conoscenze e nessuna amicizia, e infine l'ombra di un uomo giusto sempre atteso e mai arrivato.
Tutto ciò non bastava ancora per determinarla a partire. Lo spunto fu un problema di salute ancora non definito, una serie di accertamenti diagnostici eseguiti ma di cui non aveva ancora ritirato i referti. Fu in questo lasso di tempo, sospeso fra la domanda e la risposta, che Anselma decise il suo viaggio.
Cercò in agenzia un'occasione dell'ultimo minuto, ponendo l'unica condizione che si trattasse di un viaggio per mare. Le trovarono una sistemazione sul postale dei fiordi che risaliva la costa norvegese da Bergen a Capo nord. Era giugno inoltrato, e in quel mese la rotta l'avrebbe portata dalla latitudine delle notti brevi a quella dei giorni senza fine. Sorrise fra sé, pensando a quanto fosse appropriato questo itinerario che saliva a sconfiggere la notte, a inchiodare il sole sopra la linea dell'orizzonte. Come sospendere il corso del tempo. Viaggiare le era sempre sembrato un modo di esorcizzare la morte. L'associazione le veniva così spontanea che alla fine era diventato anche un modo per evocarla. Ora le incertezze sul suo stato di salute la trattenevano dall'indugiare troppo a giocare con queste idee.
In valigia mise poche cose, ma adatte a tutte le stagioni. Anche questo le piacque: portarsi dietro una sintesi del guardaroba di un anno, come se il viaggio dovesse durare un tempo indefinito.
La nave era un robusto esemplare della flotta Hurtigruten, con la chiglia nera bordata da una striscia rossa, e i ponti dipinti di bianco. Lunga 124 metri, poteva ospitare fino a 690 passeggeri, suddivisi in 490 cabine. Una piccola città, in cui poter conservare l'anonimato, se voleva, ma anche fare conoscenze e amicizie. La parte più folle della mente le diceva che poteva essere il momento buono per una storia d'amore.
Raggiunta Bergen in aereo, sbrigò meccanicamente le operazioni d'imbarco, con una strana assenza di emozioni. Era come se, una volta deciso il viaggio, il più fosse fatto.
La prima emozione, sgradevole, l'ebbe nel prendere possesso della sua cabina. Era una cameretta a due letti, di cui uno sarebbe rimasto vuoto. Viaggiava sola. La cabina era sufficientemente confortevole e necessariamente spartana. L'idea di rimanere intrappolata in quel cubicolo notte dopo notte, per tutto il tempo del viaggio, le causò un groppo alla gola.
La finestrella si affacciava all'esterno, sul ponte numero cinque. Scostando la tendina vide le strutture del porto. Benché fosse sera, il sole era ancora alto. Rinviò ad altro momento la sistemazione del bagaglio e si distese ad occhi chiusi sul letto in attesa della partenza. Si assopì.
Quando si risvegliò era notte. Distesa nel buio ora avvertiva una presenza quieta e rassicurante: il grande corpo della nave che vibrava sotto di lei. Stava filando sicura verso l'estremo nord del mondo. Anselma sentì che non poteva fare a meno di abbandonarsi alla forza oscura che la trasportava. Sentì che poteva fidarsi.
Il giorno dopo la nave imboccò il Geirangerfjord. A bordo c'era un piccolo gruppo di turisti italiani. Scambiò con loro qualche parola cordiale, ma si accorse di essere scarsamente interessata ad approfondire la conoscenza. Si trattava prevalentemente di coppie, giovani o anziane, in viaggio di nozze o per le nozze d'argento. Mancava, e non se ne stupì, il viaggiatore solitario dal viso indurito dal sole e il cuore pronto a intenerirsi, personaggio che a volte lei vagheggiava nei suoi sogni puerili.
Durante una sosta ad Alesund scese a terra, ma si sentì spaesata. Gli altri turisti ammiravano l'architettura liberty delle case ricostruite dopo l'incendio del 1904. Anselma fu felice quando udì la sirena della nave che li avvertiva della partenza imminente. Sembrava il barrito di un elefante. Un elefante femmina, che chiamava a raccolta i suoi piccoli.
I pasti si consumavano nel grande salone del ponte numero quattro, e dopo mangiato Anselma si fermava a sorseggiare un caffè ad uno dei tavolini allineati lungo la vetrata panoramica. Aveva un libro da leggere ma non leggeva. La nave procedeva veloce, e il panorama riservava continue sorprese.
Fendevano arcipelaghi fitti come la Via Lattea. Miriadi di isolotti venivano loro incontro, brulli e lisci come dorsi di balene. Ci si avvicinava al Circolo Polare. Davanti alla prua si apriva un orizzonte di luce.
Anselma non provava più fastidio nello stare chiusa in cabina. Le ore di buio diminuivano in fretta, e anche di notte il cielo conservava un grigiore di perla. I ritmi della veglia si alteravano. Nel pomeriggio Anselma sprofondava in un sonno pesante che le toglieva il senso del tempo. Di notte si svegliava più volte e scostava la tendina per guardare il paesaggio che scorreva oltre il bordo della nave. C'era luce anche alle tre di notte, e le isole cambiavano forme e dimensioni. Ne vide alcune splendere alte come piramidi rossastre, altre stendersi piatte o dolcemente arcuate, brulle o coperte di vegetazione. Quasi tutte apparivano deserte. Qua e là una caletta ospitava una casa e una barca da pesca legata al pontile di legno. Anselma guardava godendo, più che del paesaggio, del movimento che faceva continuamente mutare le prospettive: le dava il senso della velocità della nave, del suo procedere incessante. Riaccostava la tenda e si sdraiava bocconi con l'orecchio incollato al materasso. Avvertiva un ronzio sordo, più vibrazione che rumore. Una pulsazione animale. Immaginava il grande cuore nascosto nella sala macchine, vivo e infaticabile. Il cuore di quel grande corpo generoso che la portava su di sé. Una nave madre, adagiata su quell'altra madre, più grande, che era il mare. Anselma si sentiva cullata due volte.
Attraversarono il Circolo Polare Artico. Il tempo era splendido e straordinariamente mite. Merito, le fu detto, della Corrente del Golfo. Alle isole Lofoten ci fu una lunga sosta. Quando la nave si fermava Anselma diventava inquieta, le mancava il battito di quel possente cuore di cetaceo. Solo questa assenza, questa vita sospesa la induceva a scendere. Visitò Svolvaer, passeggiando fra le case in legno dipinte di allegri colori, con gli stoccafissi appesi ad essiccare. L'aria era tersa e fresca. Ad ogni sosta Anselma seguiva passivamente gli altri turisti, sorrideva appena alle loro esclamazioni entusiastiche. Tutto era ovattato come un sogno, da cui la svegliava la sirena della nave, il suo rauco e affettuoso richiamo. Il grande cuore pulsava di nuovo, Anselma saliva a bordo fra i primi.
Spesso se ne stava, ben coperta, sul ponte. A poppa si divertiva a guardare i gabbiani che giocavano nella scia della nave. Si lasciavano andare giù planando come aquiloni, e inclinandosi su un lato finché la punta dell'ala non arrivava quasi a toccare la spuma, poi risalivano di colpo lanciando grida trionfanti. Anselma si incantava vedendoli muoversi per puro piacere, liberi dalla necessità, inebriati d'aria e di luce. Era il volto gioioso dell'universo. La stessa gioia le sembrava di percepire nel barrito della sirena al passaggio di una nave uguale. I passeggeri si sbracciavano da una parte e dall'altra, e le navi sorelle si salutavano con voce possente. E in altre occasioni, quando una barchetta temeraria tagliava la strada al gigante, com'era severa e saggia la voce della sirena che l'ammoniva! Non voleva accettare, Anselma, il fatto che dietro ogni manovra vi fosse la mano di un pilota. No, per lei le navi vivevano di vita propria.
Si trovava sul ponte di prua quando si vide il sole di mezzanotte. Per un lungo tratto era rimasto nascosto dietro le lingue frastagliate dei fiordi, e solo la luce persistente ne denunciava la presenza. Poi l'orizzonte si aprì all'improvviso e il sole era là, a mezzanotte passata, basso ma ben distinto dal mare, rosso ma ancora accecante. Qualcuno sul ponte applaudì, molti scattarono foto inutili, inadatte a fissare un'emozione. La nave andava e andava, e c'era una solennità gloriosa in quell'incedere tra isole e fiordi, incontro a ghiacciai maestosi innalzati sull'acqua.
Passarono il 71° parallelo e raggiunsero Capo Nord. I turisti salutarono con enfasi la punta estrema dell'Europa. Anselma salutava mestamente la sua nave. Il giorno dopo un aereo l'avrebbe riportata a Oslo. Era la fine del viaggio.
Tutto avvenne troppo in fretta. Si ritrovò a casa, sulla terra ferma, con un senso di mutilazione. Come un uccello senz'ali. La città la spaesava. Cercava nel volo degli uccelli una traccia di quei cieli che ricordava purissimi, ma l'aria sporca le strozzava i ricordi. In città i gabbiani sghignazzano come iene.
Entrò in una spirale di ricoveri, di nuovi accertamenti, di cure probabilmente inutili, forse addirittura dannose. Si affidava ai medici con la passività di una regina spodestata, che non ha più niente da perdere.
Era passato quasi un anno dalla crociera - e ad Anselma era sembrato lungo come una vita - quando i medici dichiararono la resa. Anselma poté ritirarsi nella sua casa al mare. Con lei c'era solo una donna assunta per l'assistenza. Era un ragazza dell'Est, diplomata infermiera ma disposta a svolgere ogni mansione. Ad Anselma piaceva soprattutto che fosse discreta.
Ogni mattina si faceva portare sulla spiaggia, e adagiare su una sdraio. A maggio la spiaggia era ancora deserta, e lo sguardo avrebbe potuto abbracciarla tutta senza ostacoli, se non fosse stato offuscato da un velo perenne che sfocava le immagini e mescolava i confini.
Anselma non aveva più desideri, eppure proprio quell'assenza di desiderio le dava un vuoto penoso. Cercava comunque la solitudine, e chiedeva alla sua assistente di lasciarla, dopo averla ben sistemata e avvolta in una coperta, perché ormai non cessava un momento di aver freddo. Fingeva di voler dormire, e a volte si appisolava davvero. Ma più spesso fissava l'orizzonte, o meglio il punto dove immaginava che l'azzurro del cielo e l'azzurro del mare si separassero, rispecchiandosi fra loro in un riverbero che le feriva gli occhi. Non aveva più illusioni sul suo stato di salute, ma fisicamente non soffriva. Sentiva solo un'inerzia che la invadeva lentamente, senza che nessun tipo di cura o di riposo potesse ritemprare le forze perdute.
Eppure non si rassegnava. C'era un rimpianto acuto a cui non sapeva dar nome, ma che a tratti spingeva le lacrime fuori dagli occhi, a rigarle lentamente le guance. Quando le sentiva arrivare a bagnarle le labbra, allora le sfuggiva un singhiozzo sommesso, poco più che un sospiro.
Non ricordava nessuno a cui valesse la pena di pensare. Nessun affetto importante, nessuna memoria preziosa. Le veniva voglia di invocare una presenza, di domandare consolazione, ma pur ripensando a tutti i vivi e i morti che aveva conosciuto non trovava né uno sguardo né una parola che le regalassero il sapore della nostalgia.
Dei genitori serbava immagini vaghe, legate più alla loro vecchiaia che alla propria infanzia. Amici veri forse non ne aveva avuti o, avendoli, non li aveva saputi apprezzare. Le sembrava di aver vissuto distrattamente, ossessionata da questioni futili. I pochi amori erano stati delle farse, imitazioni di un amore ideale che aveva in mente, e che ogni volta naufragava nel ridicolo.
Quando il mare era burrascoso, allora il vento le dava un brivido, un sentore di terre lontane che non aveva mai conosciuto. Le sembrava che per un attimo la vita si rimettesse in movimento. Poi di nuovo, con la bonaccia, il tempo si fermava. Cielo e mare, immobili, assistevano allo spettacolo della sua impotenza. In quell'eternità Anselma sentiva dissolversi il respiro.
In un giorno di foschia osservò che il panorama sembrava un fondale dipinto. Cielo e mare si confondevano alla sua vista debole. Anselma si sentì sola in un modo lancinante. Non era la sensazione di chi ha sempre vissuto in solitudine, ma quella di chi è stato crudelmente abbandonato. Avvertì sulle labbra il sale delle lacrime che erano uscite in silenzio. Chiuse le palpebre.
Avrebbe voluto riaprirle su uno sguardo amorevole, o udire parole di conforto sommesse. Una mano, un dito, che le asciugasse le lacrime. Non con la solerzia della sua badante, che non le faceva mancare nulla, ma per un piccolo, gratuito gesto d'amore.
Sospirò dolorosamente. Fu perfino sorpresa della capacità, che ancora le rimaneva, di superare con il dolore l'indifferenza. Rimase qualche minuto ad occhi chiusi, poi riaprì leggermente le palpebre sul baluginare della distesa grigioazzurra. Adesso c'era qualcosa che ne interrompeva la tremula monotonia. Una macchia lontana, indistinguibile se non per il diverso colore. Chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca, inerte.
Quando li riaprì, scostando appena le palpebre, si accorse che la macchia si era spostata e ingrandita. Fra le ciglia ne intravide la sagoma affusolata e robusta. Una nave di passaggio.
Di nuovo si abbandonò all'indietro, oppressa dal torpore. Respirava a fatica. Immaginò il tempo della sua vita contrarsi in una palla di materia grigiastra, il futuro ritrarsi fino a impastarsi nello stesso grumo, e quel grumo concentrarsi tutto a chiuderle la gola. Annaspò, ma ancora le restava un po' d'aria.
Le lacrime le rotolarono, ora più brucianti, sul viso. I polmoni riuscirono a dilatarsi in un singhiozzo. Si arrendeva a una mostruosa ingiustizia, in cui le sembrava accanirsi l'intero universo. Poi ancora una sorda rassegnazione, simile alla pigrizia, la invase illanguidendo il corpo già debole.
Il mare calmo sospirava appena, e a lungo andare la sua voce era diventata una ritmica forma di silenzio. In quel silenzio vibrò il suono della sirena. Rauco, forte, premuroso come il barrito di una madre che cerca il suo cucciolo.
La nave procedeva veloce, sicura, sorretta dal grande cuore pulsante. Anselma guardava tra le lacrime che si seccavano al sole. Riconobbe la chiglia nera con la banda rossa, e i ponti dipinti di bianco. Sentì un abbozzo di sorriso stirarle le labbra screpolate mettendo in fuga ogni dubbio. La sirena risuonò di nuovo imperiosa, sollecita.
Anselma alzò debolmente una mano. In quel mare diverso si riconoscevano, si salutavano. Anselma sentì quel gran vuoto che aveva dentro riempirsi pian piano, colmarsi di una forma precisa. La nave. La sua nave era tornata a prenderla.
Dafne Amari
Specializzata in biologia marina, lavora in Italia e all'estero, collaborando con acquari e partecipando a spedizioni di ricerca. Nei suoi 32 anni di vita non ha mai messo radici da nessuna parte. Nelle città di mare ama frequentare le bettole vicino al porto, dove si intrattiene con i vecchi marinai ascoltando le loro storie. E' così che nascono i suoi racconti.
Tutto ciò non bastava ancora per determinarla a partire. Lo spunto fu un problema di salute ancora non definito, una serie di accertamenti diagnostici eseguiti ma di cui non aveva ancora ritirato i referti. Fu in questo lasso di tempo, sospeso fra la domanda e la risposta, che Anselma decise il suo viaggio.
Cercò in agenzia un'occasione dell'ultimo minuto, ponendo l'unica condizione che si trattasse di un viaggio per mare. Le trovarono una sistemazione sul postale dei fiordi che risaliva la costa norvegese da Bergen a Capo nord. Era giugno inoltrato, e in quel mese la rotta l'avrebbe portata dalla latitudine delle notti brevi a quella dei giorni senza fine. Sorrise fra sé, pensando a quanto fosse appropriato questo itinerario che saliva a sconfiggere la notte, a inchiodare il sole sopra la linea dell'orizzonte. Come sospendere il corso del tempo. Viaggiare le era sempre sembrato un modo di esorcizzare la morte. L'associazione le veniva così spontanea che alla fine era diventato anche un modo per evocarla. Ora le incertezze sul suo stato di salute la trattenevano dall'indugiare troppo a giocare con queste idee.
In valigia mise poche cose, ma adatte a tutte le stagioni. Anche questo le piacque: portarsi dietro una sintesi del guardaroba di un anno, come se il viaggio dovesse durare un tempo indefinito.
La nave era un robusto esemplare della flotta Hurtigruten, con la chiglia nera bordata da una striscia rossa, e i ponti dipinti di bianco. Lunga 124 metri, poteva ospitare fino a 690 passeggeri, suddivisi in 490 cabine. Una piccola città, in cui poter conservare l'anonimato, se voleva, ma anche fare conoscenze e amicizie. La parte più folle della mente le diceva che poteva essere il momento buono per una storia d'amore.
Raggiunta Bergen in aereo, sbrigò meccanicamente le operazioni d'imbarco, con una strana assenza di emozioni. Era come se, una volta deciso il viaggio, il più fosse fatto.
La prima emozione, sgradevole, l'ebbe nel prendere possesso della sua cabina. Era una cameretta a due letti, di cui uno sarebbe rimasto vuoto. Viaggiava sola. La cabina era sufficientemente confortevole e necessariamente spartana. L'idea di rimanere intrappolata in quel cubicolo notte dopo notte, per tutto il tempo del viaggio, le causò un groppo alla gola.
La finestrella si affacciava all'esterno, sul ponte numero cinque. Scostando la tendina vide le strutture del porto. Benché fosse sera, il sole era ancora alto. Rinviò ad altro momento la sistemazione del bagaglio e si distese ad occhi chiusi sul letto in attesa della partenza. Si assopì.
Quando si risvegliò era notte. Distesa nel buio ora avvertiva una presenza quieta e rassicurante: il grande corpo della nave che vibrava sotto di lei. Stava filando sicura verso l'estremo nord del mondo. Anselma sentì che non poteva fare a meno di abbandonarsi alla forza oscura che la trasportava. Sentì che poteva fidarsi.
Il giorno dopo la nave imboccò il Geirangerfjord. A bordo c'era un piccolo gruppo di turisti italiani. Scambiò con loro qualche parola cordiale, ma si accorse di essere scarsamente interessata ad approfondire la conoscenza. Si trattava prevalentemente di coppie, giovani o anziane, in viaggio di nozze o per le nozze d'argento. Mancava, e non se ne stupì, il viaggiatore solitario dal viso indurito dal sole e il cuore pronto a intenerirsi, personaggio che a volte lei vagheggiava nei suoi sogni puerili.
Durante una sosta ad Alesund scese a terra, ma si sentì spaesata. Gli altri turisti ammiravano l'architettura liberty delle case ricostruite dopo l'incendio del 1904. Anselma fu felice quando udì la sirena della nave che li avvertiva della partenza imminente. Sembrava il barrito di un elefante. Un elefante femmina, che chiamava a raccolta i suoi piccoli.
I pasti si consumavano nel grande salone del ponte numero quattro, e dopo mangiato Anselma si fermava a sorseggiare un caffè ad uno dei tavolini allineati lungo la vetrata panoramica. Aveva un libro da leggere ma non leggeva. La nave procedeva veloce, e il panorama riservava continue sorprese.
Fendevano arcipelaghi fitti come la Via Lattea. Miriadi di isolotti venivano loro incontro, brulli e lisci come dorsi di balene. Ci si avvicinava al Circolo Polare. Davanti alla prua si apriva un orizzonte di luce.
Anselma non provava più fastidio nello stare chiusa in cabina. Le ore di buio diminuivano in fretta, e anche di notte il cielo conservava un grigiore di perla. I ritmi della veglia si alteravano. Nel pomeriggio Anselma sprofondava in un sonno pesante che le toglieva il senso del tempo. Di notte si svegliava più volte e scostava la tendina per guardare il paesaggio che scorreva oltre il bordo della nave. C'era luce anche alle tre di notte, e le isole cambiavano forme e dimensioni. Ne vide alcune splendere alte come piramidi rossastre, altre stendersi piatte o dolcemente arcuate, brulle o coperte di vegetazione. Quasi tutte apparivano deserte. Qua e là una caletta ospitava una casa e una barca da pesca legata al pontile di legno. Anselma guardava godendo, più che del paesaggio, del movimento che faceva continuamente mutare le prospettive: le dava il senso della velocità della nave, del suo procedere incessante. Riaccostava la tenda e si sdraiava bocconi con l'orecchio incollato al materasso. Avvertiva un ronzio sordo, più vibrazione che rumore. Una pulsazione animale. Immaginava il grande cuore nascosto nella sala macchine, vivo e infaticabile. Il cuore di quel grande corpo generoso che la portava su di sé. Una nave madre, adagiata su quell'altra madre, più grande, che era il mare. Anselma si sentiva cullata due volte.
Attraversarono il Circolo Polare Artico. Il tempo era splendido e straordinariamente mite. Merito, le fu detto, della Corrente del Golfo. Alle isole Lofoten ci fu una lunga sosta. Quando la nave si fermava Anselma diventava inquieta, le mancava il battito di quel possente cuore di cetaceo. Solo questa assenza, questa vita sospesa la induceva a scendere. Visitò Svolvaer, passeggiando fra le case in legno dipinte di allegri colori, con gli stoccafissi appesi ad essiccare. L'aria era tersa e fresca. Ad ogni sosta Anselma seguiva passivamente gli altri turisti, sorrideva appena alle loro esclamazioni entusiastiche. Tutto era ovattato come un sogno, da cui la svegliava la sirena della nave, il suo rauco e affettuoso richiamo. Il grande cuore pulsava di nuovo, Anselma saliva a bordo fra i primi.
Spesso se ne stava, ben coperta, sul ponte. A poppa si divertiva a guardare i gabbiani che giocavano nella scia della nave. Si lasciavano andare giù planando come aquiloni, e inclinandosi su un lato finché la punta dell'ala non arrivava quasi a toccare la spuma, poi risalivano di colpo lanciando grida trionfanti. Anselma si incantava vedendoli muoversi per puro piacere, liberi dalla necessità, inebriati d'aria e di luce. Era il volto gioioso dell'universo. La stessa gioia le sembrava di percepire nel barrito della sirena al passaggio di una nave uguale. I passeggeri si sbracciavano da una parte e dall'altra, e le navi sorelle si salutavano con voce possente. E in altre occasioni, quando una barchetta temeraria tagliava la strada al gigante, com'era severa e saggia la voce della sirena che l'ammoniva! Non voleva accettare, Anselma, il fatto che dietro ogni manovra vi fosse la mano di un pilota. No, per lei le navi vivevano di vita propria.
Si trovava sul ponte di prua quando si vide il sole di mezzanotte. Per un lungo tratto era rimasto nascosto dietro le lingue frastagliate dei fiordi, e solo la luce persistente ne denunciava la presenza. Poi l'orizzonte si aprì all'improvviso e il sole era là, a mezzanotte passata, basso ma ben distinto dal mare, rosso ma ancora accecante. Qualcuno sul ponte applaudì, molti scattarono foto inutili, inadatte a fissare un'emozione. La nave andava e andava, e c'era una solennità gloriosa in quell'incedere tra isole e fiordi, incontro a ghiacciai maestosi innalzati sull'acqua.
Passarono il 71° parallelo e raggiunsero Capo Nord. I turisti salutarono con enfasi la punta estrema dell'Europa. Anselma salutava mestamente la sua nave. Il giorno dopo un aereo l'avrebbe riportata a Oslo. Era la fine del viaggio.
Tutto avvenne troppo in fretta. Si ritrovò a casa, sulla terra ferma, con un senso di mutilazione. Come un uccello senz'ali. La città la spaesava. Cercava nel volo degli uccelli una traccia di quei cieli che ricordava purissimi, ma l'aria sporca le strozzava i ricordi. In città i gabbiani sghignazzano come iene.
Entrò in una spirale di ricoveri, di nuovi accertamenti, di cure probabilmente inutili, forse addirittura dannose. Si affidava ai medici con la passività di una regina spodestata, che non ha più niente da perdere.
Era passato quasi un anno dalla crociera - e ad Anselma era sembrato lungo come una vita - quando i medici dichiararono la resa. Anselma poté ritirarsi nella sua casa al mare. Con lei c'era solo una donna assunta per l'assistenza. Era un ragazza dell'Est, diplomata infermiera ma disposta a svolgere ogni mansione. Ad Anselma piaceva soprattutto che fosse discreta.
Ogni mattina si faceva portare sulla spiaggia, e adagiare su una sdraio. A maggio la spiaggia era ancora deserta, e lo sguardo avrebbe potuto abbracciarla tutta senza ostacoli, se non fosse stato offuscato da un velo perenne che sfocava le immagini e mescolava i confini.
Anselma non aveva più desideri, eppure proprio quell'assenza di desiderio le dava un vuoto penoso. Cercava comunque la solitudine, e chiedeva alla sua assistente di lasciarla, dopo averla ben sistemata e avvolta in una coperta, perché ormai non cessava un momento di aver freddo. Fingeva di voler dormire, e a volte si appisolava davvero. Ma più spesso fissava l'orizzonte, o meglio il punto dove immaginava che l'azzurro del cielo e l'azzurro del mare si separassero, rispecchiandosi fra loro in un riverbero che le feriva gli occhi. Non aveva più illusioni sul suo stato di salute, ma fisicamente non soffriva. Sentiva solo un'inerzia che la invadeva lentamente, senza che nessun tipo di cura o di riposo potesse ritemprare le forze perdute.
Eppure non si rassegnava. C'era un rimpianto acuto a cui non sapeva dar nome, ma che a tratti spingeva le lacrime fuori dagli occhi, a rigarle lentamente le guance. Quando le sentiva arrivare a bagnarle le labbra, allora le sfuggiva un singhiozzo sommesso, poco più che un sospiro.
Non ricordava nessuno a cui valesse la pena di pensare. Nessun affetto importante, nessuna memoria preziosa. Le veniva voglia di invocare una presenza, di domandare consolazione, ma pur ripensando a tutti i vivi e i morti che aveva conosciuto non trovava né uno sguardo né una parola che le regalassero il sapore della nostalgia.
Dei genitori serbava immagini vaghe, legate più alla loro vecchiaia che alla propria infanzia. Amici veri forse non ne aveva avuti o, avendoli, non li aveva saputi apprezzare. Le sembrava di aver vissuto distrattamente, ossessionata da questioni futili. I pochi amori erano stati delle farse, imitazioni di un amore ideale che aveva in mente, e che ogni volta naufragava nel ridicolo.
Quando il mare era burrascoso, allora il vento le dava un brivido, un sentore di terre lontane che non aveva mai conosciuto. Le sembrava che per un attimo la vita si rimettesse in movimento. Poi di nuovo, con la bonaccia, il tempo si fermava. Cielo e mare, immobili, assistevano allo spettacolo della sua impotenza. In quell'eternità Anselma sentiva dissolversi il respiro.
In un giorno di foschia osservò che il panorama sembrava un fondale dipinto. Cielo e mare si confondevano alla sua vista debole. Anselma si sentì sola in un modo lancinante. Non era la sensazione di chi ha sempre vissuto in solitudine, ma quella di chi è stato crudelmente abbandonato. Avvertì sulle labbra il sale delle lacrime che erano uscite in silenzio. Chiuse le palpebre.
Avrebbe voluto riaprirle su uno sguardo amorevole, o udire parole di conforto sommesse. Una mano, un dito, che le asciugasse le lacrime. Non con la solerzia della sua badante, che non le faceva mancare nulla, ma per un piccolo, gratuito gesto d'amore.
Sospirò dolorosamente. Fu perfino sorpresa della capacità, che ancora le rimaneva, di superare con il dolore l'indifferenza. Rimase qualche minuto ad occhi chiusi, poi riaprì leggermente le palpebre sul baluginare della distesa grigioazzurra. Adesso c'era qualcosa che ne interrompeva la tremula monotonia. Una macchia lontana, indistinguibile se non per il diverso colore. Chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca, inerte.
Quando li riaprì, scostando appena le palpebre, si accorse che la macchia si era spostata e ingrandita. Fra le ciglia ne intravide la sagoma affusolata e robusta. Una nave di passaggio.
Di nuovo si abbandonò all'indietro, oppressa dal torpore. Respirava a fatica. Immaginò il tempo della sua vita contrarsi in una palla di materia grigiastra, il futuro ritrarsi fino a impastarsi nello stesso grumo, e quel grumo concentrarsi tutto a chiuderle la gola. Annaspò, ma ancora le restava un po' d'aria.
Le lacrime le rotolarono, ora più brucianti, sul viso. I polmoni riuscirono a dilatarsi in un singhiozzo. Si arrendeva a una mostruosa ingiustizia, in cui le sembrava accanirsi l'intero universo. Poi ancora una sorda rassegnazione, simile alla pigrizia, la invase illanguidendo il corpo già debole.
Il mare calmo sospirava appena, e a lungo andare la sua voce era diventata una ritmica forma di silenzio. In quel silenzio vibrò il suono della sirena. Rauco, forte, premuroso come il barrito di una madre che cerca il suo cucciolo.
La nave procedeva veloce, sicura, sorretta dal grande cuore pulsante. Anselma guardava tra le lacrime che si seccavano al sole. Riconobbe la chiglia nera con la banda rossa, e i ponti dipinti di bianco. Sentì un abbozzo di sorriso stirarle le labbra screpolate mettendo in fuga ogni dubbio. La sirena risuonò di nuovo imperiosa, sollecita.
Anselma alzò debolmente una mano. In quel mare diverso si riconoscevano, si salutavano. Anselma sentì quel gran vuoto che aveva dentro riempirsi pian piano, colmarsi di una forma precisa. La nave. La sua nave era tornata a prenderla.
Dafne Amari
Specializzata in biologia marina, lavora in Italia e all'estero, collaborando con acquari e partecipando a spedizioni di ricerca. Nei suoi 32 anni di vita non ha mai messo radici da nessuna parte. Nelle città di mare ama frequentare le bettole vicino al porto, dove si intrattiene con i vecchi marinai ascoltando le loro storie. E' così che nascono i suoi racconti.
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