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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

Santità e sghignazzi.

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Buio mistico
“Che fortuna trovare un parroco come questo!”
E’ la prima cosa che ci ha detto l’amico Michele Gasbarro, organizzatore dell’ottimo Roma Festival Barocco quando, dopo una insolita attesa sul sagrato di S. Giovanni dei Fiorentini (normalmente a questi concerti si entra alla spicciolata) ha aperto alla folla che si era radunata il portone della chiesa.
E abbiamo subito capito il perché. Appena entrati, buio. La poca luce, misteriosa e mistica veniva da una fila di alberelli di ferro battuto piazzati lungo la navata, sui cui rami erano appollaiati decine di lumini accesi. L’unica altra fonte, elettrica: un faro sapientemente puntato a illuminare il mirabile altorilievo dell’altar maggiore, un Battesimo di Cristo di Antonio Raggi.
        S. Giovanni Battista dei Fiorentini a Via Giulia è un edificio di proporzioni nobili; secondo noi la chiesa più elegante di Roma. Anche se finita nel ‘700, il progetto è di due secoli prima. Architettura rinascimentale perfetta, bianca e grigia: tutto intonaco e niente ori o stucchi, solo le linee armoniose degli archi. Con inaspettati colpi d’occhio su cappelle e altari che più barocchi non si può. Eppure, proprio grazie a questo equilibrio, l’eccesso presente in piccole dosi evita la nausea da indigestione che talvolta, in altri luoghi, colpisce per il troppo abbondante condimento.
E’ dedicata al Battista, un santo a cui l’acqua (del battesimo) era familiare.  Per questo si pensò di costruire la sua chiesa con i piedi nel Tevere. Decisione imprudente per tutti i prevedibili problemi di statica. Le sponde del fiume su cui poggia l’abside erano e sono ancora di sabbia instabile e infida, e all’epoca non c’erano i muraglioni. Il problema fu risolto brillantemente, anche se non sappiamo come, da Antonio da Sangallo il Giovane, che per fortuna era anche un architetto militare, quindi abituato a terreni difficili e commissioni impossibili. Seguito da una sfilza di illustrissimi collaboratori; per concludere, appunto nel ‘700, con la facciata di Alessandro Galilei.
In questa chiesa troviamo curiosità e storia, dalla tomba del Marchese del Grillo a quelle di Maderno e Borromini. C’è perfino una vetrinetta contenente una inverosimile reliquia: il piede sinistro di Maria Maddalena, ben confezionato in uno scarponcino d’argento, certificato da targa: “Il primo piede a essere entrato nel sepolcro di Cristo risorto”.
       “Peggio di un cane in chiesa”, si dice. Normalmente non si può. Qui sì, anzi, si deve. Tutti gli anni, il 17 gennaio, festa di S. Antonio abate, c’è benedizione degli animali, e allora la chiesa si riempie di cani e gatti (obbligatorio portarsi dietro i padroni). Negli anni ci abbiamo visto anche un paio di furetti, un visone, una capra e una piccola volpe. Promesso, il prossimo 17 ci saremo a documentare altre eventuali, forse inquietanti, presenze.
Torniamo alla musica. Meno male che al parroco è piaciuta l’idea dei lumini. “Pazienza - ha detto - se cade della cera sul pavimento, lo puliremo”. E così Gasbarro ha potuto creare quella miracolosa atmosfera in cui ha immerso, affidandolo alla Cappella Mariana, il suo concerto di autori del ‘500, epoca in cui la musica come la conosciamo oggi era ancora in gestazione, o appena nata.
Brani solo vocali che ancora non inseguono effetti virtuosistici, né si appoggiano alle grandi masse corali delle epoche successive. Pura musica da meditazione. Suoni che, dobbiamo ammetterlo, complici l’oscurità e l’efficiente riscaldamento della chiesa, più di una volta nel corso dell’esecuzione ci hanno fatto scivolare in una lieve, e riteniamo non colpevole, sonnolenza; quasi una blanda estasi mistica.

Sghignazzi di fine anno
A questo punto, dopo tanto rispettoso misticismo, ci tocca fare spazio a una bella sghignazzata, che nasconde un rigurgito di rabbia. E ce la facciamo, questa sghignazzata, leggendo un dolente articolo di Federico Fubini che parla, guarda un po’, della disastrosa gestione della cultura in Italia.
Noi facciamo quasi quotidiane visite ai musei, soprattutto, ma non solo, a Roma. Alla fine delle quali ci confrontano due costanti: l’immensa (delle volte anche eccessiva) quantità di arte esposta, che ci piazza, come sappiamo, in testa al resto del mondo; e la scadentissima qualità dei servizi: bar, ristoranti, librerie, vendita di souvenir, custodi, perfino gabinetti, che invece ci condanna a una sempiterna coda.
Pochissimi numeri, e poi la piantiamo lì per il 2014. La vendita dei biglietti di tutti i musei, siti archeologici, castelli e palazzi rende in Italia 380 milioni di euro l’anno. Meglio non confrontarsi con le cifre, dozzine di volte superiori, di altri paesi europei. Però quanto segue lo dobbiamo dire: paragonati ai 380 milioni di tutta una nazione, la nostra, il Louvre da solo porta ogni anno alla Francia due miliardi e mezzo!
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