RACCONTI
Riccardo Lionello
Puncs
Fino ad allora, la storia sociale di SolfurCity si sarebbe potuta paragonare ad un binario ferroviario. Pecore linde, tosate per la fiera: nessuno tra i suoi protagonisti sfuggiva da quella sobria linea dritta. Nel rosicato tempo libero i giovani indossavano i loro berretti da lavoro e le cravatte verde marcio per incontrarsi da Marengo ove sorbire un caffé d'orzo in tazza tiepida o lanciare quattro bocce; talvolta visitavano i rispettivi nonni per parlare di pesca e di inflazione e di quanto fosse bello lavorare nella fabbrica dei tappi di sughero. Vecchi e giovani non avrebbero mai litigato, essendo i secondi una fotocopia ritoccata con più capelli e meno pancia dei primi. Una rivoluzione dei costumi era già stata abbozzata da una cerchia che ebbe per prima il coraggio d'indossare tonalità di verde meno marce del solito. Il sindaco, la stessa fabbrica di tappi di sughero in cui gli abitanti di SolfurCity lavoravano, stabilì che ogni sovversivo trovato per la strada col suddetto stile sarebbe stato quanto prima espatriato o in sanzione ridotta umiliato nella pubblica piazza. "O verde marcio o fuori di qui!" recitavano i poster affissi sui muri della fabbrica. Numerosi punti interrogativi annegarono subito nel bianco belletto dei servizi segreti quando un giovane in cardigan a pois gialli scoperto con un erezione in un vicolo della periferia, scomparve all'improvviso senza più tornare.
Doveva ancora nascere un rutto corale, imprevedibile perché uscito dalle bocche dei singoli e non da una singola bocca, un rutto capace di brutalità tale da infrangere i vetri di quella solida casa grigio-marrone dall'interno. A SolfurCity le bollicine languivano e con l'acqua naturale, si sa, i rutti non si fanno.
La parola "movimento" aveva la sola accezione cinetica: mi "muovo" verso la fabbrica = "muovo" le braccia sulle rotelle e sulle leve; mi "muovo" verso casa = "muovo" i pugni sulla faccia della donna; mi "muovo" verso il letto = "muovo" le mani sul corpo della donna. La parola "giovanile" invece, non significava un bel niente. In famiglia, a soli due anni, la prole si faceva un'idea di cosa sarebbe presto diventata grazie alle sfumature callose negli schiaffi dei padri o scambiando per un seno la gobba che spuntava dalla schiena delle madri.
Un rodato ingranaggio che funzionava a meraviglia, una meraviglia che incollava i pensieri con placido stucco, stramberie e diversità calcificate nei sottili spazi tra un mattone e l'altro. Tutti convinti che nessuno avrebbe mai gettato della polvere nell'occhio architetto. Perché poi rinunciare ad un sicuro impiego e alla broda riscaldata, arrischiandosi di macchiare non solo la propria fedina penale, ma anche l'aura di delizioso perbenbenino che ammantava la città stessa? Stupide testardaggini. Il destino dei più piccoli apparteneva ai grandi, i grandi appartenevano alla fabbrica dei tappi di sughero, la coscienza collettiva trovava la sua panacea. Fine. Troppo stanchi o troppo disperati per scendere in strada a bruciare le automobili e i centri commerciali e i cagnolini in pigiama, i giovani non trovavano il tempo per annoiarsi. Lo sbadiglio era proibito.
Tuttavia, in tanti anni di fatica salariata s'era creata un benessere siffatto che i calli dei padri s'erano fatti più morbidi, le gobbe delle madri più smussate; da una sottile fessura che dava in una stanza di specchi la prole cominciava a intravedere un immagine diversa, i loro capi non più chini, ma torreggianti di tronfio lucore, gli sguardi non guerci di patologia plebea ma blasonati in pupille color porpora. -Allora che si fa?- si chiesero, tra water autopulenti con tivù a scomparsa che s'accendevano tirando lo sciacquone, lavastoviglie in grado di trasformare l'acqua di scarto in miele, toglipelinaso con radio fm incorporata, bambole che a seconda della qualità del fiato si sarebbero gonfiate in suadenti Nefertiti, succulente Elena di Troia, morganatici Honoré De Balzac in tarda età. In tutta risposta i pater familiae emendarono il loro –Te lo dico io cosa devi fare- ma la loro credibilità era andata perduta, s'erano imborghesiti. Incute più timore un uomo irsuto in casacca da lavoro mentre brandisce una grossa chiave inglese o un quattrocchi e balbo gigietto cravattino con in mano una penna stilografica?
Perso l'ultimo treno direzione Routine i giovani si ritrovavano improvvisamente soli, le mani in tasca e nella testa il primo imprevisto che avessero mai incontrato. Non gli rimaneva che tenersi la pancia e ridere fuori controllo, colpi inferti alle facce basaltiche dei genitori. Uscirono di casa per riversarsi sulla strada, prima singoli poi gruppetti di due e di tre, fino a diventare una fiumana priva di criterio, di pulci e zecche delle quali solo un microscopio dello spirito avrebbe svelato le capillari relazioni interpersonali: lo scrutarsi a distanza ravvicinata, il piluccarsi genitale, sbalorditi dall'aver trovato così tanti termini di paragone. La fabbrica dei tappi di sughero si svuotò delle sue risorse di maggior valore: senza una risoluzione immediata la stabile economia di SolfurCity avrebbe vissuto il suo primo, drammatico arresto.
Subito gli altoparlanti della fabbrica gracchiarono calmi, di tornare sul posto di lavoro: -se non per voi stessi per i vostri cari, per la solida memoria di SolfurCity-. Qualcuno tornò spaventato. Ma la maggior parte di loro, con uno sforzo di volontà, scosse la testa sillabando un no implacabile e tracotante. Varcarono quel limite invisibile che tanto gli aveva intrappolati, lo presero in mano e ci fecero il salto della corda; "Siamo qui per darti grane, tra i binari il treno far deragliare, non c'importa del dovere, a noi piace saltellare. C'è chi dice siamo stolti, meretrice è la madre di quei porci. Saltelliamo sopra la loro banalità, già da domani si parlerà di santità". Nella ruggente notte che avrebbe scardinato SolfurCity dalle sue convinzioni le brache dei giovani calarono giù, concedendo gli ani a lungo costipati da un tappo di merda fossile alle fiamme create dai verdi simboli marci di preistoria. Il sole si rialzò da dove s'era assopito, svelando lo scempio in forma di rigagnoli ocra organico che ancora defluivano nei tombini. Nel mentre, dai balconi sfuggiti alla teppa effondeva il caratteristico odore barbiturico dello zabaione. O astuzia materna! Instillatosi serpentesco nelle narici, arrivato fino allo stomaco, il potere della crema fatta in casa mandò un segnale assai chiaro al cervello: s'imponeva una tregua. L'elettricità accumulata nei capelli e tra le dita dei piedi accompagnò i giovani fino all'ingresso di casa dove gli insonni genitori attendevano ed, -eccoli spuntare!-, gli occhi pesti per l'abuso di malva e funeste nenie melodiche in bocche sporche di rossetto al mandarino bastarono a far perdere loro la pazienza.
–Mio figlio è un drogato- fu un caso editoriale, scritto dalle mani del più reazionario manipolo di Solfurcittadini; un monito che si sperava fosse in grado di prorogare la tregua (lo zabaione gli avrebbe presto nauseati) e placare gli eventuali pizzicori giovanilisti. Il colpo assestato fu tremendo, la juventude sembrò vacillare. Destino volle che solo pochi giorni dopo apparve in libreria un secondo libro, "Sono giovane e me ne frego", firmato da Saul I. Chi affermava fosse un ciclope con tre cervelli, chi una sedia pieghevole d'alluminio, tolta la polvere delle supposizioni rimaneva il testo, circa quaranta pagine di lucida follia sul libero arbitrio, sulla consenziente presa di posizione contestuale, menzionando partite ai videogames di quattordici ore e sublimando l'omicidio efferato come fosse un fondamento del caos. In questa legittimazione della indolenza, i Solfurgiovinastri trovarono metodo e mentore; Saul mise nelle mani degli apostati una pietra miliare con cui schiacciare la grettezza dei più grandi. I grandi affermavano che per diventare grandi bisognava pur fregarsene di qualcosa, anche di piccolo, ma pur sempre un qualcosa. Dopo il flusso di conoscenza sembravano ai più piccoli non più grandi della capocchia d'uno spillo; l'ozio assurse a titolo nobiliare, i giovani se ne fregavano di qualsiasi cosa con addosso un catetere o dei peli grigi.
Come gli indigeni in gonnellino di paglia d'un isola bombardata da navicelle interspaziali, le istituzioni ripararono nella censura. Gli altoparlanti della fabbrica lanciarono l'ultimatum: –O dentro di me o fuori!-. Indossate le loro divise verdastre al rovescio, i giovani tornarono alla fabbrica per la più grande manifestazione cui la città di SolfurCity avesse mai assistito. Portarono chitarre e congas e si riunirono tutti intorno. –Non capite- disse la fabbrica piagnucolando, -Che ne sarà del progresso se nessuno vorrà più lavorare-. I giovani non riuscivano ad ascoltare niente che fosse diverso dal rumore del trapano elettrico iniziati com'erano a nuove forme di libertà artistica. Imbracciati gli strumenti gli scagliarono contro la fabbrica in una gragnola devastante. Tritolo docet, SolfurCity si ritrovò all'improvviso in una momentanea assenza di governo, uno di quei periodi in cui puoi scrivere "luridume" sotto casa del tuo peggior nemico senza aver paura d'una denuncia. Sparsasi la voce attraverso canali clandestini tutti quelli sotto i ventuno anni esplosero in giubilo. La restante fetta di Solfurcittadinanza si limitò a barricarsi in casa aspettando l'arrivo di batman, anche un barman sarebbe bastato ammesso che portasse da bere. Altri ancora partirono alla ventura caricando i propri averi su carri trainati da buoi, verso l'eldorado o un suicidio di massa, chissà.
La sobria linea dritta della storia sociale di SolfurCity s'era tinta nel liquido amniotico, riaffiorando in superficie a mo di tratto spasmodico ed epilettico.
–Vogliamo la scuola- stabilirono i giovani all'unanimità, -Così finalmente qualcuno potrà insegnarci i mestieri più interessanti-.
–Il pilota di hotrod!- urlarono alcuni, -il ragioniere- vociarono altri, -e forse anche il significato dell'esistenza che per tanti anni ci è stato negato-. Sulle macerie ancora fumanti della fabbrica non si perse tempo. Dopo due settimane di sgobbo senza sosta venne eretto un grosso edificio a quattro piani. Sulle pareti est ed ovest venne dipinta l'effige di Saul I tra arcobaleni spensierati e margherite ballerine. –Qui impareremo come costruirci un futuro più luminoso- dissero ed entrati sedettero ai banchi, con un scintillio preventivo negli sguardi. La scuola tacque, i giovani attesero. Poco passò perchè si grattassero i capi e battessero i piedi e borbottassero circospetti. Qualcuno tirò un calcio contro il muro, –Avanti, cosa aspetti?-.
Nonostante le oneste intenzioni non sarebbero mai bastati a loro stessi e questa fu la prima ed unica lezione che la scuola senza insegnanti insegnò loro. Comunque non prima d'aver sguazzato dentro l'abuso e conseguente intossicazione da malva.
La categoria adolescenziale aveva faticato duro per trovare lo spazio in cui infilare il suo corpo ingombrante; infanti e vegliardi dovettero stringersi alla stregua d'una specie in via d'estinzione. E quando i camion per il carico dei tappi di sughero tornarono indietro vuoti, l'evidenza trovò tutti concordi. La scuola non avrebbe dato alcun frutto ne tanto meno le vanagloriose idee di Saul I. Infanti e vegliardi incolparono i giovani di non aver altro interesse che a strafarsi e a parlare di amore pace ed armonia come fossero le regole del gioco dell'oca. I giovani incolparono gli infanti di essere inutili, i vecchi di essere calvi. Furono botte a perdifiato, un parapiglia fragoroso. Ma un combattimento, senza il naturale apporto di carboidrati e proteine non può certo continuare in eterno; da quando la fabbrica era stata abbattuta le tavole da pranzo avevano ospitato soltanto unghie scondite, erba del parco e annunci economici. Non c'era altra soluzione che tornare al solito sistema produttivo. Con qualche variazione. Gli infanti parevano instancabili, i vegliardi pieni d'esperienza. La fabbrica di pipe e narghilé fu inaugurata nonostante le proteste; gli altoparlanti ripresero la loro funzione di controllo biascicando le prime, oppiacee parole di buon augurio: "Con calma gente, avete tutta la giornata". Fu questa la fine dell'unico movimento giovanile di SolfurCity i quali componenti vennero reintegrati in una solida classe imprenditoriale. La nuova fabbrica non aveva niente a che fare con il vecchio sindaco dei tappi di sughero. Il tetto era stato seghettato.
–Inchinatevi al Re!-.
E accadde davvero.
Doveva ancora nascere un rutto corale, imprevedibile perché uscito dalle bocche dei singoli e non da una singola bocca, un rutto capace di brutalità tale da infrangere i vetri di quella solida casa grigio-marrone dall'interno. A SolfurCity le bollicine languivano e con l'acqua naturale, si sa, i rutti non si fanno.
La parola "movimento" aveva la sola accezione cinetica: mi "muovo" verso la fabbrica = "muovo" le braccia sulle rotelle e sulle leve; mi "muovo" verso casa = "muovo" i pugni sulla faccia della donna; mi "muovo" verso il letto = "muovo" le mani sul corpo della donna. La parola "giovanile" invece, non significava un bel niente. In famiglia, a soli due anni, la prole si faceva un'idea di cosa sarebbe presto diventata grazie alle sfumature callose negli schiaffi dei padri o scambiando per un seno la gobba che spuntava dalla schiena delle madri.
Un rodato ingranaggio che funzionava a meraviglia, una meraviglia che incollava i pensieri con placido stucco, stramberie e diversità calcificate nei sottili spazi tra un mattone e l'altro. Tutti convinti che nessuno avrebbe mai gettato della polvere nell'occhio architetto. Perché poi rinunciare ad un sicuro impiego e alla broda riscaldata, arrischiandosi di macchiare non solo la propria fedina penale, ma anche l'aura di delizioso perbenbenino che ammantava la città stessa? Stupide testardaggini. Il destino dei più piccoli apparteneva ai grandi, i grandi appartenevano alla fabbrica dei tappi di sughero, la coscienza collettiva trovava la sua panacea. Fine. Troppo stanchi o troppo disperati per scendere in strada a bruciare le automobili e i centri commerciali e i cagnolini in pigiama, i giovani non trovavano il tempo per annoiarsi. Lo sbadiglio era proibito.
Tuttavia, in tanti anni di fatica salariata s'era creata un benessere siffatto che i calli dei padri s'erano fatti più morbidi, le gobbe delle madri più smussate; da una sottile fessura che dava in una stanza di specchi la prole cominciava a intravedere un immagine diversa, i loro capi non più chini, ma torreggianti di tronfio lucore, gli sguardi non guerci di patologia plebea ma blasonati in pupille color porpora. -Allora che si fa?- si chiesero, tra water autopulenti con tivù a scomparsa che s'accendevano tirando lo sciacquone, lavastoviglie in grado di trasformare l'acqua di scarto in miele, toglipelinaso con radio fm incorporata, bambole che a seconda della qualità del fiato si sarebbero gonfiate in suadenti Nefertiti, succulente Elena di Troia, morganatici Honoré De Balzac in tarda età. In tutta risposta i pater familiae emendarono il loro –Te lo dico io cosa devi fare- ma la loro credibilità era andata perduta, s'erano imborghesiti. Incute più timore un uomo irsuto in casacca da lavoro mentre brandisce una grossa chiave inglese o un quattrocchi e balbo gigietto cravattino con in mano una penna stilografica?
Perso l'ultimo treno direzione Routine i giovani si ritrovavano improvvisamente soli, le mani in tasca e nella testa il primo imprevisto che avessero mai incontrato. Non gli rimaneva che tenersi la pancia e ridere fuori controllo, colpi inferti alle facce basaltiche dei genitori. Uscirono di casa per riversarsi sulla strada, prima singoli poi gruppetti di due e di tre, fino a diventare una fiumana priva di criterio, di pulci e zecche delle quali solo un microscopio dello spirito avrebbe svelato le capillari relazioni interpersonali: lo scrutarsi a distanza ravvicinata, il piluccarsi genitale, sbalorditi dall'aver trovato così tanti termini di paragone. La fabbrica dei tappi di sughero si svuotò delle sue risorse di maggior valore: senza una risoluzione immediata la stabile economia di SolfurCity avrebbe vissuto il suo primo, drammatico arresto.
Subito gli altoparlanti della fabbrica gracchiarono calmi, di tornare sul posto di lavoro: -se non per voi stessi per i vostri cari, per la solida memoria di SolfurCity-. Qualcuno tornò spaventato. Ma la maggior parte di loro, con uno sforzo di volontà, scosse la testa sillabando un no implacabile e tracotante. Varcarono quel limite invisibile che tanto gli aveva intrappolati, lo presero in mano e ci fecero il salto della corda; "Siamo qui per darti grane, tra i binari il treno far deragliare, non c'importa del dovere, a noi piace saltellare. C'è chi dice siamo stolti, meretrice è la madre di quei porci. Saltelliamo sopra la loro banalità, già da domani si parlerà di santità". Nella ruggente notte che avrebbe scardinato SolfurCity dalle sue convinzioni le brache dei giovani calarono giù, concedendo gli ani a lungo costipati da un tappo di merda fossile alle fiamme create dai verdi simboli marci di preistoria. Il sole si rialzò da dove s'era assopito, svelando lo scempio in forma di rigagnoli ocra organico che ancora defluivano nei tombini. Nel mentre, dai balconi sfuggiti alla teppa effondeva il caratteristico odore barbiturico dello zabaione. O astuzia materna! Instillatosi serpentesco nelle narici, arrivato fino allo stomaco, il potere della crema fatta in casa mandò un segnale assai chiaro al cervello: s'imponeva una tregua. L'elettricità accumulata nei capelli e tra le dita dei piedi accompagnò i giovani fino all'ingresso di casa dove gli insonni genitori attendevano ed, -eccoli spuntare!-, gli occhi pesti per l'abuso di malva e funeste nenie melodiche in bocche sporche di rossetto al mandarino bastarono a far perdere loro la pazienza.
–Mio figlio è un drogato- fu un caso editoriale, scritto dalle mani del più reazionario manipolo di Solfurcittadini; un monito che si sperava fosse in grado di prorogare la tregua (lo zabaione gli avrebbe presto nauseati) e placare gli eventuali pizzicori giovanilisti. Il colpo assestato fu tremendo, la juventude sembrò vacillare. Destino volle che solo pochi giorni dopo apparve in libreria un secondo libro, "Sono giovane e me ne frego", firmato da Saul I. Chi affermava fosse un ciclope con tre cervelli, chi una sedia pieghevole d'alluminio, tolta la polvere delle supposizioni rimaneva il testo, circa quaranta pagine di lucida follia sul libero arbitrio, sulla consenziente presa di posizione contestuale, menzionando partite ai videogames di quattordici ore e sublimando l'omicidio efferato come fosse un fondamento del caos. In questa legittimazione della indolenza, i Solfurgiovinastri trovarono metodo e mentore; Saul mise nelle mani degli apostati una pietra miliare con cui schiacciare la grettezza dei più grandi. I grandi affermavano che per diventare grandi bisognava pur fregarsene di qualcosa, anche di piccolo, ma pur sempre un qualcosa. Dopo il flusso di conoscenza sembravano ai più piccoli non più grandi della capocchia d'uno spillo; l'ozio assurse a titolo nobiliare, i giovani se ne fregavano di qualsiasi cosa con addosso un catetere o dei peli grigi.
Come gli indigeni in gonnellino di paglia d'un isola bombardata da navicelle interspaziali, le istituzioni ripararono nella censura. Gli altoparlanti della fabbrica lanciarono l'ultimatum: –O dentro di me o fuori!-. Indossate le loro divise verdastre al rovescio, i giovani tornarono alla fabbrica per la più grande manifestazione cui la città di SolfurCity avesse mai assistito. Portarono chitarre e congas e si riunirono tutti intorno. –Non capite- disse la fabbrica piagnucolando, -Che ne sarà del progresso se nessuno vorrà più lavorare-. I giovani non riuscivano ad ascoltare niente che fosse diverso dal rumore del trapano elettrico iniziati com'erano a nuove forme di libertà artistica. Imbracciati gli strumenti gli scagliarono contro la fabbrica in una gragnola devastante. Tritolo docet, SolfurCity si ritrovò all'improvviso in una momentanea assenza di governo, uno di quei periodi in cui puoi scrivere "luridume" sotto casa del tuo peggior nemico senza aver paura d'una denuncia. Sparsasi la voce attraverso canali clandestini tutti quelli sotto i ventuno anni esplosero in giubilo. La restante fetta di Solfurcittadinanza si limitò a barricarsi in casa aspettando l'arrivo di batman, anche un barman sarebbe bastato ammesso che portasse da bere. Altri ancora partirono alla ventura caricando i propri averi su carri trainati da buoi, verso l'eldorado o un suicidio di massa, chissà.
La sobria linea dritta della storia sociale di SolfurCity s'era tinta nel liquido amniotico, riaffiorando in superficie a mo di tratto spasmodico ed epilettico.
–Vogliamo la scuola- stabilirono i giovani all'unanimità, -Così finalmente qualcuno potrà insegnarci i mestieri più interessanti-.
–Il pilota di hotrod!- urlarono alcuni, -il ragioniere- vociarono altri, -e forse anche il significato dell'esistenza che per tanti anni ci è stato negato-. Sulle macerie ancora fumanti della fabbrica non si perse tempo. Dopo due settimane di sgobbo senza sosta venne eretto un grosso edificio a quattro piani. Sulle pareti est ed ovest venne dipinta l'effige di Saul I tra arcobaleni spensierati e margherite ballerine. –Qui impareremo come costruirci un futuro più luminoso- dissero ed entrati sedettero ai banchi, con un scintillio preventivo negli sguardi. La scuola tacque, i giovani attesero. Poco passò perchè si grattassero i capi e battessero i piedi e borbottassero circospetti. Qualcuno tirò un calcio contro il muro, –Avanti, cosa aspetti?-.
Nonostante le oneste intenzioni non sarebbero mai bastati a loro stessi e questa fu la prima ed unica lezione che la scuola senza insegnanti insegnò loro. Comunque non prima d'aver sguazzato dentro l'abuso e conseguente intossicazione da malva.
La categoria adolescenziale aveva faticato duro per trovare lo spazio in cui infilare il suo corpo ingombrante; infanti e vegliardi dovettero stringersi alla stregua d'una specie in via d'estinzione. E quando i camion per il carico dei tappi di sughero tornarono indietro vuoti, l'evidenza trovò tutti concordi. La scuola non avrebbe dato alcun frutto ne tanto meno le vanagloriose idee di Saul I. Infanti e vegliardi incolparono i giovani di non aver altro interesse che a strafarsi e a parlare di amore pace ed armonia come fossero le regole del gioco dell'oca. I giovani incolparono gli infanti di essere inutili, i vecchi di essere calvi. Furono botte a perdifiato, un parapiglia fragoroso. Ma un combattimento, senza il naturale apporto di carboidrati e proteine non può certo continuare in eterno; da quando la fabbrica era stata abbattuta le tavole da pranzo avevano ospitato soltanto unghie scondite, erba del parco e annunci economici. Non c'era altra soluzione che tornare al solito sistema produttivo. Con qualche variazione. Gli infanti parevano instancabili, i vegliardi pieni d'esperienza. La fabbrica di pipe e narghilé fu inaugurata nonostante le proteste; gli altoparlanti ripresero la loro funzione di controllo biascicando le prime, oppiacee parole di buon augurio: "Con calma gente, avete tutta la giornata". Fu questa la fine dell'unico movimento giovanile di SolfurCity i quali componenti vennero reintegrati in una solida classe imprenditoriale. La nuova fabbrica non aveva niente a che fare con il vecchio sindaco dei tappi di sughero. Il tetto era stato seghettato.
–Inchinatevi al Re!-.
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